I "Patti della terra rubata", nuovo tentativo di minare alle radici la cultura occidentale dell’America

diEdwin Benson
Attualmente, in molti campus universitari americani, i più potenti ispettori sono quelli legati ai dipartimenti delle tre parole "Diversità, Equità e Inclusione" (DEI). Secondo uno studio della Heritage Foundation, "la promozione della diversità, dell'equità e dell'inclusione (DEI) nei campus universitari è diventata una preoccupazione centrale dell'istruzione superiore".
Gli ispettori DEI non sono solo potenti, ma anche numerosi. L'Università del Michigan ne ha 163, dedicati a tempo pieno a questo lavoro. La storica rivale, l'Ohio State University, 94. Stanford ne ha 80 e Syracuse 65. La media dei college presi in esame dalla Heritage è stata di 45,1 persone per università. I fortunati membri della facoltà di Baylor devono vedersela solo con sette.
Il compito principale dei dipartimenti DEI è inculcare il senso di colpa. Uno strumento importante a questo scopo sono i "Patti per la terra rubata", noti anche come "Riconoscimenti della terra" o "Protocolli per la terra rubata".
“Patti per la terra rubata”
Queste dichiarazioni obbligano i funzionari universitari ad ammettere che i loro college occupano terre "rubate" ai nativi americani (indiani). Molte università richiedono (o consigliano vivamente) agli insegnanti di includere questo riconoscimento nei loro programmi e all'inizio di ogni lezione o evento pubblico.
A titolo di esempio, questa è la dichiarazione dell'Alma Mater dell’Università del Michigan-Flint:
Vorremmo riconoscere che la terra in cui ci riuniamo oggi è la patria ancestrale, tradizionale e condivisa di molte nazioni indigene, più recentemente delle nazioni tribali Anishinabek (tra cui Potawatomi, Chippewa/Ojibwe e Odawa). Riconosciamo la dolorosa storia di genocidio, trasferimento forzato e rimozione di molti da questo territorio e onoriamo e rispettiamo i molti popoli indigeni, compresi quelli dell'Alleanza dei Tre Fuochi, che sono ancora legati a questa terra su cui ci riuniamo.
Come la maggior parte dei college, l'Università di Stanford inserisce la dichiarazione in una sorta di liturgia secolare. "Questo riconoscimento può essere scritto o pronunciato all'inizio di un evento o di un programma. Se viene pronunciato, l'ordine dovrebbe essere: (1) Benvenuto e parole sull'evento; (2) Riconoscimento del territorio (rubato); (3) Passaggio al programma regolare”.
Lacrime di coccodrillo a Chicago
Questa pratica non si limita alle università. Altre organizzazioni culturali l'hanno già abbracciata. La dichiarazione dell’Università di Michigan-Flint è ben poca cosa rispetto a quella dell'Art Institute di Chicago, che inizia così: "L'Istituto d'Arte di Chicago si trova nelle terre tradizionali e mai concesse del Consiglio dei Tre Fuochi: le nazioni Ojibwe, Odawa e Potawatomi. Anche molte altre tribù come i Miami, gli Ho-Chunk, i Menominee, i Sac e i Fox hanno chiamato quest'area loro focolare".Il documento cita poi i contributi di questi gruppi alla storia di Chicago e si conclude con una sorta di promessa: "Il nostro impegno per i diritti degli indigeni, la giustizia razziale e l'equità culturale non si limita a questa dichiarazione, ma si concretizza anche nella raccolta e nella cura degli oggetti dei nativi americani, nelle nostre mostre e nei nostri programmi, nonché nei rapporti con le comunità indigene".
Un altro esempio di tali “patti per la terra rubata” è stato il preambolo della piattaforma del Partito Democratico nel 2020, durante la sua National Convention a Milwaukee. Ad un certo punto, si legge: "Il Comitato nazionale democratico desidera riconoscere che ci riuniamo per affermare i nostri valori su terre che sono state gestite per molti secoli dagli antenati e dai discendenti delle nazioni tribali che sono qui da tempo immemorabile. Onoriamo le comunità native di questo continente e riconosciamo che il nostro Paese è stato costruito sulle terre indigene".
Tali dichiarazioni sono abbastanza generiche da adattarsi a qualsiasi situazione. Non è necessario fornire prove di insediamenti indiani in proprietà specifiche. È sufficiente che certe tribù si aggirassero in vastissime aree per far scattare simili dichiarazioni. Non è nemmeno necessario ricordare i conflitti fra le tribù stesse che determinavano costanti mutamenti di confini.
Costretti a fare il discorso?
Come per molte altre tematiche del diluvio di colpevolezza scatenato dalla sinistrorsa “cultura della cancellazione”, la condivisione o meno di tali discorsi di solito non è facoltativa, perché in pratica a nessuno è consentito contestare queste dichiarazioni. Per questo motivo, molti conservatori ritengono che esse costituiscano possibili violazioni del Primo Emendamento, giacché il governo non ha il diritto di obbligare le persone a parlare contro le proprie convinzioni. Le istituzioni non possono costringere i professori e gli altri a sposare una particolare visione politica del mondo diversa dalla loro.
Le proteste stanno avendo i loro effetti, poiché molti respingono o ignorano tali obblighi, affermando che le dichiarazioni sono indiscutibilmente politiche e che impongono un'interpretazione del passato e implicazioni per il presente. Infatti la maggior parte delle dichiarazioni non fornisce alcun contesto per valutarne il contenuto.
Un contesto non è nemmeno voluto. In un articolo per Law and Liberty, George La Noue descrive l'esperienza di un professore dell'Università di Washington, che in una sua dichiarazione cita la teoria della proprietà di John Locke. Il direttore della scuola ha ritenuto Locke "offensivo" e "inappropriato", affermando inoltre che la teoria "disumanizza e sminuisce le popolazioni indigene ed è contraria al rapporto e al rispetto di lunga data che l'Università ha con... le tribù riconosciute a livello federale nello Stato di Washington". E come se volesse aggiungere un tocco di classe a questo deplorevole episodio, il direttore ha concluso che l'Università di Washington "si impegna a fornire un ambiente di apprendimento inclusivo ed equo". Certo, bisogna solo assicurarsi di non includere gli economisti inglesi del XVIII secolo.
C'è uno scopo?
È interessante notare che né il Michigan, né Stanford, né l'Art Institute di Chicago si offrono di restituire la terra ai loro precedenti abitanti. Come per altre iniziative della sinistra, anche questa cerca solo di rimuovere il senso di colpa e la vergogna senza attendersi una assoluzione.
Si tratta quindi didichiarazioni che servono solo a minare la legittimità del sistema attuale e ad affermare la superiorità morale di chi lo contesta. In un recente articolo del Wall Street Journal, Melissa Korn lo definisce come un esercizio di "virtue signaling" (segnalazione di virtù). Con ben pochi sacrifici, la sinistra può impegnarsi nella flagellazione verbale delle fondamenta della società americana senza poi fare nulla di concreto.
Sul Daily Kos, Jason Hill della DePaul University vede in tutto ciò una tendenza più ampia, rilevando un movimento che vuole screditare la cultura occidentale "con delle narrazioni morali emancipatrici e una filosofia politica evolutiva che scopre, riconosce e protegge i diritti inalienabili dell'uomo". L'analisi della signora Korn e del dottor Hill indicano ragioni più profonde alla base delle suddette dichiarazioni e rimandano a un contesto più ampio di processi storici.
Un disegno più vasto
Lo studioso brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira descrisse i moderni processi che agiscono per screditare la cultura e la civiltà occidentali ricorrendo ai movimenti rivoluzionari di sinistra che perseguono con irriducibile efficienza i loro obiettivi. Egli osservava che questo tipo di movimento "viola i diritti autentici e penetra in tutte le sfere della società al fine di distruggerla. Questa distruzione viene attuata spezzando la vita familiare, danneggiando le vere élite, sovvertendo la gerarchia sociale, fomentando idee utopiche e ambizioni disordinate nelle moltitudini, estinguendo la vita autentica dei gruppi sociali e sottomettendo infine tutto allo Stato".
Le sinistre creano disordine e incertezza diffondendo passioni rivoluzionarie come nel caso dei citati “Patti per la terra rubata”, che sono solo una fra le tante tematiche che si alimentano a vicenda. Il prof. Corrêa de Oliveira aggiunge che "queste tendenze disordinate si sviluppano come pruriti e vizi; più vengono soddisfatte, più diventano intense. Così, le tendenze producono crisi morali, dottrine errate e poi rivoluzioni".
Il postmodernismo, la “Teoria critica della razza”[1] e l'egualitarismo estremo forniscono l'infrastruttura filosofica per politiche come i “Patti per la terra rubata”. Se non vengono contrastate, queste si incancreniscono e diffondono l'infezione nel flusso sanguigno della cultura, dando origine a forme di protesta sempre più radicali. L'unica soluzione è smascherare queste frodi progressiste che si danno una patina emotiva di "giustizia sociale". Come l'ormai screditata “Teoria critica della Razza”, i “Patti per la terra rubata” devono essere messi in discussione e sottoposti alla prova, che fallirà di fronte alla verità.
Note
[1] La Teoria critica della Razza è un movimento intellettuale che fornisce un quadro di analisi giuridica secondo il quale: 1) la razza è una categoria culturalmente inventata usata per opprimere le persone di colore e 2) la legge e le istituzioni giuridiche degli Stati Uniti sono intrinsecamente razziste nella misura in cui funzionano per creare e mantenere le disuguaglianze sociali, politiche ed economiche tra bianchi e non bianchi.
Fonte: Tfp.org, 8 aprile 2022. Traduzione a cura di Tradizione Famiglia Proprietà – Italia.
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