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Intervista a Guido Vignelli

 

Un “nuovo lessico” per una “pastorale rivoluzionaria”

La impostazione dei due Sinodi sulla famiglia

 

 

Il dibattito intorno ai due Sinodi dei vescovi ha suscitato reazioni opposte. Alcuni commentatori hanno concluso che i Sinodi non hanno cambiato nulla di sostanziale. Ma è proprio così? Abbiamo intervistato Guido Vignelli, per venti anni direttore del “Progetto SOS Ragazzi”, già componente della Commissione sulla Famiglia presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, autore di un libretto di prossima pubblicazione, proprio sui problemi sollevati dalla nuova pastorale.

 

 

Dottor Vignelli, si prevedono cambiamenti nella pastorale familiare?

Sia i due Sinodi episcopali, sia la conseguente esortazione pontificia Amoris laetitia, hanno proposto «un nuovo lessico che rivoluziona la pastorale», come avverte il quotidiano della C.E.I. Avvenire (24 aprile 2016). Si può quindi prevedere che questo “lessico rivoluzionario” eserciterà sempre maggiore influenza non solo nella problematica familiare ma anche nella intera vita della Chiesa.

A chi sostiene che questa svolta cambierà la pastorale ecclesiale non nella sostanza, ma solo nello “stile” di esprimersi e di agire, bisogna obiettare che è proprio questo campo delicato e scivoloso a fare problema. I mutamenti nel linguaggio e nella prassi possono essere decisivi perché, quando il modo di esprimersi e di agire cambia, anche le cose tendono a cambiare

. Il messaggio sinodale s’impone non tanto per le sue diagnosi e terapie, quanto per la sua esplicita intenzione di promuovere una «conversione» del linguaggio e della prassi che favorisca un «roves- ciamento di prospettiva» nella pastorale familiare, come hanno detto i cardinali che hanno presentato alla stampa l’esortazione pontificia. La “conversione” consiste nell’adeguare criteri, metodi e mezzi ecclesiali (compresi i Sacramenti!) alla pretesa dell’uomo moderno di agire seguendo la propria coscienza. Il “rovesciamento” consiste nel porre non più i mezzi al servizio del fine, bensì il fine al servizio dei mezzi, ossia nel porre verità e legge evangeliche al servizio della pastorale ecclesiale.

A tal fine, i Sinodi hanno avviato una pericolosa tendenza a considerare il modello evangelico del matrimonio e della famiglia come se fosse una teoria bella ma astratta e troppo difficile da realizzare, che quindi bisogna adeguare alle situazioni mediante eccezioni, deroghe e licenze. In questo modo, però, l’ideale evangelico del matrimonio e della famiglia perde il suo rigore ideale, e con questo anche la sua forza di seduzione e di attrazione.

 

Quali cambiamenti sono favoriti dal nuovo linguaggio sinodale?

Il nuovo linguaggio sinodale è dominato da alcune parole-chiave che – mediante correlative massime, formule e slogan – impostano i problemi esaminati e orientano le soluzioni proposte in modo da suggerire un cambiamento sostanziale dell’intera prassi ecclesiale.

In astratto, queste parole-chiave sono comuni e innocenti. In concreto, però, esse sono inserite in un contesto che attribuisce ad esse un significato fuorviante, esercitando una pericolosa influenza su chi le usa, manipolandone sensibilità e mentalità mediante una tecnica di persuasione psicologica occulta impiegata dai sistemi propagandistici, ad esempio da quello pubblicitario.

È per questo che tali parole possiamo definirle “talismaniche”, assimilandole alle formule magiche. Esse cioè non si limitano a esprimere ciò che significano (una idea, un valore, un giudizio), ma tendono a realizzare ciò che significano, ossia a produrre un effetto (una scelta, una posizione, un comportamento) capace di sedurre un ascoltatore ingenuo o conformista. Chi usa tali parole quindi viene inconsciamente spinto in una precisa direzione, fino ad essere “trasbordato” da una posizione vecchia a una nuova. Questo tipo di parole e lo sleale meccanismo che innescano fu egregiamente analizzato dal prof. Plinio Corrêa de Oliveira, nel suo saggio intitolato «Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo» (1965, nuova edizione italiana Il Giglio, Napoli 2012).

 

Quali sono le “parole talismaniche” emerse dai due Sinodi?

Secondo autorevoli protagonisti e osservatori, le parole-chiave dominanti nel dibattito sinodale sono state le seguenti: pastorale – misericordia – ascolto – discernimento – accompagnamento – integrazione. In effetti, queste parole ricorrono molto spesso negli atti ufficiali: pastorale 90 volte, misericordia 48, discernimento 45, accompagnamento 102; la parola integrazione ricorre solo 24 volte ma, se la uniamo alla parola che la presuppone, ossia accoglienza, 74, fanno in totale 98 volte. Vi sono state altre parole ricorrenti, come complessità, approfondimento, sfida, che però non sembrano avere l’importanza delle precedenti.

Queste parole sono legate tra loro. La nuova pastorale esige di trattare con misericordia le situazioni matrimoniali e familiari immorali, per cui non bisogna giudicarle eticamente bensì porsi in ascolto delle loro esperienze ed esigenze, in modo da discernere in esse quanto c’è di “autentico” per accompagnarle verso una processo di accoglienza che si compia nella piena integrazione nella comunità ecclesiale.

Se considerate nei loro rapporti, le parole dominanti nel Sinodo si spiegano e si sostengono a vicenda, suggerendo una nuova impostazione che spinge il cristiano a passare da una concezione rigorosa a una permissiva non solo della pastorale ma anche della morale familiare, dipendente dai tempi, dai luoghi e dalle situazioni, dunque fondata su criteri non più assoluti (ossia universali e necessari) ma relativi (ossia particolari e soggettivi). Ne deriva il paradosso che un cristiano potrebbe lecitamente e canonicamente considerarsi ed essere considerato giusto e innocente, anche se si ostina a vivere in uno stato che viola gravemente i comandamenti che riguardano la castità matrimoniale: “simul justus et peccator”, come pretendeva Lutero!

 

Quale pastorale e quale morale emergono da queste parole sinodali ricorrenti?

Quelle parole preparano non tanto una riforma della pastorale, quanto una sua rivoluzione in senso relativistico e permissivo. È una rivoluzione in senso relativistico, perché la diagnosi delle situazioni familiari non è più basata sulla loro valutazione morale oggettiva, ma sul constatarne l’esperienza psicologica soggettiva, col pericolo di far perdere alle coscienze quel senso del peccato già così offuscato. È anche una rivoluzione in senso permissivo, perché la terapia delle situazioni immorali si riduce a usare palliativi che, ben lungi dal rimuovere le cause del male, ne alleviano solo i sintomi, ossia le conseguenze dolorose, col risultato di eludere la cura e di cronicizzare il vizio.

 

Qual è il fulcro della nuova impostazione sinodale?

Il fulcro della prospettiva sinodale sta nella impostazione pastorale e la sua anima consiste nel primato della misericordia. Il problema è che qui entrambe tradiscono la loro missione. Nell’ansia di giustificare le situazioni peccaminose, la pastorale tende ad eludere la verità rivelata; nell’ansia di sottrarre quelle situazioni alla condanna morale, la misericordia può tendere ad eludere la giustizia divina. Ne risultano una pastorale relativistica e una misericordia permissiva, incapaci di illuminare gli erranti e di convertire i peccatori.

In tal modo, il peccatore viene non tanto perdonato quanto scusato a priori accampando attenuanti, ad esempio il fatto di vivere in una situazione matrimoniale o familiare “difficile” che si pretende immodificabile. Pertanto si tende ad essere miseri- cordiosi non solo con il peccatore (che può convertirsi) ma anche con la sua situazione peccaminosa (che non può convertirsi ma anzi deve sparire); non ci si limita ad «odiare il peccato e amare il peccatore», come stabilisce sant’Agostino, ma si giunge a giustificare il peccato e ad assolvere il peccatore impenitente, concedendogli perfino l’accesso alla santa Comunione senza previa riparazione. Una tale misericordia è contraria all’insegnamento della Chiesa, compresa l’enciclica Dives in misericordia di Papa Giovanni Paolo II.

 

Qual è il presupposto implicito in questa rivoluzione pastorale?

La nuova morale familiare si basa sul presupposto che gli operatori pastorali debbano usare solo gli strumenti del “dialogo”, della persuasione e dell’esempio, rinunciando al rimprovero, alla denuncia, alla condanna e alla punizione del peccatore, ritenuti metodi non misericordiosi. Di conseguenza, per quanto la sua colpa sia ostinata, pubblica e scandalosa, nessun peccatore può essere emarginato o espulso dalla comunità ecclesiale. Quel permissivismo che ieri era accordato solo agli erranti, oggi viene esteso ai pubblici peccatori… ad eccezione ovviamente di coloro che violano i nuovi comandamenti alla moda, ad esempio inquinando la natura, eludendo le tasse e non accogliendo gl’immigrati! Se questo “buonismo” fosse applicato rigorosamente, nessuna società potrebbe conservarsi a lungo, nemmeno quella divina della Chiesa, perché i tribunali diventerebbero illeciti e quindi verrebbero aboliti; accadrà così anche per quelli ecclesiali?

 

Non esistono anche motivi di una speranza non sentimentale ma razionale sul futuro della famiglia?

Nonostante la stessa analisi sinodale ammetta che il quadro dell’attuale situazione familiare sia complessivamente disastroso, le indagini sociologiche e statistiche rivelano anche alcuni segni di speranza per il futuro. Infatti esse dimostrano che il desiderio di famiglia sta crescendo proprio fra quei giovani, nonostante essi siano sempre più impediti a farsene una dagli ostacoli frapposti da cultura, politica ed economia nemiche della castità, della stabilità e della procreazione. È forse anche per pervertire questa sana tendenza giovanile, che la propaganda rivoluzionaria tenta di stravolgere il concetto stesso di famiglia rendendolo “pluralistico”, ossia includendovi tutte le possibili forme di convivenza (omosessuale compresa). Motivo di più per spingere i cristiani a difenderne la vera identità e definizione. Ne va della stessa sopravvivenza dell’umanità, quindi anche della Chiesa.