Il giorno in cui l’Occidente morì
di Julio Loredo
Ci sono certi eventi che echeggiano nella storia e nell’eternità come solenni rintocchi di campane. Alcuni sono festosi, come la proclamazione del dogma dell’Assunzione di Maria, il 1° novembre 1950. Altri, invece, sono rintocchi a morto, come la caduta di Costantinopoli, il 29 maggio 1453, che segnò la fine dell’Impero bizantino e aprì le porte dell’Europa all’islam.
Il 15 agosto 2021, giorno dell’ingresso dei talebani a Kabul, sarà ricordato nella storia come il giorno in cui l’Occidente morì. Non nel senso che abbia tout court smesso di esistere come entità politica, economica e culturale, ma nel senso che si è reso palese che non ha nessuna voglia di vivere. Sembra che il “declino americano” – in realtà occidentale – abbia toccato il fondo.
L’Occidente già non aveva voglia di vivere quando, a Doha, l’amministrazione Trump patteggiava con i talebani il ritiro delle truppe americane. Anche se l’ex presidente Trump e il suo Segretario di Stato Pompeo dicono che quegli accordi prevedevano una ritirata in ordine, e non lo scempio che abbiamo visto, e che avrebbero salvato le vite umane che andavano salvate ed evitato di lasciare in mano ai terroristi un arsenale moderno e letale, rimane il fatto di essersi fidati delle promesse di estremisti islamisti disposti a tutto, pronti a praticare la taqiyya islamica che permette di ingannare la controparte senza nessun limite quando si tratta di favorire la propria causa, il che mostra quanto gli occidentali abbiamo perso l’avvedutezza che una volta li caratterizzava.
Oggi l’Occidente si lamenta che il nuovo Emirato non abbia incluso alcuna donna al governo e, anzi, che stia restringendo sempre di più la loro libertà. “Non sembra la formazione inclusiva e rappresentativa in termini di ricca diversità etnica e religiosa dell’Afghanistan che speravamo di vedere e che i talebani avevano promesso nelle ultime settimane”, ha affermato Peter Stano, portavoce dell’ufficio per la politica estera dell’UE. Davvero? Una delle due: o sapevano che sarebbe andata così e, quindi, sono da ritenere degli ipocriti; oppure non lo sapevano, e quindi sono da ritenere degli sprovveduti che non meritano di avere in mano la politica estera europea.
Ben diceva il deputato britannico Sir Iain Duncan: “Questo è una vergogna per gli Stati Uniti e per tutto l’Occidente”. Un Paese che non prova più vergogna è un Paese pronto a essere inghiottito dalla storia.
La caduta dell’Afghanistan è un chiaro segnale al terrorismo islamista: avete le mani libere! Con la ricostituzione del “Califfato che minaccia l’Occidente” (Massimo Giannini, su La Stampa), si ripresenta in tutta la sua pericolosità la sfida islamista, precisamente vent’anni dopo quell’11 Settembre.
La fuga dall’Afghanistan segna la ritirata dell’Occidente come potenza egemonica. Ne hanno approfittato Russia e Cina che, contrariamente a quanto fatto dai paesi occidentali, non hanno chiuso le proprie ambasciate. Anzi, la Russia era perfettamente preparata a questa eventualità. Nonostante i talebani siano ancora nella lista nera del Governo, prevedendo la ritirata americana, il Cremlino ha cominciato a trattare con loro. “Manteniamo contatti con i talebani da più di sette anni, abbiamo discusso molte questioni – ha dichiarato l’inviato speciale del Cremlino in Afghanistan Zamir Kabulov – Noi vediamo i talebani come una forza che giocherà un ruolo di primo piano”. Un mese prima della caduta di Kabul, una delegazione afghana di alto livello si è recata a Mosca per assicurare i russi che i loro interessi non correvano nessun rischio. “Abbiamo eccellenti rapporti con la Russia”, ha dichiarato Mohammad Sohail Shaheen, portavoce dei talebani.
E anche la Cina alza i toni. A metà agosto, un portavoce del governo di Pechino ha avvertito: “La caduta dell’Afghanistan prepara quella di Taiwan. Siamo sicuri che l’Occidente non la difenderà”. Il portavoce del ministero degli Esteri Zhao Lijian ha più volte paragonato la ritirata dall’Afghanistan alla caduta di Saigon, che aprì le porte del Sudest asiatico al comunismo. Mentre il suo collega Hua Chunying ha definito gli Stati Uniti “distruttivi”, aggiungendo che “ovunque gli Stati Uniti mettono piede... vediamo turbolenze, divisioni, famiglie distrutte, morti e altre cicatrici”. Non sorprende, dunque, che i leader della regione siano molto preoccupati. “Tutti stiamo guardando agli Stati Uniti per vedere come si riposizionano”, ha dichiarato il Primo Ministro di Singapore, Lee Hsien.
Taiwan, Corea del Sud e Giappone – i principali alleati USA nella regione – non sono certo l’Afghanistan. La ritirata di agosto, però, ha gettato un’alone di dubbio sull’affidabilità degli americani nel continuare a giocare un ruolo mondiale. E il viaggio in Oriente di Kamala Harris per rassicurare gli alleati non l’ha affatto dissipata.
L’Occidente non sembra disposto a difendere l’Oriente come non sta difendendo l’America Latina. Dopo un periodo di relativa tranquillità, il comunismo – quello vero, stalinista e amico della guerriglia – si sta riprendendo il continente. Negli ultimi due anni, sei paesi della regione sono caduti nelle mani di regimi ispirati a forme di marxismo-leninismo, senza che l’Occidente se ne sia nemmeno accorto. L’ultimo è stato il Perù, dove è salita al potere un’alleanza di ex-terroristi guevaristi. È come se in Italia governassero le Brigate Rosse insieme a Lotta Continua. Questi regimi di estrema sinistra sono alleati geopolitici della Russia e della Cina, che così rafforzano enormemente la loro presenza nel continente.
E mentre i nemici dell’Occidente attaccano, quest’ultimo si preoccupa di trovare forme sempre più efficaci per suicidarsi: aborto, eutanasia, omosessualismo… Si racconta che i teologi di Bisanzio discutessero sul sesso degli angeli mentre i turchi assalivano le mura della città. Che cosa dirà la posterità di un mondo che discute se un uomo è un uomo e una donna, una donna?
Già indeboliti da una crisi d’identità, sin dal 2019 gli Stati Uniti sono scossi da una ribellione anarchico-comunista – che va sotto diversi nomi, come Black Lives Matter, Woke e Cancel Culture – la cui idea base è quella di cancellare la cultura occidentale, distruggendone i simboli. Questo movimento si è esteso ad altri Paesi, come lGran Bretagna, Cile e Colombia.
Riflette Gennaro Malgieri: “Mi torna alla memoria un gran libro del 1964 sul quale, purtroppo, si è depositata la polvere: Il suicidio dell’Occidente. Un saggio sul significato e sul destino del liberalismo americano. L’autore è James Burnham, vecchio trotzkista divenuto guru del conservatorismo americano nel dopoguerra. Gridava ancora quel libro alla nostra ignavia e ci metteva in guardia dai barbari che premono alle frontiere. I barbari del pensiero e delle idee che si sarebbero trasformati in miserabili delinquenti appostati dietro le formulette ideologiche pronti a colpire brutalmente il loro e il nostro mondo. Il ‘suicidio’ da tempo si è manifestato in forme particolarmente crudeli. Ma soltanto oggi con l’attentato sistematico e violento alla nostra memoria ne prendiamo contezza davanti alla vile pretesa di abbattere i simboli stessi dell’Occidente, come se demolendo una statua si possa cancellare un’intera civiltà”.
Black Lives Matter e Woke sono, infatti, solo la punta dell’iceberg di un profondo malessere che corrode l’Occidente e lo porta verso l’autodistruzione.
Se tutto questo fosse vero, ma la Chiesa fosse salda, potremmo dire con tranquillità: Stat Crux dum volbitur orbis! Purtroppo, anche la Santa Chiesa di Dio ha raggiunto un grado di autodistruzione mai sognato prima. Col motu proprio Traditiones custodes Papa Francesco ha palesato ancor di più il proposito di distruggere quanto possa rimanere in piedi della società spirituale.
Ma la Provvidenza ha le sue vie…
Nel 1571 la Cristianità medievale non c’era più. Corrosa dallo spirito umanista e rinascimentale, spaccata dallo scisma luterano, indebolita dalle politiche machiavelliche, in balìa dei godimenti sensuali che la nascente modernità offriva, l’Europa sembrava un frutto marcio pronto a cadere nelle mani di un popolo guerriero e credente, anche se nell’errore: l’Impero Ottomano. Nessuno parlava più di crociata. Le stesse guerre di contenimento contro il nemico musulmano, per esempio nell’Adriatico, erano dettate più da motivi politici e strategici che religiosi. Le crociate erano ormai un ricordo scomodo del passato.
Eppure, qualcosa risuonò nel più profondo dell’anima europea. Un vento di crociata soffiò impetuoso. Papa San Pio V lanciò un nuovo appello Deus vult! Se ne fecero eco alcuni principi cristiani, in primis Filippo II di Spagna, allora signore anche di parte dell’Italia. Il 7 ottobre 1571 si combatté la battaglia navale di Lepanto, “la più grande giornata che videro i secoli”, nelle parole dello scrittore Miguel de Cervantes, che vi prese parte, perdendo perfino una mano. Motivo per il quale è chiamato “il monco di Lepanto”. Alla fine della giornata, contro ogni previsione, i cristiani avevano riportato una vittoria così schiacciante da fermare definitivamente l’avanzata marittima dei turchi. Non mancò chi intravedesse una rinascita dell’antica cavalleria.
La battaglia, piena di miracoli e di fatti prodigiosi, si combatté sotto la protezione di Maria Ausiliatrice. Papa San Pio V vide misticamente l’esito dello scontro mentre si trovava in Vaticano, e aggiunse l’invocazione “Auxilium Christianorum” alla Litania lauretana. Lepanto fu un trionfo di Maria. E questo fu riconosciuto da tutti. Nella Sala del Consiglio, nel Palazzo ducale di Venezia, si può ammirare un immenso dipinto della battaglia con sopra le parole: “Non virtus, non arma non duces sed Maria Rosarii victores nos fecit” - Non il valore, non le armi non i condottieri, bensì Maria del Rosario ci ha dato la vittoria.
Nel commemorare i 450 anni della battaglia, preghiamo Maria Santissima che faccia soffiare un nuovo vento di crociata perché possiamo combattere i nemici odierni della Chiesa e della Civiltà cristiana, mille volte peggiori e più insidiosi dei musulmani turchi di allora.
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