Desiderio desideravi

  • Da sacerdoti del sacrificio a presidenti di assemblea (4/5)

    Nota dell'editore: continuiamo con la quarta parte della critica in cinque articoli di José Antonio Ureta a Desiderio Desideravi. Per le parti precedenti, vedere qui: Parte 1; Parte 2; Parte 3.

     

     

    di José Antonio Ureta

    Il ruolo unico del sacerdote nella Messa

    Nella Mediator Dei, Pio XII insegna esplicitamente che “ai soli Apostoli ed a coloro che, dopo di essi, hanno ricevuto dai loro successori l'imposizione delle mani, è conferita la potestà sacerdotale, in virtù della quale, come rappresentano davanti al popolo loro affidato la persona di Gesù Cristo, così rappresentano il popolo davanti a Dio”. Ma, aggiunge, nella Santa Messa “il sacerdote fa le veci del popolo perché rappresenta la persona di Nostro Signore Gesù Cristo in quanto Egli è Capo di tutte le membra ed offrì sé stesso per esse: perciò va all'altare come ministro di Cristo, a Lui inferiore, ma superiore al popolo (San Roberto Bellarmino, De missa II c.l.). Il popolo invece, non rappresentando per nessun motivo la persona del Divin Redentore, né essendo mediatore tra sé e Dio, non può in nessun modo godere di poteri sacerdotali. 

    “Prima di rappresentare il popolo presso Dio, il sacerdote rappresenta il divin Redentore, e perché Gesù Cristo è il Capo di quel corpo di cui i cristiani sono membra, egli rappresenta Dio presso il suo popolo. La potestà conferitagli, dunque, non ha nulla di umano nella sua natura; è soprannaturale e viene da Dio: «Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi . . . (Joh. 20, 21), chi ascolta voi, ascolta me . . . (Luc. 10, 16), andando in tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura; chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo» (Marc. 16, 15-16). Perciò il sacerdozio esterno e visibile di Gesù Cristo si trasmette nella Chiesa non in modo universale, generico e indeterminato, ma è conferito a individui eletti, con la generazione spirituale dell'Ordine, uno dei sette Sacramenti, il quale non solo conferisce una grazia particolare, propria di questo stato e di questo ufficio, ma anche un carattere indelebile, che configura i sacri ministri a Gesù Cristo sacerdote, dimostrandoli adatti a compiere quei legittimi atti di religione con i quali gli uomini sono santificati e Dio è glorificato, secondo le esigenze dell'economia soprannaturale”. 

    È chiaro che i riti e le preghiere del sacrificio eucaristico “dimostrano che l'oblazione della vittima è fatta dai sacerdoti in unione con il popolo”.  Poiché "Col lavacro del Battesimo, difatti, i cristiani diventano, a titolo comune, membra del Mistico Corpo di Cristo sacerdote, e, per mezzo del «carattere» che si imprime nella loro anima, sono deputati al culto divino partecipando, così, convenientemente al loro stato, al sacerdozio di Cristo”.

    Ma in che modo il popolo deve partecipare agli atti di sacerdozio di Cristo? “I fedeli devono partecipare al sacrificio eucaristico, unendosi spiritualmente a Lui e per mezzo di Lui, e con Lui devono anche offrire sé stessi” (n. 99). Ma Pio XII ha sentito il dovere di ribadire ancora una volta che “poiché i fedeli cristiani partecipano al sacrificio eucaristico, non per questo godono anche del potere sacerdotale” (n. 102). Tale insistenza è giustificata perché già allora alcuni ritenevano “che il precetto dato da Gesù agli Apostoli nell'ultima cena di fare ciò che Egli aveva fatto, si riferisce direttamente a tutta la Chiesa dei cristiani” e giudicavano “che il Sacrificio Eucaristico è una vera e propria ‘concelebrazione’”.

    Contro questo errore, la Mediator Dei ha insegnato che “L'immolazione incruenta per mezzo della quale, dopo che sono state pronunziate le parole della consacrazione, Cristo è presente sull'altare nello stato di vittima, è compiuta dal solo sacerdote in quanto rappresenta la persona di Cristo e non in quanto rappresenta la persona dei fedeli”. Questi ultimi offrono il sacrificio attraverso le mani del sacerdote “perché il ministro dell'altare agisce in persona di Cristo in quanto Capo, che offre a nome di tutte le membra; per cui a buon diritto si dice che tutta la Chiesa, per mezzo di Cristo, compie l'oblazione della vittima”. “Quando, poi, si dice che il popolo offre insieme col sacerdote, non si afferma che le membra della Chiesa, non altrimenti che il sacerdote stesso, compiono il rito liturgico visibile - il che appartiene al solo ministro da Dio a ciò deputato - ma che unisce i suoi voti di lode, di impetrazione, di espiazione e il suo ringraziamento alla intenzione del sacerdote, anzi dello stesso Sommo Sacerdote, acciocché vengano presentate a Dio Padre nella stessa oblazione della vittima, anche col rito esterno del sacerdote”. 

    Logicamente, Pio XII conclude spiegando che né le Messe private senza la partecipazione del popolo, né la celebrazione simultanea di più Messe private su altari diversi, possono essere condannate con l'erronea motivazione del “carattere sociale del sacrificio eucaristico”. Il santo sacrificio della Messa, infatti, “ha sempre e dovunque, necessariamente e per la sua intrinseca natura, una funzione pubblica e sociale, in quanto l'offerente agisce a nome di Cristo e dei cristiani, dei quali il Divin Redentore è Capo, e l'offre a Dio per la Santa Chiesa Cattolica e per i vivi e i defunti”. Per questo “il popolo non è in alcun modo tenuto a ratificare ciò che fa il ministro all'altare” né è necessario che il popolo cristiano si accosti alla mensa eucaristica per garantire l'integrità del sacrificio, rendendo “la santa Comunione compiuta in comune quasi il culmine di tutta la celebrazione”.

    I Riformatori rifiutano il ruolo unico del sacerdote e lo fondono in una "assemblea celebrante".

    Chiaramente questa netta distinzione gerarchica tra celebrante e fedeli - che fino alle riforme conciliari era molto evidente con l'esistenza della balaustra per la comunione, che separava il presbiterio, riservato ai ministri dell'altare, dalla navata dove rimanevano i fedeli - era insopportabile per i riformatori di stampo egualitario. Per ridurla, hanno fatto ricorso allo stratagemma della "riscoperta" dell'assemblea. Il già citato gesuita Juan Manuel Martín-Moreno spiega:

    "L'ecclesiologia che derivava dalla divisione tra clero e laici era perfettamente visibile nella liturgia pre-vaticana (sic). I cori dei canonici erano situati nella parte privilegiata delle cattedrali, isolati dagli altri da grate. Il presbiterio si trovava sulle alture, separato dai fedeli da una grandiosa scalinata. Questo sottolinea il ruolo di mediazione del sacerdote, situato in alto, a metà strada tra cielo e terra.

    "Ma la Lumen Gentium inizia con una considerazione sul Popolo di Dio prima di parlare dei diversi ministeri nella Chiesa. L'ecclesiologia di comunione [19] abbracciata dal Vaticano II si rifletterà nella grande importanza dell'assemblea nella liturgia. Questa è forse una delle caratteristiche più emblematiche della riforma liturgica.

    "Il ruolo di mediazione tra Dio e l'uomo non è più del presbitero, ma dell'assemblea, all'interno della quale il presbitero esercita la sua funzione. Non opponiamo il presbitero all'assemblea. Allo stesso modo in cui non opponiamo la testa al corpo. Anche la testa fa parte del corpo. Non c'è corpo senza testa. Non c'è assemblea senza ministeri.

    "Ma non ci sono nemmeno ministeri senza un'assemblea. L'origine ultima del ministero non è l'assemblea, ma Cristo, ma, come dice Borobio, «il ministero non nasce a parte o senza la comunità». Il ministro non riceve il suo mandato direttamente da Cristo, come gli apostoli o Paolo (...) [20].

    “La parola assemblea è la traduzione di qhl, che in greco si traduce con ekklesia o synagoge. Queste parole designano la convocazione, l'atto di riunirsi e la comunità riunita. Il Qahal è l'assemblea generale del popolo. Nella sua evoluzione semantica ha designato la chiamata, l'elevazione, il raduno, la comunità riunita, la Chiesa. Ecclesia non è semplicemente la Chiesa, ma la Chiesa convocata e riunita in un luogo e in un momento specifico per celebrare i misteri del culto. (...)

    "È questa Chiesa o assemblea, che comprende il vescovo, i presbiteri e i diaconi, che partecipa direttamente e formalmente al sacerdozio di Cristo. L'assemblea riunita è il riflesso e l'espressione della Chiesa. In essa la Chiesa si incarna e diventa visibile; in essa e attraverso di essa la Chiesa si proietta nel mondo, soprattutto nella Chiesa locale che celebra sotto la presidenza del Vescovo. Con questo il Concilio non intende escludere che esistano altre manifestazioni della Chiesa. La liturgia è l'espressione più visibile della Chiesa, ma non l'unica. La Chiesa si manifesta anche nell'azione caritatevole dei cristiani e in molti altri modi.

    "La base di questa partecipazione è, come abbiamo già detto, il sacerdozio comune dei fedeli. Nell'Eucaristia il popolo offre i doni insieme al presbitero. In SC 48 si dice che i fedeli «imparano a offrire sé stessi offrendo l'ostia immacolata non solo per mano del sacerdote, ma insieme a lui». A questo punto la Sacrosanctum Concilium va oltre la Mediator Dei che utilizzava l'espressione quodammodo, "in un certo modo". Questa espressione è stata soppressa dal Concilio.

    "Da qui nasce la consapevolezza che le azioni liturgiche non sono private ma hanno un carattere comunitario (SC 26). È necessario restituire al corpo della Chiesa ciò che è sempre stato suo patrimonio; l'assemblea deve recuperare il protagonismo che aveva perso a causa di un clericalismo abusivo (...).

    "Questa insistenza sul carattere comunitario della celebrazione è la ragione della rinascita della concelebrazione, che ha contribuito a de-privatizzare la Messa e a sottolineare l'unità del sacerdozio e del sacrificio eucaristico (SC 57). Da questo punto di vista, oggi è incomprensibile che nella liturgia pre-vaticana (sic) possano essere celebrate contemporaneamente diverse liturgie nella stessa chiesa, e che alcuni fedeli possano assistere a una e altri a un'altra.

    "Perciò oggi non possiamo più parlare di un'assemblea che assiste alla Messa, ma di un'assemblea che celebra la Messa. Il vescovo o il sacerdote che presiede la celebrazione non può più essere chiamato celebrante - perché sono tutti celebranti - ma presidente. Questo, che era già stato accennato nel Sacrosanctum Concilium (n. 26), è espressamente affermato nella Institutio Generalis Missale Romanum1 e 7. L'espressione popolare "Messa udita" è bandita per sempre. (...)

    "Questa ecclesiologia di comunione finisce per influenzare anche i più piccoli dettagli della riforma liturgica. Ha una grande influenza sull'architettura delle chiese post-conciliari, dove il presbiterio è ora elevato sopra l'assemblea solo minimamente, in modo che le sue azioni possano essere viste da tutti. Sono state eliminate le grate e le ringhiere della comunione. Il centro della chiesa è l'altare e non il tabernacolo, che ora è stato spostato in una cappella laterale. La pianta della navata non è più rettilinea, simile a un tram, ma semicircolare, in modo che i fedeli possano vedersi meglio e sentirsi più partecipi. Gli altari laterali attaccati alle navate laterali sono stati eliminati. Il coro in fondo alla chiesa è scomparso. Il ministero del canto non può essere collocato al di fuori dell'assemblea, ma come parte di essa" [21].

    Il sacerdote è ridotto a "presidente dell'assemblea" e i laici sono elevati a concelebranti.

    Che il celebrante sia l'intera assemblea e che il ministro dell'altare sia ridotto al rango di presidente dell'assemblea è ciò che Desiderio Desideravi sottolinea, non negando, ma omettendo completamente che solo il sacerdote compie in persona Christi l'immolazione incruenta del sacrificio eucaristico.

    La parola sacerdote - che definisce precisamente colui che compie e offre il sacrificio - compare solo tre volte nelle versioni italiana (originale) e spagnola dell'esortazione, due delle quali solo per riferirsi a un chierico ordinato. Ma l'espressione "presbitero" - che nella sua origine greca e latina significa solo "il più anziano", il "decano" - è usata 12 volte in italiano e 15 in spagnolo. Mentre "presidenza" e il verbo presiedere (o le sue coniugazioni) compaiono 14 volte, l'espressione "celebrante" compare solo una volta e insinua che si applica a tutta l'assemblea: “Ricordiamoci sempre che è la Chiesa, Corpo di Cristo, il soggetto celebrante, non solo il sacerdote” (n.36). E più avanti lo afferma esplicitamente: “Anche il presbitero viene formato dal suo presiedere l’assemblea che celebra” (n. 56).

    Il documento riconosce che per quanto concerne l'ufficio del sacerdote “non si tratta primariamente di un compito assegnato dalla comunità, quanto, piuttosto, della conseguenza dell’effusione dello Spirito Santo ricevuta nell’ordinazione che lo abilita a tale compito”. Ma, nel definire il loro compito, non dice che si tratta del compito sacerdotale di sacrificare sacramentalmente la Vittima, bensì del compito di presiedere le assemblee: “Il presbitero vive la sua tipica partecipazione alla celebrazione in forza del dono ricevuto nel sacramento dell’Ordine: tale tipicità si esprime proprio nella presidenza” (n. 56).

    Nel paragrafo successivo si offre un'interpretazione esclusivamente anabatica e discendente della sua missione mediatrice, omettendo che il sacerdote offre a Dio il sacrificio a nome di tutta la Chiesa: “Perché questo servizio venga fatto bene – con arte, appunto – è di fondamentale importanza che il presbitero abbia anzitutto una viva coscienza di essere, per misericordia, una particolare presenza del Risorto. Il ministro ordinato è egli stesso una delle modalità di presenza del Signore che rendono l’assemblea cristiana unica, diversa da ogni altra (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 7). Questo fatto dà spessore sacramentale – in senso ampio – a tutti i gesti e le parole di chi presiede. L’assemblea ha diritto di poter sentire in quei gesti e in quelle parole il desiderio che il Signore ha, oggi come nell’ultima Cena, di continuare a mangiare la Pasqua con noi” (n. 57).

    Le individualità si sono fuse nel collettivo

    Questa quasi totale sommersione del ministro ordinato nell' "assemblea" è verificata, d'altra parte, dal fatto che essa viene menzionata 18 volte, sottolineando la sua funzione celebrativa e il suo carattere collettivo, che spesso rende difficile a ciascun fedele rendere a Dio un culto veramente interiore, offrendosi personalmente a Lui in intima unione con Cristo-Vittima: “Penso a tutti i gesti e le parole che appartengono all'assemblea: riunirsi, camminare in processione, sedersi, stare in piedi, inginocchiarsi, cantare, stare in silenzio, acclamare, guardare, ascoltare. Ci sono molti modi in cui l'assemblea, come un unico uomo (Neh 8,1), partecipa alla celebrazione. Compiere lo stesso gesto tutti insieme, parlando tutti allo stesso tempo, trasmette ai singoli la forza dell'intera assemblea. È un'uniformità che non solo non mortifica ma, al contrario, educa ogni fedele a scoprire l'autentica unicità della sua personalità, non in atteggiamenti individualistici, ma nella consapevolezza di essere un solo corpo” (n. 51).

    Quanto più giudiziosa era la seguente raccomandazione di Pio XII: “L'ingegno, il carattere e l'indole degli uomini sono così vari e dissimili che non tutti possono ugualmente essere impressionati e guidati da preghiere, da canti o da azioni sacre compiute in comune. I bisogni, inoltre, e le disposizioni delle anime non sono uguali in tutti, né restano sempre gli stessi nei singoli. Chi, dunque, potrà dire, spinto da un tale preconcetto, che tanti cristiani non possono partecipare al Sacrificio Eucaristico e goderne i benefici? Questi possono certamente farlo in altra maniera che ad alcuni riesce più facile; come, per esempio, meditando piamente i misteri di Gesù Cristo, o compiendo esercizi di pietà e facendo altre preghiere che, pur differenti nella forma dai sacri riti, ad essi tuttavia corrispondono per la loro natura”. (Mediator Dei, n. 133)

    Ci si può chiedere se buona parte dell'abbandono della Messa domenicale dopo la riforma liturgica non derivi dal disappunto di molti fedeli per il carattere "assemblearista" e collettivista con cui il nuovo rito è stato celebrato nella maggior parte delle parrocchie, senza lasciare spazio alla pietà individuale. E soprattutto bisognerebbe chiedersi se la forte diminuzione del numero di ammissioni ai seminari non sia dovuta al fatto che alcuni di coloro che sentono la chiamata vocazionale non rispondono positivamente perché l'immagine di un ministro ordinato come semplice "presidente di assemblea" non corrisponde all'immagine tradizionale del sacerdozio, dove il sacrificio personale della propria vita trova il suo modello e la sua consumazione nella realtà sacrificale della Santa Messa.

     

    Note

    [19] Ci sia consentita una breve deviazione per sottolineare la vaghezza del concetto di "ecclesiologia di comunione", che è sulla bocca di tutti dopo il Sinodo straordinario dei vescovi del 1985, nel tentativo, non riuscito, di risolvere il conflitto tra il concetto tradizionale di Chiesa-società perfetta e gerarchica e la Chiesa-Popolo di Dio egualitaria delle comunità di base. P. Juan Manuel Martín-Moreno S.I. ha forse ragione a portare questo concetto all'interno della sua visione dell'assemblea liturgica...

    [20] È evidente che gli attuali ministri dell'altare non hanno ricevuto il mandato direttamente da Cristo, ma dal vescovo che li ha ordinati. Tuttavia, l'opinione secondo cui tale trasmissione avviene attraverso l'intermediazione della comunità è stata condannata da Papa Pio VI nella Bolla Auctorem fidei: "È eretica la proposizione secondo cui la potestà è stata data da Dio alla Chiesa per essere comunicata ai pastori che sono i suoi ministri per la salvezza delle anime, intesa nel senso che dalla comunità dei fedeli deriva ai pastori la potestà del ministero e del governo ecclesiastico" (Denz./Hün. 2602).

    [21] Padre Juan Manuel Martín-Moreno, Apuntes de Liturgia, p. 60-62.

     

    Fonte: Onepeterfive, 11 Agosto 2022. Traduzione a cura di Tradizione Famiglia Proprietà – Italia.

    © La riproduzione è autorizzata a condizione che venga citata la fonte.

  • Dal Sacrificio del calvario al memoriale della presenza (3/5)

    Continuiamo con la terza parte dello studio di José A. Ureta su Desiderio Desideravi. Prima e seconda parte consutabili qui e qui.

     

     

    di José Antonio Ureta

    La Santa Messa è un vero e proprio sacrificio

    Trattando del sacrificio eucaristico, la Mediator Dei ribadisce l'insegnamento del Concilio di Trento secondo cui la Santa Messa è un vero e proprio sacrificio e non un semplice memoriale della Passione o dell'Ultima Cena:

    Cristo Signore, «sacerdote in eterno secondo l'ordine di Melchisedec» che, «avendo amato i suoi che erano nel mondo», «nell'ultima cena, nella notte in cui veniva tradito, per lasciare alla Chiesa sua sposa diletta un sacrificio visibile - come lo esige la natura degli uomini - che rappresentasse il sacrificio cruento, che una volta tanto doveva compiersi sulla Croce, e perché il suo ricordo restasse fino alla fine dei secoli, e ne venisse applicata la salutare virtù in remissione dei nostri quotidiani peccati, . . . offrì a Dio Padre il suo Corpo e il suo Sangue sotto le specie del pane e del vino e ne diede agli Apostoli allora costituiti sacerdoti del Nuovo Testamento, perché sotto le stesse specie lo ricevessero, mentre ordinò ad essi e ai loro successori nel sacerdozio, di offrirlo» (Concilio di Trento, 22, 1).

    «Una . . . e identica è la vittima; egli medesimo, che adesso offre per ministero dei sacerdoti, si offrì allora sulla Croce; è diverso soltanto il modo di fare l'offerta» (C. di Trento 22, 2).

    La ragione di quest'ultima è che, a causa dell'attuale stato glorioso della natura umana di Gesù Cristo, lo spargimento di sangue è ora impossibile, così che il sacrificio di Cristo si manifesta esteriormente con la separazione delle specie eucaristiche, sotto le quali Egli è presente e che simboleggiano la separazione cruenta del Corpo e del Sangue. «Così il memoriale della sua morte reale sul Calvario si ripete in ogni sacrificio dell'altare, perché per mezzo di simboli distinti si significa e dimostra che Gesù Cristo è in stato di vittima» (89).

    I riformatori rovesciano il senso mettendo l'accento sul "memoriale".

    Questa presentazione tradizionale non piacque ai novatori, che spostarono l'accento sulla commemorazione, sebbene senza la connotazione di nuda commemoratio dei riformatori protestanti, ma dandole il senso di un memoriale oggettivo e reale che "ripresenta" ciò che è accaduto storicamente e lo comunica qui e ora in modo efficace.

    In questa nuova prospettiva, spiega R. Gerardi, "il memoriale esprime la realtà dell'evento, l'"attualizzazione oggettiva" e la presenza di ciò che viene commemorato. Non è che si ripeta, poiché l'evento è stato storicamente collocato una volta per tutte(ephápax); ma è presente. L'atto di Cristo fa sentire il suo effetto qui e ora, coinvolgendo chi lo ricorda. Il sacrificio di Cristo è avvenuto storicamente una sola volta: l'Eucaristia ne è il memoriale (nel senso più pieno del termine), una presenza viva della grazia" [14].

    E il già citato gesuita Martín-Moreno spiega perché non si tratta di una ripetizione in forma moltiplicata dell'unico sacrificio di Cristo: "Non è che il tempo della salvezza si ripeta qui e ora, ma che l'uomo qui e ora entra sempre di nuovo in comunicazione con una presenza permanente che è al di là del tempo trascorso (...). Nella liturgia si raggiunge il punto di intersezione tra tempo ed eternità. Il partecipante diventa un contemporaneo degli eventi biblici. L'uomo diventa un testimone contemporaneo di ciò che è accaduto allora. Cristo nasce a Natale, risorge a Pasqua. L'anamnesi è opera dell'uomo o di Dio? È l'uomo che commemora, ma in quanto atto umano, la sua azione di ricordo non può trascendere il tempo, non può entrare nel tunnel del tempo per tornare al passato. È solo l'azione divina che, trascendendo il tempo, porta i misteri nel nostro qui e ora. Per questo la liturgia, prima di essere azione dell'uomo, è azione di Dio" [15].

    La strada era stata aperta dalle tesi pionieristiche dell'allora padre Charles Journet (poi fatto cardinale da Paolo VI) e del filosofo francese Jacques Maritain, per i quali la presenza reale di Gesù Cristo si sarebbe duplicata in una sorta di presenza reale del sacrificio [16].

    Questa opzione teologica a favore del memoriale, che omette che la Messa è una rinnovazione non cruenta del sacrificio del Calvario e afferma che durante la sua celebrazione quest'ultimo diventa solo presente, offre una debole interpretazione del dogma di fede proclamato dal Concilio di Trento, secondo il quale ogni Messa è "un vero e proprio sacrificio" compiuto in forma sacramentale, perché la transustanziazione rende realmente presenti e simbolicamente separati il Corpo e il Sangue della Vittima divina [17].

    Papa Francesco opta per un "commemorazionalismo" estremo

    Desiderio Desideravi fa chiaramente e insistentemente questa scelta teologica a favore della Messa come memoriale che assume solo secondariamente l'aspetto sacrificale nella misura in cui è una commemorazione.

    Già all'inizio, nella descrizione dell'Ultima Cena che il Signore volle consumare con gli Apostoli, Francesco dice: «Lui sa di essere l’Agnello di quella Pasqua, sa di essere la Pasqua. Questa è l’assoluta novità di quella Cena, la sola vera novità della storia, che rende quella Cena unica e per questo “ultima”, irripetibile. Tuttavia, il suo infinito desiderio di ristabilire quella comunione con noi, che era e che rimane il progetto originario, non si potrà saziare finché ogni uomo, di ogni tribù, lingua, popolo e nazione (Ap 5,9) non avrà mangiato il suo Corpo e bevuto il suo Sangue: per questo quella stessa Cena sarà resa presente, fino al suo ritorno, nella celebrazione dell’Eucaristia (n.4)».

    Di passaggio, si noti che, in quel primo paragrafo descrittivo della Messa, oltre alla teoria della rappresentazione di un atto irripetibile, il Papa afferma che la Messa è una rappresentazione della Cena e non del sacrificio sul Calvario. Ciò ricorda l'originaria definizione dal sapore protestante della Messa (difettosa e successivamente modificata) offerta nel n. 7 dell'Istruzione Generale sul Messale Romano, alla quale i cardinali Ottaviani e Bacci si sono opposti così strenuamente nel loro Breve Studio Critico. È anche degno di nota il fatto che questo paragrafo suggerisce che ogni uomo e ogni donna dovrebbero mangiare e bere il Corpo e il Sangue di Cristo, cioè ricevere la comunione. Questo suggerisce un universalismo soteriologico coerente con l'autorizzazione pratica data da Papa Francesco a tutti i cristiani - cattolici o meno, che siano o meno in stato di grazia, che vivano o meno in conformità al Decalogo - a ricevere l'Eucaristia.

    Ma per tornare al tema principale, va notato che in Desiderio Desideravi ci sono alcuni riferimenti al sacrificio di Gesù sulla croce, ma in nessun punto si dice che tale sacrificio si rinnova in modo incruento a ogni Messa. Al contrario, uno dei primi paragrafi, pur affermando che «il contenuto del Pane spezzato è la croce di Gesù, il suo sacrificio nell'obbedienza d'amore al Padre», prosegue dicendo che gli Apostoli, dopo aver partecipato all'Ultima Cena, l'anticipazione rituale della sua morte, avrebbero dovuto capire «che cosa voleva dire “corpo offerto”, “sangue versato”: ed è ciò di cui facciamo memoria in ogni Eucaristia» (n. 7). Sarebbe stato il momento più appropriato per insegnare che nella Messa non solo ricordiamo ma rinnoviamo in modo incruento il sacrificio del Calvario, rappresentato sacramentalmente nella separazione delle specie eucaristiche. Papa Francesco ha scelto di omettere questa verità di fede e di riferirsi solo al memoriale.

    Pochi paragrafi dopo, il documento insiste sul fatto che la Liturgia non è un ricordo della memoria degli Apostoli, ma un vero incontro con il Risorto (un'idea che viene ripetuta nove volte in tutto il documento), e continua: «La Liturgia ci garantisce la possibilità di tale incontro. A noi non serve un vago ricordo dell’ultima Cena: noi abbiamo bisogno di essere presenti a quella Cena, di poter ascoltare la sua voce, mangiare il suo Corpo e bere il suo Sangue: abbiamo bisogno di Lui. Nell’Eucaristia e in tutti i sacramenti ci viene garantita la possibilità di incontrare il Signore Gesù e di essere raggiunti dalla potenza della sua Pasqua. La potenza salvifica del sacrificio di Gesù, di ogni sua parola, di ogni suo gesto, sguardo, sentimento ci raggiunge nella celebrazione dei sacramenti» (n.11). Si noti che, ancora una volta, l'accento è posto sulla partecipazione alla Cena e non sull'unione spirituale con Gesù che si offre al Padre in sacrificio in ogni Messa, un aspetto completamente omesso.

    La Messa come ricordo del "dono" offerto da Gesù nell'Ultima Cena?

    Parlando della giusta comprensione del dinamismo che descrive la Liturgia, Francesco usa le parole già citate nella sezione precedente, che chiariscono che, per lui, il carattere sacrificale della Messa deriva dalla commemorazione della Pasqua di Gesù: «il momento dell’azione celebrativa è il luogo nel quale attraverso il memoriale si fa presente il mistero pasquale perché i battezzati, in forza della loro partecipazione, possano farne esperienza nella loro vita» (n.49).

    Questa idea diventa più esplicita quando più avanti fa riferimento al nucleo centrale della Messa: «Con la preghiera eucaristica – nella quale anche tutti i battezzati partecipano ascoltando con riverenza e silenzio e intervenendo con le acclamazioni [Intitutio Generalis Missalis Romanus, 78-79] – chi presiede ha la forza, a nome di tutto il popolo santo, di ricordare al Padre l’offerta del Figlio suo nell’ultima Cena, perché quel dono immenso si renda nuovamente presente sull’altare» (n. 60). Non solo omette completamente l'offerta di Cristo durante la Passione (di cui la Cena era un'anticipazione rituale), non solo evita di dire che il sacrificio si rinnova, ma evita la parola stessa "sacrificio", chiamandolo "dono immenso".

    A tutto ciò si aggiunga che Desiderio Desideravi non contiene da nessuna parte espressioni come "transustanziazione", "presenza reale" o formulazioni analoghe che indichino che «il nutrimento Eucaristico contiene, come tutti sanno, «veramente, realmente e sostanzialmente il Corpo e il Sangue insieme con l’Anima e la Divinità di Nostro Signore Gesù Cristo», come dice Pio XII nella sua enciclica (n. 161), citando il Concilio di Trento (ses.13 can. l.). Non c'è nemmeno nulla di simile all'esortazione contenuta nella Mediator Dei affinché i pastori non permettano che «si trascurino l'adorazione e la visita del Santissimo Sacramento» o che con la «scusa di un rinnovamento della Liturgia, o parlando con leggerezza di una efficacia e dignità esclusive dei riti liturgici, che le chiese siano chiuse durante le ore non destinate alle pubbliche funzioni» (n.220), cosa che qualcuno allora già sosteneva.

    Sono queste le unilateralità responsabili della disastrosa perdita (o almeno della grave diluizione) della fede nella presenza reale di Nostro Signore Gesù Cristo sotto le specie eucaristiche, confermata da sondaggi di opinione in vari Paesi, il più espressivo dei quali è quello del Pew Research Center, che ha rilevato che "solo un terzo dei cattolici americani concorda con la Chiesa sul fatto che l'Eucaristia è il corpo e il sangue di Cristo" [18].

     

    Note

    [14] Voce “Memorial” nel Diccionario Teológico Enciclopédico.

    [15] P. Manuel Martín-Moreno S.I., Apuntes de Teología, p. 46.

    [16] Philippe-Marie Margelidon O.P., in «La théologie du sacrifice eucharistique chez Jacques Maritain», in Revue Thomiste, enero-marzo 2015, pp. 101-147.

    [17] Cfr. Claude Barthe, La Messe de Vatican II – dossier historique, Via Romana, Versailles, 2018, p. 181.

    [18] https://www.pewresearch.org/fact-tank/2019/08/05/transubstantiation-eucharist-u-s-catholics/

     

    Fonte: Onepeterfive, 10 agosto 2022. Traduzione a cura di Tradizione Famiglia Proprietà – Italia.

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  • Il Novus Ordo come arma per promuovere "un'altra fede"? (5/5)

    Nota: Oggi pubblichiamo la parte finale dello studio di José A. Ureta su Desiderio Desideravi. Per le pubblicazioni precedenti, vedere Parte 1; Parte 2; Parte 3; Parte 4.

     

     

    di José Antonio Ureta

    Una domanda scomoda

    Nei quattro punti discussi sopra - (1) lo scopo del culto liturgico, (2) il mistero pasquale come centro della celebrazione, (3) il carattere memoriale della Santa Messa e, infine, (4) la presidenza dell'assemblea liturgica - è abbastanza chiaro che la visione di Desiderio Desideravi sulla Liturgia è unilaterale, perché pone tutti gli accenti sulle sillabe sbagliate, anche se le sue parole, prese singolarmente, possono sembrare abbastanza giuste da meritare il plauso di alcuni tradizionalisti, persino tra i più dotti. Ciò che Papa Francesco sembra voler sottolineare sono le teorie e le preferenze dei liturgisti novatori, non la dottrina tradizionale della Chiesa.

    Ma un'analisi attenta mostra che il risultato finale è una presentazione della vita sacramentale della Chiesa, e in particolare del rito della Santa Messa, che nel complesso non sembra essere in armonia con i principi e i consigli pastorali dell'ultima grande enciclica liturgica prima del Concilio Vaticano II, la Mediator Dei di Pio XII.

    La domanda scomoda che sorge spontanea è la seguente: queste due forme rituali così diverse corrispondono davvero a una stessa Fede?

    Nel campo dei novatori più avanzati, la risposta è chiara: si tratta di due posizioni liturgiche incompatibili che corrispondono a due posizioni dogmatiche incompatibili: una è la fede che permea il rito tradizionale; un'altra fede è quella che permea il nuovo rito. Ecco perché il gesuita che abbiamo citato, P. Martín-Moreno, insiste con tanta veemenza sul fatto che la "nuova Messa" soppianta definitivamente (o, più precisamente, ripudia) l'orientamento e la posizione teologica della vecchia Messa.

    La Messa di ieri "non può più essere la norma" per la fede di oggi

    Infatti, a metà strada tra il controverso Motu proprio Traditionis custodes e l'ultima esortazione apostolica Desiderio Desideravi, nel febbraio di quest'anno, una coppia di esponenti dell'autoproclamata Conferenza cattolica dei battezzati di lingua francese ha pubblicato un eloquente articolo sul quotidiano La Croix. Approfittando del fatto che in francese le espressioni autrefois (altri tempi) e autre foi (un'altra fede; una fede diversa) si pronunciano in modo identico, hanno espresso la loro opinione con il seguente titolo: "La fin des messes d'autre ‘foi’, une chance pour le Christ!" [23] (La fine delle messe di un’altra ‘fede’, una opportunità per Cristo!). L'articolo di Aline e Alain Weidert ha il merito di chiamare le cose con il loro nome e di essere logico nelle sue conclusioni. Seguono alcuni lunghi brani selezionati che parlano da soli, non necessitando di alcun commento da parte nostra:

    "Lo spirito della liturgia di un'altra 'fede', la sua teologia, le norme della preghiera e della Messa del passato (la lex orandi del passato), il suo contenuto (la nostra lex credendi), non possono più, senza discernimento, essere le norme della fede di oggi. La prudenza impone di non riflettere troppo su questi contenuti per non destabilizzare ulteriormente la Chiesa.

    "Tuttavia, una fede che derivasse ancora dalla lex orandi di ieri, che ha fatto del cattolicesimo la religione di un dio perverso che fa morire suo figlio per placare la sua ira, una religione di un perpetuo mea culpa e riparazione, porterebbe a una "anti-testimonianza" della fede, a un'immagine disastrosa di Cristo. Prova inconfutabile: la concessione ancora troppo frequente di indulgenze, legate tra l'altro a messe di sacrificio, in remissione dei peccati.

    "Le nostre Messe, purtroppo, sono ancora segnate da un forte carattere sacrificale 'espiatorio' di scopo 'propiziatorio' per cancellare i peccati (citati 20 volte), per ottenere la nostra salvezza e salvare le anime dalla vendetta divina. “Propiziazione" che le comunità Ecclesia Dei difendono con le unghie e con i denti, con i loro sacerdoti-sacrificatori, addestrati a recitare il Santo Sacrificio della Messa, vera immolazione. (...)

    "È da questa parte sommersa della Messa tridentina, una deriva storica curiosamente passata sotto silenzio (tabù?) nei dibattiti attuali, che dobbiamo continuare a emergere. Dal Concilio Vaticano II abbiamo fatto molta strada verso il fatto iniziale di un'Eucaristia positiva, di un ‘Fate questo in memoria di me!’ in cui tutti sono invitati ad essere sacramento quotidiano dell'Alleanza: ‘L'acqua unita al vino sia segno della nostra partecipazione alla vita divina di colui che ha voluto condividere la nostra condizione umana’: il Sacramento dell'Alleanza (è) un concetto nuovo in questa preghiera dopo il Concilio Vaticano II. (...)

    "Se vogliamo essere in grado di offrire una fede e una pratica cristiana attraenti in futuro, dobbiamo avventurarci, attraverso la riflessione e la formazione, a scoprire una profondità ancora non sfruttata della salvezza attraverso Gesù, non mettendo al primo posto la sua morte contro ('a causa di') i peccati, ma la sua esistenza come Alleanza". Infatti, "la sua umanità, unita alla persona del Verbo, è stata lo strumento della nostra salvezza" (Sacrosanctum Concilium,Concilio Vaticano II, 5). La scelta è chiara! Non tra diverse sensibilità religiose ed estetiche, ma tra sacrifici infiniti al fine di cancellare i peccati ed Eucaristie che sigillano l'Alleanza/Cristo".

    Almeno qui le cose sono dette chiaramente e senza contorsioni semantiche. Tuttavia, se dovessimo posizionare il cursore di Desiderio Desideravi tra le due visioni della liturgia e della Messa descritte in questo articolo, temiamo che il cursore sarebbe molto vicino al polo dell'Alleanza. Tanto che Alain Weidert ha appena pubblicato su La Croix un nuovo articolo euforico nei confronti dell'esortazione [24].

    La fede perenne e la nuova teologia sono incompatibili

    In ogni caso, sono ancora lontani dall'essere raggiunti gli obiettivi che Papa Francesco si è posto con la pubblicazione della sua ultima esortazione apostolica, ovvero che "abbandoniamo le polemiche" (n. 65) e che la bellezza della celebrazione cristiana non venga "deturpata da una superficiale e riduttiva comprensione del suo valore o, ancor peggio, da una sua strumentalizzazione a servizio di una qualche visione ideologica, qualunque essa sia" (n. 16).

    Il motivo è dato dallo stesso pontefice: "Sarebbe banale leggere le tensioni, purtroppo presenti attorno alla celebrazione, come una semplice divergenza tra diverse sensibilità nei confronti di una forma rituale. La problematica è anzitutto ecclesiologica" (n. 31). Questo è corretto. È soprattutto per motivi teologici che i modernisti ‘teste calde’ ritengono che il rito di San Pio V sia la Messa di "un'altra fede" ed è per motivi teologici che i tradizionalisti ritengono che il rito di Paolo VI si allontani su alcuni punti essenziali dagli insegnamenti tradizionali sulla Messa. È in nome della fede tradizionale che non accettano che il nuovo rito sia "l'unica espressione della lex orandi del Rito Romano", come sostiene la Traditionis custodes e come ribadisce la Desiderio Desideravi (n. 31).

    Se la recente esortazione apostolica ha cercato di dare un fondamento teologico a tale pretesa, dobbiamo constatare, dopo questa breve analisi, che il colpo sembra essersi ritorto contro, perché la sua unilateralità non fa che confermare la convinzione del campo tradizionale che la nuova lex orandi non corrisponde alla lex credendi che la Chiesa ha ricevuto in deposito. E l'argomento invocato da Papa Francesco come ultima ratio, cioè che i tradizionalisti devono accettare la nuova Messa perché corrisponde agli insegnamenti del Concilio Vaticano II, non è tale da far loro cambiare idea. Proprio perché la Costituzione Sacrosantum Concilium, il successivo magistero liturgico e la Desiderio desideravi meritano le stesse obiezioni teologiche.

    In ogni caso, resta qui un invito ai teologi e agli specialisti di Liturgia ad affrontare l'argomento e ad analizzare, in modo più approfondito e scientifico, il contributo che Desiderio Desideravi ha dato al dibattito in corso.

     

    Note

    [23] Aline e Alain Weidert, La Croix, 10-02-2022.

    [24] https://www.la-croix.com/Debats/Francois-lurgence-dune-formation-liturgie-2022-07-08-1201224067

     

    Attribuzione immagine: ©Mazur/catholicnews.org.uk, CC BY-NC-ND 2.0

     

    Fonte: Onepeterfive, 12 Agosto 2022. Traduzione a cura di Tradizione Famiglia Proprietà – Italia.

    © La riproduzione è autorizzata a condizione che venga citata la fonte.

  • Il primato dell’Adorazione (1/5)

     

     

    di José Antonio Ureta

    La necessità di un esame accurato

    Negli ambienti tradizionalisti, i commenti all'Esortazione apostolica Desiderio Desideravi si sono finora limitati a deplorare la reiterazione della tesi che la Messa di Paolo VI sia l'unica forma del rito romano e a negare che il nuovo Ordinario della Messa sia una traduzione fedele dei desideri di riforma espressi dai Padri conciliari nella Costituzione Sacrosantum Concilium.

    Nessuna critica teologica ai principi sviluppati da Papa Francesco nella sua meditazione sulla liturgia è giunta tra le mie mani (o, piuttosto, nello schermo del mio computer). Noto anche con preoccupazione che alcuni articoli, pur condannando i due difetti di Desiderio Desideravi sopra citati, lasciano intendere che se i suoi principi e alcuni commenti del Papa fossero messi in pratica nelle parrocchie, il risultato sarebbe positivo. «In effetti, gran parte delle raccomandazioni liturgiche di Papa Francesco potrebbero essere lette come una bandiera di battaglia per il tradizionalismo liturgico», scrive un importante leader tradizionalista, che aggiunge, dopo aver citato alcune parti dell'esortazione sulla ricchezza del linguaggio simbolico: «Se i responsabili liturgici diocesani prendessero sul serio queste affermazioni, assisteremmo a una trasformazione universale della liturgia cattolica in senso tradizionale» [1]. I sacerdoti della diocesi di Versailles che celebrano nelle due forme del rito romano e che animano il Fatherblog hanno affermato, da parte loro, che «molti elementi della lettera hanno in comune elementi che non sono specifici del messale del 1962 o del messale del 1970», per concludere che «il meglio del messale di San Pio V troverà naturalmente il suo posto nell'approfondimento liturgico richiesto dal Santo Padre» [2]. Il cappellano della Messa tradizionale che frequento regolarmente (appartenente a una comunità Ecclesia Dei) sembra essere dello stesso parere, poiché alla fine di una recente predica ha suggerito di trascurare l'avversione per il paragrafo 31 di Desiderio Desideravi e di approfittare delle vacanze estive europee per nutrirsi spiritualmente leggendo il documento papale.

    Temendo che questo atteggiamento benevolo si diffonda negli ambienti tradizionalisti, intendo mostrare nei paragrafi seguenti le deviazioni dottrinali che, a mio modesto parere, irrorano le meditazioni di Papa Francesco sulla liturgia, deviazioni che derivano dal nuovo orientamento teologico assunto nella costituzione Sacrosantum Concilium del Concilio Vaticano II. Lo farò confrontando la visione della liturgia insegnata nell'ultimo documento preconciliare sull'argomento, cioè l'enciclica Mediator Dei di Pio XII, con quella che emerge da Desiderio Desideravi. La conclusione sarà che quest'ultimo merita almeno la critica che il cardinale Giovanni Colombo fece alla Gaudium et Spes, e cioè che «questo testo ha tutte le parole giuste; sono gli accenti che sono fuori posto» [3]. Purtroppo, ciò che i lettori traggono dal recente testo del papa sono più gli accenti sbagliati che le parole giuste....

    Il confronto tra la visione di Pio XII e quella di Francesco si concentrerà su quattro punti specifici: la finalità del culto liturgico, il mistero pasquale come centro della celebrazione, il carattere memoriale della Santa Messa e, infine, la presidenza dell'assemblea liturgica.

    La finalità del culto liturgico

    Mediator Dei [4] stabilisce con solare chiarezza che il culto cattolico ha due scopi principali che si intrecciano e si sostengono a vicenda: la gloria di Dio e la santificazione delle anime. Ma, evidentemente, il primato spetta all'omaggio reso al Creatore.

    Dopo aver spiegato che «Il dovere fondamentale dell'uomo è certamente quello di orientare verso Dio sé stesso e la propria vita» (n°. 18), riconoscendoGli la suprema maestà e rendendoGli «mediante le virtù della religione, il debito culto» (n. 19), Pio XII ricorda che la Chiesa fa questo continuando la funzione sacerdotale di Gesù Cristo (n. 5) e conclude con la seguente definizione: «La sacra Liturgia è pertanto il culto pubblico che il nostro Redentore rende al Padre, come Capo della Chiesa, ed è il culto che la società dei fedeli rende al suo Capo e, per mezzo di Lui, all'Eterno Padre: è, per dirla in breve, il culto integrale del Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del Capo e delle sue membra».

    Anche il fine secondario (e anzi primario da un altro punto di vista) della santificazione delle anime ha come fine ultimo la gloria di Dio: «Tale è l'essenza e la ragione d'essere della sacra Liturgia: essa riguarda il Sacrificio, i Sacramenti e la lode di Dio; l'unione delle nostre anime con Cristo e la loro santificazione per mezzo del Divin Redentore, perché sia onorato Cristo, e per Lui ed in Lui la Santissima Trinità: Gloria al Padre, al Figliolo e allo Spirito Santo» (n. 215).

    Sotto l'influenza dei teologi del cosiddetto "movimento liturgico", le cui idee furono raccolte nella Sacrosantum Concilio, questo rapporto tra la glorificazione di Dio e la santificazione delle anime nella liturgia fu invertito. Lo spiega in modo molto pedagogico il teologo gesuita P. Juan Manuel Martín-Moreno nei suoi Apuntes de Liturgia [5] per il corso che tenne alla Pontificia Università di Comillas (della Compagnia di Gesù) negli anni 2003-2004:

    «All'atto liturgico è sempre stata riconosciuta una duplice dimensione. Da un lato ha come obiettivo la glorificazione di Dio (dimensione ascensionale o anabatica) e dall'altro la salvezza e la santificazione degli uomini (dimensione discensionale o catabatica) (...).

    «La teologia liturgica prima del Vaticano II si basava sul concetto di culto concepito in modo anabatico. La liturgia era innanzitutto la glorificazione di Dio, l'adempimento dell'obbligo della Chiesa, in quanto società perfetta, di adorare Dio in pubblico e quindi di attirare le benedizioni di Dio.

    «Per il Vaticano II, invece, la dimensione discendente ha la precedenza. La Trinità divina si manifesta nell'Incarnazione e nella Pasqua di Cristo. Il Padre, donando nell'Incarnazione il suo Figlio al mondo e il suo Spirito nella pienezza della Pasqua, ci comunica la sua comunione trinitaria come un dono. Questo doppio dono della Parola e dello Spirito ci viene dato nel servizio liturgico per la nostra liberazione e santificazione (...).

    «La concezione anabatica della liturgia era incentrata sul servizio dell'uomo a Dio, mentre la concezione catabatica si concentra sul servizio offerto da Dio all'uomo. La critica al culto, inteso come servizio dell'uomo a Dio, si basa sul fatto che Dio non ha realmente bisogno di tali servizi da parte dell'uomo (...).

    «Se la liturgia fosse fondamentalmente culto, sarebbe superflua. Ma se la liturgia è il modo in cui l'uomo può entrare in possesso della salvezza di Dio, il modo in cui l'azione salvifica diventa realmente presente qui e ora per l'uomo, è chiaro che l'uomo ha ancora bisogno della liturgia» [6].

    Infatti, la dimensione catabatica ha anche lo scopo anabatico di condurre le persone a Dio e di farle glorificare. Ma nella Desiderio desideravi [7], Papa Francesco sottolinea quasi esclusivamente questa concezione primariamente catabatica della liturgia e lascia in ombra la glorificazione di Dio, che per Pio XII è il suo elemento primario.

    La sua meditazione inizia con le parole iniziali del racconto dell'Ultima Cena - «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi(Lc 22,15)» - sottolineando che esse ci danno «la sorprendente possibilità di intuire la profondità dell’amore delle Persone della Santissima Trinità verso di noi» (n° 2). «Il mondo ancora non lo sa, ma tutti sono invitati al banchetto di nozze dell’Agnello (Ap 19,9) (n. 5)», aggiunge il pontefice. Tuttavia, «Prima della nostra risposta al suo invito – molto prima – c’è il suo desiderio di noi: possiamo anche non esserne consapevoli, ma ogni volta che andiamo a Messa la ragione prima è perché siamo attratti dal suo desiderio di noi». (n° 6). La liturgia, dunque, è innanzitutto il luogo dell'incontro con Cristo, perché «La Liturgia ci garantisce la possibilità di tale incontro» (n. 11).

    Il senso catabatico e discendente della liturgia - entrare in possesso della salvezza - è molto ben sottolineato. Ma il fatto, messo in rilievo da Pio XII nel testo già citato, che la prima funzione sacerdotale di Cristo è quella di adorare il Padre Eterno in unione con il suo Corpo Mistico, è stato completamente omesso.

    Questa unilateralità è rafforzata in un altro paragrafo che tratta specificamente l'aspetto anabatico ascendente, cioè la glorificazione della divinità da parte dei fedeli riuniti. Questo testo insinua che la gloria di Dio è secondaria, in quanto non aggiunge nulla a ciò che già possiede in cielo, mentre ciò che è veramente importante è la sua presenza sulla terra e la trasformazione spirituale che essa produce: «La liturgia dà gloria a Dio non perché noi possiamo aggiungere qualcosa alla bellezza della luce inaccessibile nella quale Egli abita (cfr. 1Tm 6,16) o alla perfezione del canto angelico che risuona eternamente nelle sedi celesti. La Liturgia dà gloria a Dio perché ci permette, qui, sulla terra, di vedere Dio nella celebrazione dei misteri e, nel vederlo, prendere vita dalla sua Pasqua: noi, che da morti che eravamo per le colpe, per grazia, siamo stati fatti rivivere con Cristo (cfr. Ef 2,5), siamo la gloria di Dio» (n. 43).

    Le parole sono giuste, perché è vero che l'uomo aggiunge a Dio una gloria che è solo "accidentale", ma è stato Dio stesso a volerla ricevere da lui quando lo ha creato. Ma gli accenti, con la loro unilateralità, inducono i fedeli in una posizione sbagliata, che facilmente degenera nel culto del vitello d'oro, cioè «in una festa che la comunità offre a sé stessa, e nella quale si conferma», atteggiamento denunciato a suo tempo dall'allora cardinale Joseph Ratzinger [8].

     

    Note

    [1] https://onepeterfive.com/pope-francis-liturgical-longing/

    [2] https://www.la-croix.com/Debats/Au-dela-querelles-liturgiques-pape-nous-fait-contempler-souffle-doit-habiter-toute-liturgie-2022-07-06-1201223716

    [3] http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347506.html

    [4] Le citazioni dell'enciclica e la loro numerazione corrispondono alla versione pubblicata sul sito web della Santa Sede: https://www.vatican.va/content/pius-xii/es/encyclicals/documents/hf_p-xii_enc_20111947_mediator-dei.html

    [5] https://www.academia.edu/34752512/Apuntes_de_Liturgia.doc

    [6] Op. cit., p. 47-48.

    [7] Le citazioni dell'esortazione apostolica e la numerazione corrispondono alla versione pubblicata sul sito web della Santa Sede: https://www.vatican.va/content/francesco/es/apost_letters/documents/20220629-lettera-ap-desiderio-desideravi.html

    [8] Joseph Ratzinger, El Espíritu de la liturgia – Una introducción, Eds. Cristiandad, Madrid, 2001, p. 43.

    Attribuzione immagine: By Fczarnowski - Own work, CC BY-SA 3.0, Wikimedia

     

    Fonte: Onepeterfive, 8 agosto 2022. Traduzione a cura di Tradizione Famiglia Proprietà – Italia.

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  • Oscuramento della centralità della Passione redentrice (2/5)

    Nota dell'editore: continuiamo con la seconda parte [qui la Prima] della critica di José A. Ureta a Desiderio Desideravi, iniziata con l’edizione anteriore della nostra newsletter.

     

     

    di José Antonio Ureta

     

    IL MISTERO PASQUALE COME CENTRO DELLA CELEBRAZIONE

    Nell'enciclica Mediator Dei, Pio XII sottolinea la centralità della Passione nella vita di Nostro Signore Gesù Cristo e nella nostra redenzione (i grassetti di seguito sono tutti nostri):

    «La sacra Liturgia, poi, ci propone tutto Cristo, nei vari aspetti della sua vita: il Cristo, cioè, che è Verbo dell'Eterno Padre, che nasce dalla Vergine Madre di Dio, che ci insegna la verità, che sana gli infermi, che consola gli afflitti, che soffre, che muore; che, infine, risorge trionfando sulla morte, che, regnando nella gloria del cielo, ci invia lo Spirito Paraclito, che vive sempre nella sua Chiesa: «Gesù Cristo ieri ed oggi: Egli è anche nei secoli». E inoltre non ce lo presenta soltanto come un esempio da imitare, ma anche come un maestro da ascoltare, un pastore da seguire, come mediatore della nostra salvezza, principio della nostra santità, e Mistico Capo di cui siamo membra, viventi della sua stessa vita.

    «E siccome i suoi acerbi dolori costituiscono il mistero principale da cui proviene la nostra salvezza, è secondo le esigenze della fede cattolica porre ciò nella sua massima luce, poiché esso è come il centro del culto divino, essendone il Sacrificio Eucaristico la quotidiana rappresentazione e rinnovazione, ed essendo tutti i Sacramenti congiunti con strettissimo vincolo alla Croce» (203-204).

    Più avanti, Pio XII fa riferimento alle finalità del sacrificio eucaristico (adorazione, ringraziamento, propiziazione e impetrazione). Nel descrivere il terzo scopo, Papa Pacelli sottolinea ancora una volta il ruolo della Passione e della Morte del divino Redentore, riassumendo in poche righe la dottrina di Sant'Anselmo sull'espiazione vicaria di Gesù Cristo sulla croce: «Il terzo fine è l'espiazione e la propiziazione. Certamente nessuno al di fuori di Cristo poteva dare a Dio Onnipotente adeguata soddisfazione per le colpe del genere umano; Egli, quindi, volle immolarsi in Croce in “espiazione per i nostri peccati;non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1Gv 2, 2)».

    E ribadisce questo insegnamento tradizionale nel descrivere il frutto del sacrificio divino, citando Sant'Agostino: «I meriti infiniti e immensi di questo sacrificio non hanno limiti, e si estendono a tutti gli uomini in ogni luogo e in ogni tempo, perché in esso il sacerdote e la vittima è Dio Uomo; perché la sua immolazione, come la sua obbedienza alla volontà dell'Eterno Padre, è stata perfettissima, e perché ha voluto morire come capo del genere umano: "Vedete come è stato trattato il nostro Salvatore: Cristo pende sulla croce; vedete a quale prezzo ha comprato.... Il suo sangue è stato versato. Egli ha comprato con il suo sangue, con il sangue dell'Agnello immacolato, con il sangue dell'unico Figlio di Dio.... È Cristo che compra; il prezzo è il sangue; l'acquisto, il mondo intero" (S. Agostino, In psalm. 147; P.L. 37, 1925)» (n° 95).

     

    REINTERPRETARE LA REDENZIONE ATTRAVERSO LA RISURREZIONE

    Questa insistenza sulla centralità del sacrificio della croce per la redenzione del genere umano era una risposta alle elucubrazioni dei teologi più radicali del movimento liturgico che, già all'epoca, lo mettevano in ombra, enfatizzando il trionfo e la risurrezione di Cristo e il suo attuale stato glorioso. Il gesuita Juan Manuel Martín-Moreno servirà ancora una volta da guida per chiarire il cambiamento di enfasi introdotto dagli innovatori:

    "La teologia occidentale si sta liberando da questo modello anselmiano di redenzione, che ha influenzato così negativamente la liturgia. Infatti, la salvezza è stata un'iniziativa del Padre che ci ha amati mentre eravamo ancora peccatori (Rm 5, 10). È stata l'iniziativa del Padre a mandarci il suo Figlio, il Salvatore, come capo di una nuova umanità. Gesù non è morto perché ha cercato la morte, né perché il Padre l'ha richiesta. Il Padre non lo ha mandato a morire, ma a vivere. L'azione del Padre non consiste nell'uccidere il Figlio, ma nel farlo risorgere, accogliendo la sua offerta d'amore. (...)

    "Il modo crudele in cui Gesù ha subito la sua morte non è la conseguenza di un destino ineluttabile fissato da Dio Padre, ma è la conseguenza della crudeltà degli uomini che non potevano tollerare la presenza di un giusto in mezzo a loro.

    "Quando diciamo che Gesù è morto 'per i nostri peccati', intendiamo dire che è morto perché l'umanità peccatrice non poteva che ucciderlo. È morto perché eravamo peccatori. Se fossimo stati giusti, non lo avremmo mai ucciso e Gesù non avrebbe subito quella morte. Non è il Padre a volere la morte di Gesù sulla croce, ma l'umanità peccatrice.

    "Gesù muore perché è stato fedele alla linea di condotta che gli era stata tracciata, mostrandoci il vero volto del Padre. In questo senso possiamo dire che è morto per il compimento della volontà di Dio. (...)”

    "Poiché è morto nel compimento della sua missione e ha assunto la nostra natura umana fino alle sue ultime conseguenze, morendo di una morte simile alla nostra, l'umanità di Gesù è stata risuscitata dal Padre. (...) La nostra salvezza è l'effetto della sua incarnazione, della sua vita, della sua morte, della sua risurrezione e del dono del suo Spirito" [1].

    Non potrebbe essere più chiaro: la porta della risurrezione e della vita eterna ci è stata aperta non tanto per il sangue versato sulla croce, ma perché l'umanità di Gesù è stata risuscitata dal Padre. Questo cambiamento di paradigma, descritto pedagogicamente da P. Martín-Moreno, cessò di essere una mera speculazione dei teologi e cominciò a passare nelle cattedre ecclesiastiche già nel periodo dell'elaborazione dello schema preliminare della Costituzione sulla liturgia, ancor prima dell'inizio della prima sessione conciliare. Il titolo originario del capitolo sull'Eucaristia, approvato il 10 agosto 1961, era De sacro sancto Missae sacrificio; ma nella sessione del 15 novembre dello stesso anno divenne De sacro sancto Eucharistiae misterio [2].

     

    COME QUESTO PUNTO DI VISTA È ENTRATO NELLA COSTITUZIONE CONCILIARE SULLA LITURGIA

    All'inizio delle discussioni su questo schema preliminare - l'unico che, a causa del suo carattere novatore volontariamente moderato [3], non fu respinto a priori ma emendato - Mons. Henri Jenny, allora vescovo ausiliare di Cambrai e membro della commissione preparatoria sulla liturgia (e in seguito membro del Consilium che elaborò la nuova Messa), osservò che lo schema mancava dell'essenziale: una dottrina sul mistero della liturgia. Fu quindi istituita una sottocommissione che redasse il primo capitolo della Sacrosanctum Concilium [4], il cui contenuto divenne il nucleo dottrinale non solo di quella costituzione conciliare, ma anche della riforma liturgica di Papa Paolo VI e di tutto il magistero postconciliare sulla liturgia.

    Quel primo capitolo della Sacrosanctum Concilium diluisce la centralità della morte in croce nell'insieme del "mistero pasquale":  «Quest'opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio, che ha il suo preludio nelle mirabili gesta divine operate nel popolo dell'Antico Testamento, è stata compiuta da Cristo Signore principalmente per mezzo del mistero pasquale della sua beata passione, risurrezione da morte e gloriosa ascensione, mistero col quale “morendo ha distrutto la nostra morte e risorgendo ha restaurato la vita”. Infatti dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito “il mirabile sacramento di tutta la Chiesa”» (n° 5).

    Non c'è dubbio che l'espressione paschale sacramentum (cioè "mistero pasquale") sia frequente nei testi dei Padri della Chiesa e nelle preghiere del messale tradizionale. Ma in essi tutti, l'espressione è stata compresa all'interno della concezione tradizionale della Redenzione come riscatto operato principalmente dal Sangue versato nella Passione e Morte del Salvatore (si veda, ad esempio, la preghiera del Venerdì Santo: «Ricordati, o Signore, delle tue misericordie e santifica con costante protezione i tuoi servi, per i quali il tuo Figlio Gesù Cristo ha istituito il mistero pasquale con la sua passione» - per suum cruorem, instituit paschale mysterium).

    Mentre, nel suo significato moderno, il mistero pasquale è stato inteso principalmente come la piena rivelazione dell'amore del Padre, che si esprime soprattutto nella risurrezione di Gesù: «Quando si passa dalla redenzione al mistero pasquale, l'accento cambia completamente. Chi parla di redenzione pensa prima alla Passione e poi alla resurrezione come complemento. Chi parla di Pasqua pensa prima a Cristo risorto» [5], scriveva il domenicano Aimon-Marie Roguet in un articolo pubblicato sulla rivista Maison-Dieu, baluardo parigino del movimento liturgico.

     

    PAPA FRANCESCO MINIMIZZA LA MORTE REDENTRICE DI CRISTO

    È proprio questa accentuazione unilaterale a favore della Pasqua e a scapito della Passione - contrariamente all'equilibrio tradizionale - che traspare da ogni poro di Desiderio Desideravi. Neanche una volta il documento usa le parole "redenzione", "redentore", "riscattare", che evocano la liberazione dal peccato attraverso il pagamento di un debito. Utilizza sempre "salvezza", che non ha questa connotazione, e lo associa preferibilmente alla Pasqua ebraica, che viene menzionata ben 29 volte nel corso del testo. Mentre la risurrezione è menzionata 14 volte, la morte del Signore è menzionata solo 6 volte.

    La stessa definizione che egli offre della Liturgia soffre di questa parzialità. Per Francesco «la Liturgia è il sacerdozio di Cristo a noi rivelato e donato nella sua Pasqua, reso oggi presente e attivo attraverso segni sensibili (acqua, olio, pane, vino, gesti, parole) perché lo Spirito, immergendoci nel mistero pasquale, trasformi tutta la nostra vita conformandoci sempre più a Cristo» (n. 21). E a proposito del rispetto delle rubriche, afferma che è necessario non privare l'assemblea di ciò che le appartiene, «vale à dire il mistero pasquale celebrato nella modalità rituale che la Chiesa stabilisce» (n. 23), che deve risvegliare la meraviglia dei partecipanti, descritta come «meraviglia per il fatto che il piano salvifico di Dio ci è stato rivelato nella Pasquadi Gesù (cfr. Ef 1,3-14) la cui efficacia continua a raggiungerci nella celebrazione dei “misteri”, ovvero dei sacramenti» (n. 25). Inoltre, afferma che l’«azione celebrativa è il luogo nel quale attraverso il memoriale si fa presente il mistero pasqualeperché i battezzati, in forza della loro partecipazione, possano farne esperienza nella loro vita» (n. 49).

    Il rischio di un tale cambiamento di enfasi è che (ciò che resta della) fede dei fedeli possa essere distorto in due dimensioni. Da un lato, possono essere portati a pensare che l'opera di salvezza sia da attribuire più al Padre e allo Spirito Santo che a Gesù, il Verbo incarnato, figlio di Maria, che ha versato il suo sangue per i nostri peccati. D'altra parte, potrebbero essere portati a pensare che Gesù Cristo non sia propriamente il Redentore, ma il "luogo" in cui Dio ci salva, poiché è nella Pasqua di Cristo che l'amore del Padre si rivela a noi. La pietà dei fedeli può anche essere portata a svalutare tutte le devozioni tradizionali che li incitano a espiare i loro peccati e quelli dell'umanità e portarli a sostenere di essere salvati solo per fede nel piano salvifico di Dio, senza completare nella loro carne «ciò che manca ai patimenti di Cristo» (Col 1,24); o, peggio ancora, a credere in una salvezza universale a causa dell'indefettibile alleanza di Dio con il genere umano.

     

    Note

    [1] Apuntes de Liturgia, p. 43-44.

    [2] https://www.cairn.info/revue-recherches-de-science-religieuse-2013-1-page-13.htm

    [3] https://www.crisismagazine.com/2021/sacrosanctum-concilium-the-ultimate-trojan-horse

    [4] http://www.fraternites-jerusalem.ca/wordpress_sdssm/wp-content/uploads/2013/04/Présentation-Sacrosanctum-Concilium.pdf

    [5] https://www.la-croix.com/Culture/revue-Maison-Dieu-liturgie-coeur-2020-11-29-1201127197

     

    Fonte: Onepeterfive, 9 agosto 2022. Traduzione a cura di Tradizione Famiglia Proprietà – Italia.

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