Afghanistan

  • 2001 – 2021: l’Occidente nella tenaglia

     

     

    Nel 2001 due eventi scossero l’Occidente. A luglio, l’ondata di violenza selvaggia a Genova, in occasione della riunione dei capi di Stato del G8, perpetrata da gruppi anarchici “no global”, tra i quali i Black Block, che avevano già messo a ferro e fuoco diverse città europee e americane. A settembre, l’attentato terroristico alle Torri Gemelle di New York, che portò sullo scenario mondiale la jihad islamista. L’Occidente fu preso nella morsa di una tenaglia: mentre un nemico interno sgretolava le sue istituzioni, un nemico interno lo assaliva militarmente. Due movimenti convergenti con un identico scopo: distruggere ciò che resta della civiltà occidentale e cristiana.

    Vent’anni dopo, ecco che si ripresenta uno scenario non molto diverso. Da una parte la violenza di movimenti anarchici come Black Lives Matter, Woke e Cancel Culture, la cui idea base è quella di cancellare la cultura occidentale, distruggendone i simboli. Dall’altra parte, la ritirata americana dall’Afghanistan, con la ricostituzione di un Emirato islamico.

    Proponiamo in merito un articolo pubblicato sulla rivista Tradizione Famiglia Proprietà, novembre 2001. Mutatis mutandis, sembra scritto proprio per i nostri giorni.

     

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    Addio al buonismo

     

    di Julio Loredo

     

    Dicono che quando venne varato il Titanic, quel favoloso palazzo galleggiante che fu un po’ il paradigma del nascente secolo XX, qualcuno commentò: “Neppure Dio lo affonda!” Ma Dio non si sfida. Il mitico transatlantico andò a fondo proprio durante il suo viaggio inaugurale…

    Poco tempo dopo, la stessa frivola e rutilante Belle Époque naufragava nel gorgo della I Guerra mondiale. Si apriva cosà il secolo forse più sanguinoso della storia.

    Immemore di queste lezioni, allo scoccare del Capodanno 2000, un mondo in delirio salutava l’ingresso nel secolo XXI con sfarzosi festeggiamenti, quasi intendesse auspicare un futuro gaudioso all’insegna di una post-modernità secolarizzata e tecnologicamente avanzata. Invece…

    Il sogno del secolo XX è svanito nel 1914. Quello del secolo XXI è durato molto meno.

    A luglio, abbiamo assistito stupefatti all’inaudita violenza di orde neobarbariche, le quali, piombate sulla città di Genova, l’hanno messa a ferro e fuoco in nome di una non meglio precisata ideologia “no-global”. La devastante violenza dei rivoltosi, l’odio tenebroso dei Black Block, il delirio distruttivo dei manifestanti, ci hanno risvegliato a quella che è la dura ed inquietante realtà: la Rivoluzione è scesa nuovamente in piazza.

    Ancora sotto shock per i fatti di Genova, ecco che l’11 settembre i canali televisivi ci trasmettono in diretta una scena inverosimile, apocalittica, quasi surreale se non fosse tragicamente reale: due Boeing dirottati da terroristi musulmani fanatici si schiantano contro le Torri Gemelle del World Trade Center, nel cuore di Manhattan, abbattendoli come birilli assieme ad altri cinque grattacieli. Era scoppiata la prima guerra del nuovo millennio!

    Cogliendo il senso profondo dell’avvenimento, un importante uomo d’affari italiano sospirava: “Contemplando il crollo di quelle torri ho visto crollare il mio mondo!”.

    Oltre a distruggere le due torri, quegli aerei hanno infatti polverizzato più di un mito sui quali poggiava una certa mentalità ritenuta moderna. Una prima “vittima eccellente” dell’attentato dell’11 settembre è stato senz’altro il buonismo, ossia l’illusione di poter costruire un mondo di pace a prescindere dall’esistenza di quel “mistero di iniquità” frutto del peccato originale, e rinunciando quindi a combatterlo in ogni sua manifestazione. Frutto di questo buonismo sono stati l’irenismo, il pacifismo, il multiculturalismo, l’ecumenismo ed altri “ismi” che hanno minato l’Occidente cristiano, rendendolo vulnerabile.

    Possiamo considerare il laicismo un’altra di queste vittime. Quelle due torri non sono state abbattute da un’ideologia politica, ma da una religione. Piaccia o meno ai pontefici laici del “politiccally correct”, alle soglie del Terzo Millennio, secondo l’opinione di molti, ci troviamo davanti a quello che essi vorrebbero fosse appena una reminiscenza del medioevo: una guerra di religione. Prima o poi, l’Occidente si accorgerà che per vincerla dovrà ricordare le sue radici.

    A questo proposito vengono in mente le opportune parole del cardinale Giacomo Biffi, di Bologna: “L’Europa o ridiventerà cristiana o diventerà musulmana. (…) Questa cultura del niente non sarà in grado di reggere all’assalto ideologico dell’islam, che non mancherà. Solo la riscoperta dell’avvenimento cristiano come unica salvezza per l’uomo – e quindi una decisa risurrezione dell’antica anima dell’Europa – potrà offrire un esito diverso a questo inevitabile confronto”.

    A questo punto sorge la domanda di fondo: ci sono le avvisaglie di questa risurrezione? Chi vivrà vedrà!

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  • Con la caduta dell’Afghanistan, entriamo in un pericoloso mondo nuovo

    di John Horvat

    Con la caduta dell'Afghanistan sotto i talebani, possiamo dire che l'era apertasi l’11 settembre 2001 è ufficialmente finita. La risposta americana all'attacco terroristico del 2001 è conclusa. Siamo entrati nell'era post-11 settembre che riflette tristemente il decadimento delle nostre istituzioni e della nostra determinazione.

    In effetti, in questi venti lunghi anni l'America è cambiata. L'edificante senso di unità e patriottismo che allora ci legavano si sono trasformati in discordia frammentata e polarizzata. La nostra robusta economia ha subito due grandi tracolli ed è ora impantanata nel debito, nella spesa pubblica e nei controlli socialisti.

    Il Covid si è preso centinaia di migliaia di vite, ha rimescolato le nostre certezze e ha mandato in frantumi la nazione. Soprattutto potremmo ricordare che se nel 2001 abbiamo potuto guardare brevemente a Dio dal profondo della nostra grande afflizione, questa volta invece, nella pandemia, con le persone lasciate fuori dalle chiese, Lo abbiamo dimenticato.

    Ora, la terribile e rapida spada della nostra potenza militare è stata umiliata dall'inetta leadership della nazione. Il vuoto lasciato dalla nostra sconfitta ci rivela i pericoli del mondo post-11 settembre che ci attende.

     

    L'obiettivo è l'America

    Il mondo all’indomani dell’11 settembre si concentrò sulla difesa dell'ordine del dopoguerra dalle minacce del terrorismo e della disintegrazione, richiedendo organizzazione, sacrificio e impegno. Dovendo giudicare gli atti irrazionali compiuti dai terroristi su persone innocenti, vennero riprese le nozioni di bene e di male. In gioco c'era la sopravvivenza dell'Occidente, nonostante tutti i suoi difetti.

    Ora entriamo in un pericoloso mondo nuovo che si propone come obiettivo anche la distruzione del modello americano e che presuppone uno stato di cose senza regole rigide, né giudizi morali né confini definiti. Questo stato di cose invita l'America ad abbandonare la sua posizione combattiva contro il disordine e ad adottare una posizione cinicamente isolazionista. In gioco ci sono le premesse fondamentali di chi siamo.

    Di sicuro, non saremo dimenticati in questa era post-11 settembre. Possiamo essere certi che i nostri nemici ci attaccheranno perché sosteniamo i sistemi unificati, razionali e universali che assicurano la prosperità occidentale. Anche nella nostra attuale debolezza, siamo ancora un ostacolo al nuovo mondo anarchico, verde ed egualitario immaginato dagli ideologi dell’Oriente e dell’Occidente.

     

    Il nemico alle nostre porte

    Affrontiamo due nemici in questa guerra. Il primo sono le minacce esterne che si accavallano alle nostre porte per minare, sostituire e riempire il vuoto creato dalla nostra inettitudine. L’avversario vede e sfrutta le nostre debolezze, stimolando la nostra mediocrità così priva di spina dorsale.

    La Cina comunista è una di queste minacce esterne. Il regime rosso cinese minaccia di inghiottire il mondo con il suo sistema ateo e comunista che ha ucciso decine di milioni di persone, perseguitato la Chiesa e ora cerca di dominare il mondo. Sulla scia della Cina si schierano Cuba, Venezuela, Corea del Nord e marxisti di tutto il mondo che cospirano per minare l'influenza americana. Di particolare preoccupazione è la crescente alleanza tra Russia e Cina.

    L'altro nemico è l'Islam radicale che ha dichiarato una jihad contro l'America e l'Occidente cristiano. Gli islamisti in Iran, Turchia, Libano, Siria, Pakistan e ora in Afghanistan fanno leva su questi stati-nazione contro di noi. Altri islamisti seminano il caos nel Grande Sahel. Il loro fondamentalismo rimanda a un passato lontano e selvaggio e risulta da un Islam congegnato su misura e mistificato per essere un potente rifiuto di tutto ciò che è occidentale.

    Tutti questi nemici continueranno ad attaccarci perché resistiamo ancora alla marcia verso le loro utopie sia marxiste sia islamiste. Questi nemici esterni possono avere metodi, orientamenti e obiettivi diversi, ma condividono la loro ostilità verso l'Occidente. Prendono di mira l'America in quanto manifestazione più visibile degli ideali occidentali e vagamente cristiani. Pensano a ragione che se l'America crolla, crollerà tutto ciò che, nel bene e nel male, è occidentale.

     

    Ma l’avversario più grande è il nemico interno

    Per quanto pericolosi siano i nemici esterni, il più grande nemico dell'America è quello interno. Anche questo è deciso a distruggere tutto ciò che rappresenta la civiltà cristiana occidentale. I suoi sostenitori cercano di sovvertire tutto quanto possa essere stato ispirato dal cristianesimo: il nostro stato di diritto, i diritti di proprietà e la libera impresa, la morale pubblica, la famiglia, l'istruzione, la religione, la cultura e la società civile. I sostenitori della “teoria critica della razza” (Critical Race Theory), per esempio, riscrivono la storia per annullare tutto ciò che è cristiano e occidentale.

    L'establishment liberale delle grandi corporation partecipa spensieratamente a questo andazzo suicida, incentivando il sentimento antiamericano. I suoi media si fanno eco delle proposte radicali della sinistra. Le figure che agiscono nelle strutture putrescenti del mondo accademico amplificano la “correttezza politica”, la “wokeness"[1] e la decostruzione dell'Occidente.

    L'America ha commesso errori nel corso della sua storia. Tuttavia, non sono questi l'obiettivo di coloro che all'interno dell'America lavorano per la nostra rovina. Il vero obiettivo è l'ordine cristiano, ovvero tutte quelle strutture, costumi e tradizioni che rispecchiano anche lontanamente la Cristianità e la società che essa ha forgiato. Qualsiasi dimostrazione di gerarchia, identità e persino prosperità è condannata e, al fine di spaccare la nazione, viene subito inquadrata nella logora narrativa della lotta di classe. Tutto è fatto per far sì che gli americani odino chi sono.

     

    Il mondo dopo l'11 settembre e quello di oggi

    Il mondo di oggi, pertanto, rappresenta un pericolo maggiore di quello di questi ultimi vent'anni. L'attacco dell'11 settembre ha mostrato chiaramente all’America il nemico, mentre la nostra situazione attuale è contrassegnata dall'incertezza. L’11 settembre ha unificato la nazione nella tragedia e nel dolore; oggi, siamo frantumati in mille cocci di caos e odio.

    Il primo passo per affrontare questa nuova minaccia è riconoscere l'obiettivo dei nostri nemici: distruggere l'America e rovesciare tutto ciò che è cristiano e occidentale. Pertanto, dobbiamo continuare a impegnarci nella lotta per la nostra cultura. Dobbiamo riorganizzarci, ricostruire e combattere più che mai, qui e altrove, ovunque l'Occidente cristiano sia minacciato.

    Tuttavia, dobbiamo anche ammettere umilmente e con spirito di preghiera che i problemi che abbiamo di fronte sono al di là delle soluzioni umane. Il nostro peccaminoso ordine liberale è esaurito e consumato e non può rigenerare l'Occidente. Se l'America e l'Occidente devono sopravvivere, dobbiamo ritornare all'ordine, a quella sorgente da cui siamo scaturiti per la prima volta. Dobbiamo riconnetterci con quel potente messaggio cristiano che un tempo cambiò la faccia della terra. Dobbiamo pentirci delle nostre iniquità e correggere le nostre vite come richiesto dalla Madre di Dio a Fatima. Allora e solo allora ci sarà speranza. Aiutati dalla grazia sublime di Dio, saremo proporzionati e pronti per il conflitto universale che si presenta davanti a noi.

     

    Note

    1. Secondo la definizione del Dizionario di Cambridge, wokeness, cioè una sorta di risveglio, è “uno stato di consapevolezza, in particolare dei problemi sociali come il razzismo e la disuguaglianza”. Nella pratica si tratta di un movimento di agitazione socio-politica della nuova sinistra occidentale a proposito dei suddetti temi e di ogni altro che venga percepito come materia di discriminazione o oppressione.

     

    Fonte: tfp.org, 31 agosto 2021. Traduzione a cura di Tradizione Famiglia Proprietà - Italia

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  • Il giorno in cui l’Occidente morì

    di Julio Loredo

    Ci sono certi eventi che echeggiano nella storia e nell’eternità come solenni rintocchi di campane. Alcuni sono festosi, come la proclamazione del dogma dell’Assunzione di Maria, il 1° novembre 1950. Altri, invece, sono rintocchi a morto, come la caduta di Costantinopoli, il 29 maggio 1453, che segnò la fine dell’Impero bizantino e aprì le porte dell’Europa all’islam.

    Il 15 agosto 2021, giorno dell’ingresso dei talebani a Kabul, sarà ricordato nella storia come il giorno in cui l’Occidente morì. Non nel senso che abbia tout court smesso di esistere come entità politica, economica e culturale, ma nel senso che si è reso palese che non ha nessuna voglia di vivere. Sembra che il “declino americano” – in realtà occidentale – abbia toccato il fondo.

    L’Occidente già non aveva voglia di vivere quando, a Doha, l’amministrazione Trump patteggiava con i talebani il ritiro delle truppe americane. Anche se l’ex presidente Trump e il suo Segretario di Stato Pompeo dicono che quegli accordi prevedevano una ritirata in ordine, e non lo scempio che abbiamo visto, e che avrebbero salvato le vite umane che andavano salvate ed evitato di lasciare in mano ai terroristi un arsenale moderno e letale, rimane il fatto di essersi fidati delle promesse di estremisti islamisti disposti a tutto, pronti a praticare la taqiyya islamica che permette di ingannare la controparte senza nessun limite quando si tratta di favorire la propria causa, il che mostra quanto gli occidentali abbiamo perso l’avvedutezza che una volta li caratterizzava.

    Oggi l’Occidente si lamenta che il nuovo Emirato non abbia incluso alcuna donna al governo e, anzi, che stia restringendo sempre di più la loro libertà. “Non sembra la formazione inclusiva e rappresentativa in termini di ricca diversità etnica e religiosa dell’Afghanistan che speravamo di vedere e che i talebani avevano promesso nelle ultime settimane”, ha affermato Peter Stano, portavoce dell’ufficio per la politica estera dell’UE. Davvero? Una delle due: o sapevano che sarebbe andata così e, quindi, sono da ritenere degli ipocriti; oppure non lo sapevano, e quindi sono da ritenere degli sprovveduti che non meritano di avere in mano la politica estera europea.

    Ben diceva il deputato britannico Sir Iain Duncan: “Questo è una vergogna per gli Stati Uniti e per tutto l’Occidente”. Un Paese che non prova più vergogna è un Paese pronto a essere inghiottito dalla storia.

    La caduta dell’Afghanistan è un chiaro segnale al terrorismo islamista: avete le mani libere! Con la ricostituzione del “Califfato che minaccia l’Occidente” (Massimo Giannini, su La Stampa), si ripresenta in tutta la sua pericolosità la sfida islamista, precisamente vent’anni dopo quell’11 Settembre.

    La fuga dall’Afghanistan segna la ritirata dell’Occidente come potenza egemonica. Ne hanno approfittato Russia e Cina che, contrariamente a quanto fatto dai paesi occidentali, non hanno chiuso le proprie ambasciate. Anzi, la Russia era perfettamente preparata a questa eventualità. Nonostante i talebani siano ancora nella lista nera del Governo, prevedendo la ritirata americana, il Cremlino ha cominciato a trattare con loro. “Manteniamo contatti con i talebani da più di sette anni, abbiamo discusso molte questioni – ha dichiarato l’inviato speciale del Cremlino in Afghanistan Zamir Kabulov – Noi vediamo i talebani come una forza che giocherà un ruolo di primo piano”. Un mese prima della caduta di Kabul, una delegazione afghana di alto livello si è recata a Mosca per assicurare i russi che i loro interessi non correvano nessun rischio. “Abbiamo eccellenti rapporti con la Russia”, ha dichiarato Mohammad Sohail Shaheen, portavoce dei talebani.

    E anche la Cina alza i toni. A metà agosto, un portavoce del governo di Pechino ha avvertito: “La caduta dell’Afghanistan prepara quella di Taiwan. Siamo sicuri che l’Occidente non la difenderà”. Il portavoce del ministero degli Esteri Zhao Lijian ha più volte paragonato la ritirata dall’Afghanistan alla caduta di Saigon, che aprì le porte del Sudest asiatico al comunismo. Mentre il suo collega Hua Chunying ha definito gli Stati Uniti “distruttivi”, aggiungendo che “ovunque gli Stati Uniti mettono piede... vediamo turbolenze, divisioni, famiglie distrutte, morti e altre cicatrici”. Non sorprende, dunque, che i leader della regione siano molto preoccupati. “Tutti stiamo guardando agli Stati Uniti per vedere come si riposizionano”, ha dichiarato il Primo Ministro di Singapore, Lee Hsien.

    Taiwan, Corea del Sud e Giappone – i principali alleati USA nella regione – non sono certo l’Afghanistan. La ritirata di agosto, però, ha gettato un’alone di dubbio sull’affidabilità degli americani nel continuare a giocare un ruolo mondiale. E il viaggio in Oriente di Kamala Harris per rassicurare gli alleati non l’ha affatto dissipata.

    L’Occidente non sembra disposto a difendere l’Oriente come non sta difendendo l’America Latina. Dopo un periodo di relativa tranquillità, il comunismo – quello vero, stalinista e amico della guerriglia – si sta riprendendo il continente. Negli ultimi due anni, sei paesi della regione sono caduti nelle mani di regimi ispirati a forme di marxismo-leninismo, senza che l’Occidente se ne sia nemmeno accorto. L’ultimo è stato il Perù, dove è salita al potere un’alleanza di ex-terroristi guevaristi. È come se in Italia governassero le Brigate Rosse insieme a Lotta Continua. Questi regimi di estrema sinistra sono alleati geopolitici della Russia e della Cina, che così rafforzano enormemente la loro presenza nel continente.

    E mentre i nemici dell’Occidente attaccano, quest’ultimo si preoccupa di trovare forme sempre più efficaci per suicidarsi: aborto, eutanasia, omosessualismo… Si racconta che i teologi di Bisanzio discutessero sul sesso degli angeli mentre i turchi assalivano le mura della città. Che cosa dirà la posterità di un mondo che discute se un uomo è un uomo e una donna, una donna?

    Già indeboliti da una crisi d’identità, sin dal 2019 gli Stati Uniti sono scossi da una ribellione anarchico-comunista – che va sotto diversi nomi, come Black Lives Matter, Wokee Cancel Culture – la cui idea base è quella di cancellare la cultura occidentale, distruggendone i simboli. Questo movimento si è esteso ad altri Paesi, come lGran Bretagna, Cile e Colombia.

    Riflette Gennaro Malgieri: “Mi torna alla memoria un gran libro del 1964 sul quale, purtroppo, si è depositata la polvere:Il suicidio dell’Occidente. Un saggio sul significato e sul destino del liberalismo americano. L’autore è James Burnham, vecchio trotzkista divenuto guru del conservatorismo americano nel dopoguerra. Gridava ancora quel libro alla nostra ignavia e ci metteva in guardia dai barbari che premono alle frontiere. I barbari del pensiero e delle idee che si sarebbero trasformati in miserabili delinquenti appostati dietro le formulette ideologiche pronti a colpire brutalmente il loro e il nostro mondo. Il ‘suicidio’ da tempo si è manifestato in forme particolarmente crudeli. Ma soltanto oggi con l’attentato sistematico e violento alla nostra memoria ne prendiamo contezza davanti alla vile pretesa di abbattere i simboli stessi dell’Occidente, come se demolendo una statua si possa cancellare un’intera civiltà”.

    Black Lives Matter e Woke sono, infatti, solo la punta dell’iceberg di un profondo malessere che corrode l’Occidente e lo porta verso l’autodistruzione.

    Se tutto questo fosse vero, ma la Chiesa fosse salda, potremmo dire con tranquillità: Stat Crux dum volbitur orbis! Purtroppo, anche la Santa Chiesa di Dio ha raggiunto un grado di autodistruzione mai sognato prima. Col motu proprio Traditiones custodes Papa Francesco ha palesato ancor di più il proposito di distruggere quanto possa rimanere in piedi della società spirituale.

    Ma la Provvidenza ha le sue vie…

    Nel 1571 la Cristianità medievale non c’era più. Corrosa dallo spirito umanista e rinascimentale, spaccata dallo scisma luterano, indebolita dalle politiche machiavelliche, in balìa dei godimenti sensuali che la nascente modernità offriva, l’Europa sembrava un frutto marcio pronto a cadere nelle mani di un popolo guerriero e credente, anche se nell’errore: l’Impero Ottomano. Nessuno parlava più di crociata. Le stesse guerre di contenimento contro il nemico musulmano, per esempio nell’Adriatico, erano dettate più da motivi politici e strategici che religiosi. Le crociate erano ormai un ricordo scomodo del passato.

    Eppure, qualcosa risuonò nel più profondo dell’anima europea. Un vento di crociata soffiò impetuoso. Papa San Pio V lanciò un nuovo appello Deus vult! Se ne fecero eco alcuni principi cristiani, in primis Filippo II di Spagna, allora signore anche di parte dell’Italia. Il 7 ottobre 1571 si combatté la battaglia navale di Lepanto, “la più grande giornata che videro i secoli”, nelle parole dello scrittore Miguel de Cervantes, che vi prese parte, perdendo perfino una mano. Motivo per il quale è chiamato “il monco di Lepanto”. Alla fine della giornata, contro ogni previsione, i cristiani avevano riportato una vittoria così schiacciante da fermare definitivamente l’avanzata marittima dei turchi. Non mancò chi intravedesse una rinascita dell’antica cavalleria.

    La battaglia, piena di miracoli e di fatti prodigiosi, si combatté sotto la protezione di Maria Ausiliatrice. Papa San Pio V vide misticamente l’esito dello scontro mentre si trovava in Vaticano, e aggiunse l’invocazione “Auxilium Christianorum” alla Litania lauretana. Lepanto fu un trionfo di Maria. E questo fu riconosciuto da tutti. Nella Sala del Consiglio, nel Palazzo ducale di Venezia, si può ammirare un immenso dipinto della battaglia con sopra le parole: “Non virtus, non arma non duces sed Maria Rosarii victores nos fecit”- Non il valore, non le armi non i condottieri, bensì Maria del Rosario ci ha dato la vittoria.

    Nel commemorare i 450 anni della battaglia, preghiamo Maria Santissima che faccia soffiare un nuovo vento di crociata perché possiamo combattere i nemici odierni della Chiesa e della Civiltà cristiana, mille volte peggiori e più insidiosi dei musulmani turchi di allora.

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  • Né pace né onore in Afghanistan

     

     

    di James Bascom

    Le drammatiche immagini della caduta di Kabul in mano ai talebani non possono fare a meno di evocare in maniera stupefacente le scene della sconfitta del Vietnam del Sud 46 anni fa. Folle di persone aggrappate fisicamente agli aeroplani; trionfanti combattenti talebani in posa nel palazzo presidenziale afghano ed elicotteri che strappano gli ultimi funzionari dell'ambasciata dai tetti, sono immagini del tutto analoghe a quello che è successo a Saigon nell'aprile del 1975.

    Due anni prima, il presidente Richard Nixon aveva cercato di assicurare gli americani che gli accordi di pace di Parigi con il Vietnam del Nord comunista avrebbero ottenuto una "pace con onore". Una affermazione che suonò vuota quando essi videro inorriditi cosa stava accadendo il 30 aprile 1975, mentre le truppe nordvietnamite invadevano il palazzo presidenziale a Saigon. Il presidente Gerald Ford, che non voleva e non era in grado di mantenere le promesse americane di sostenere il Vietnam del Sud, volò a Palm Springs, in California, per giocare a golf.

    Se c'è una cosa che il sudest asiatico non ottenne dopo la caduta di Saigon fu la pace. Migliaia di persone morirono nell'unificazione forzata del Vietnam del Sud nei campi di prigionia comunisti vietnamiti dopo la guerra, e milioni nei campi di sterminio della Cambogia (come risultato diretto del ritiro degli Stati Uniti). Altri milioni divennero dei rifugiati. Anche l’onore venne messo in fuga, giacché l'America è ancora alle prese con la vergogna e il trauma sociale di aver perso una guerra che costò 58.000 vite americane.

    Il presidente Biden potrà non essere Gerald Ford, ma recita bene la sua parte in TV. Proprio mentre Kabul cadeva in mano ai talebani, Biden ha deciso di prendersi una vacanza a Camp David. Il 16 agosto è andato a Washington per leggere una dichiarazione preparata in cui ha ribadito la sua decisione di abbandonare l'Afghanistan e, subito dopo, se ne è tornato in quel di Camp David senza rispondere a una sola domanda dei giornalisti. Anche il suo addetto stampa Jen Psaki ha deciso di andare in vacanza. La storia si ripete...

    Violente quasi quanto i talebani sono state le recriminazioni negli Stati Uniti e in tutto l'Occidente. Come all'indomani del Vietnam, un paese emotivamente carico e amaramente diviso sta riversando simili quantità di colpa sulla guerra stessa, sul modo in cui è stata combattuta, sui politici che l'hanno guidata e sul Paese che l'ha combattuta. Lo spettacolo degli Stati Uniti virtualmente senza leadership mentre guardano la propria sconfitta in Afghanistan, sta versando ulteriore benzina sul dibattito interno già acceso e sulla legittimità della stessa democrazia liberale. E qualunque sia la propria posizione personale sulla guerra, l'umiliazione del paese più potente del mondo per mano di barbari con i fucili avrà una grave ripercussione negativa a livello mondiale.

    Proprio come la maggior parte degli americani sostenne la guerra in Vietnam per buone e nobili ragioni (cioè per combattere il comunismo), così ha fatto per l’Afghanistan. Dal commando nel suo santuario afghano, l'11 settembre 2001, Al Qaeda uccise 3.000 americani, ferito altri 25.000 e causato danni per 100 miliardi di dollari. La maggior parte dei paesi occidentali si sarebbe arresa o non avrebbe fatto nulla dopo un simile attacco. È stato un bene che si sia reagito distruggendo il regime talebano ed eliminando Osama bin Laden.

    Dagli ufficiali di medio livello fino agli arruolati, la stragrande maggioranza dei soldati americani ha svolto brillantemente il proprio lavoro. Ancora una volta, gli Stati Uniti hanno mostrato al mondo di avere l'esercito meglio addestrato, meglio equipaggiato e più potente mai visto nella storia. Nessun’altra nazione potrebbe recarsi dall'altra parte del pianeta, conquistare un Paese delle dimensioni del Texas, senza sbocco sul mare, ed eliminare i suoi nemici con la stessa rapidità ed efficienza come fecero gli Stati Uniti nell'ottobre 2001. I 2.420 americani morti in Afghanistan non sono morti invano. Il loro sacrificio ha pagato l’immunità dal terrorismo islamico di cui godiamo ancora oggi. Dato da non dimenticare, gli Stati Uniti non hanno subito un grave attacco terroristico dall'11 settembre.

    La maggior parte della colpa per il fallimento degli Stati Uniti va attribuita a coloro che hanno cercato di trasformare l'Afghanistan in una democrazia liberale di stile occidentale. Gli afghani sono uno dei popoli più primitivi e incivili del mondo. Il paese è diviso in parecchi gruppi etnici, a loro volta divisi in tribù e clan su base familiare. La lealtà di un afghano è verso la propria famiglia e il capo tribù. Come molti soldati americani hanno ben appreso, gli afghani sono anche notoriamente inaffidabili. La meritocrazia è praticamente sconosciuta in Afghanistan e il sostegno proviene dai legami familiari, dalla canna di una pistola o dalla brutta e vecchia corruzione.

    Se il Medio Oriente ci insegna qualcosa, la religione islamica rende quasi impossibile avere un governo in stile occidentale. Le politiche statunitensi in Afghanistan contrarie all'Islam sono servite solo a rafforzare la posizione dei talebani. Sebbene ufficialmente illegale, la politica dell'esercito americano era di chiudere un occhio sulla pratica perversa del "Bacha bazi" (in cui uomini adulti abusano sessualmente di ragazzini) e sull'omosessualità in generale. I comandanti militari hanno persino punito alcuni soldati americani per aver picchiato afghani che hanno cercato di sedurli. Il "Bacha bazi" è rifiutato da molti musulmani come non islamico. L'opposizione dei talebani ad esso fu uno dei fattori nella loro ascesa al potere negli anni '90. Questi problemi hanno solo legittimato la pretesa dei talebani a essere i difensori dell'Islam. Cercare poi di imporre il femminismo e il consumismo in stile occidentale ha solo peggiorato le cose.

    Quei leader che hanno ignorato questi ostacoli e hanno scambiato gli obiettivi della guerra con la costruzione di una “democrazia” afghana – vale a dire le amministrazioni Bush e Obama – sono i veri colpevoli della sconfitta. La concezione wilsoniana di rendere il “mondo sicuro attraverso la democrazia" è profondamente radicata nella psiche americana. Il progetto del governo degli Stati Uniti di combattere il terrorismo trasformando l'Afghanistan in una democrazia modello era destinato al fallimento non meno del tentativo di Woodrow Wilson di evitare il ripetersi della Prima Guerra Mondiale smembrando e democratizzando l'Europa. Ancora più ironico è stato il fatto che il governo USA di solito si è rifiutato di ammettere che il nemico fosse un Islam radicalizzato, preferendo il termine "Guerra al terrore".

    Nessuna soluzione priva di legittimità ha alcuna possibilità di successo nel duro Afghanistan. Le amministrazioni statunitensi avrebbero dovuto aiutare a ripristinare la monarchia costituzionale che governò l'Afghanistan dal 1926 al 1973 e rafforzare le leadership dei clan patriarcali. Il leale appoggio americano a queste leadership indigene le avrebbe aiutate a diventare filo-americane e filo-occidentali.

    Nonostante gli errori commessi dal 2001, il fallimento del governo americano non era inevitabile. Come ha sottolineato il senatore James Inhofe (R-OK) sul Wall Street Journal, al popolo americano è stato presentato un falso dilemma tra ritiro totale e "guerra senza fine". Nessuno voleva che gli Stati Uniti restassero in Afghanistan per sempre. Ma solo la presenza di un piccolo numero di truppe in un ruolo non combattente sarebbe stata sufficiente a scoraggiare i talebani1. Quando il presidente Obama rimosse le forze statunitensi dall'Iraq nel 2011, il conseguente vuoto di potere contribuì all'ascesa dello Stato islamico. Il mese scorso, il presidente Biden ha annunciato che le 2.500 truppe statunitensi di stanza in Iraq concluderanno la loro "missione di combattimento" entro la fine del 2021, ma in realtà rimarranno nel Paese con un ruolo solo consultivo. Con un costo minimo, avrebbe potuto fare lo stesso per l'Afghanistan. Forse sarebbe stata la ripetizione del successo della strategia americana in Germania dopo la Seconda Guerra Mondiale e in Corea del Sud.

    Inoltre, il termine "guerra senza fine" è gravemente impreciso. Gli Stati Uniti avevano cessato di svolgere qualsiasi ruolo di combattimento da quasi due anni. L'ultima morte di un militare in combattimento risale al febbraio 2020, diciotto mesi fa. L'anno scorso sono morti per incidenti più soldati negli Stati Uniti che per combattimenti in Afghanistan.

    Il modo in cui l'amministrazione Biden si è ritirata è vergognoso. A quanto pare, l'amministrazione Biden non solo ha voltato le spalle al governo afghano, ma lo ha pure minato. Il governo degli Stati Uniti si è ritirato dalle basi senza nemmeno dirlo all'esercito afghano, ha fornito poco o nessun supporto aereo e ha fatto dichiarazioni pubbliche pessimistiche e ostili che hanno ucciso il morale afghano. Anche quando era chiaro che l'Afghanistan stava per sperimentare un collasso simile al Vietnam, Biden ha cinicamente insistito nel lasciare il Paese. Se un singolo uomo è responsabile del fallimento in Afghanistan, questo è il presidente.

    Molti americani sperano che, anche se brutta, almeno la caduta dell'Afghanistan sotto i talebani porterà la pace. Una tale posizione è ingenua. La reputazione dell'America subirà conseguenze di lunga durata, forse permanenti, in tutto il mondo. Il ritiro dall’Afghanistan manda il messaggio che non ci si può fidare che il governo degli Stati Uniti mantenga le sue promesse. Gli Stati Uniti verranno davvero in aiuto dell'Estonia, della Corea del Sud o di Taiwan se attaccati?

    I nostri nemici come Cina, Iran e Russia esultano nel vedere il fallimento degli Stati Uniti. Questi Paesi sono sempre più propensi ad agire in base alle minacce che rivolgono ai loro vicini. Non è improbabile che stabiliscano un punto d'appoggio economico e politico nel nuovo Afghanistan. I talebani torneranno ad essere un rifugio per i gruppi terroristici. Insomma, la caduta dell'Afghanistan porterà più guerra, terrorismo e morti americane.

    È anche un duro colpo per l'immagine che hanno di sé gli americani. Gli americani si sono sempre considerati persone ottimiste, capaci di fare le cose nel modo giusto. In Afghanistan, gli Stati Uniti hanno trascorso 20 anni e speso 2 trilioni di dollari, il che equivale a più di 250 milioni di dollari al giorno. L'Afghanistan potrebbe diventare il fallimento più costoso della storia mondiale. Per il solo governo afghano, gli Stati Uniti hanno speso oltre 83 miliardi di dollari in armamenti e attrezzature. Gran parte di quelle armi, compresi droni e veicoli sofisticati, sono state catturate dai talebani. Inoltre, il tanto decantato esercito afghano - che sulla carta era ben più numeroso dei talebani - si è semplicemente sciolto a causa del morale basso e della mancanza di sostegno. Un fallimento umiliante dal quale ci vorranno molti anni per riprendersi.

    Ben peggiori delle perdite materiali sono quelle umane. Le vittime della coalizione sono state 3.562 e 22.773 i feriti. Inoltre, quasi 50.000 civili afghani sono stati uccisi nella guerra. Sebbene piccolo rispetto ad altri conflitti, è comunque un numero consistente. Molti degli 800.000 soldati americani che hanno prestato servizio in Afghanistan provano angoscia, rabbia e risentimento verso una leadership politica e militare che, come in Vietnam, non è riuscita a concludere la guerra in modo onorevole. Amici e familiari di coloro che hanno perso la vita si chiedono se i loro sacrifici siano stati vani.

    La sinistra globale esulta vedendo gli Stati Uniti umiliati ancora una volta. Hanno sempre simpatizzato con il terrorismo islamico e vedono gli Stati Uniti come il più grande male del mondo. La destra in America, da sempre favorevole a una forte difesa nazionale e a guerre giuste contro i nemici dell'America, è demoralizzata, incerta o addirittura indifferente allo sfascio in corso. Molti preferirebbero non pensare affatto all'Afghanistan, sperando che il ritiro faccia sparire tutto. Alcuni nella destra isolazionista sono persino contenti del risultato, vedendo il fallimento americano in Afghanistan come una rivendicazione di una politica nazionalista "America First".

    In definitiva, la conseguenza più profonda del fallimento in Afghanistan è la discussione sullo stesso modello democratico americano. Il crollo della fiducia nelle istituzioni, l'aumento della violenza politica e della frode, il crescente totalitarismo di un governo apparentemente "democratico" e la polarizzazione estrema hanno eroso la fiducia un tempo intoccabile dell'America nel suo modello. Lo sbalorditivo crollo della democrazia rappresentativa in Afghanistan è, secondo molti, solo una conferma che la democrazia già non funzioni. Così vengono proposti nuovi modelli, sia a destra che a sinistra. La sinistra ammira la Cina comunista, così come, erroneamente, anche alcuni a destra. Molti altri a destra guardano altrettanto erroneamente a Vladimir Putin come esempio per l'Occidente da imitare. La maggior parte di questi nuovi modelli elimina le tradizionali libertà costituzionali e ripone a torto la speranza in un leader politico che risolverà da solo la crisi della civiltà occidentale.

    La soluzione a questa crisi, di cui la caduta dell'Afghanistan è solo un sintomo, è un ritorno alla società cristiana organica come descritto nel libro Return to Order di John Horvat. Questo ritorno richiede un serio esame di coscienza e il riconoscimento che, come il figliol prodigo, abbiamo peccato e dobbiamo tornare alla casa del Padre. La democrazia liberale ci ha condotto sulla via dell’abisso. Solo tornando alla Chiesa cattolica in campo religioso e alla società cristiana organica in campo socio-politico si può sperare di evitare il baratro che si sta chiaramente avvicinando.

     

    Nota

    1. https://www.wsj.com/articles/an-alternative-to-the-afghan-pullout-11623615905

     

    Fonte: Returnto Order, Agosto 2021. Traduzione a cura di Tradizione Famiglia Proprietà - Italia

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