Tradizione Famiglia Proprietà,

  • Colombia sotto scacco dopo un mese di terrorismo

     

     

    Eugenio Trujillo Villegas*

     

    Oggi 28 maggio segna un mese dall’offensiva terroristica che sta distruggendo l’intera Colombia. L'orrore che subiamo è l'esatto contrario di una protesta pacifica e non è affatto legittimo. In realtà si tratta di terrorismo radicale, portato avanti da una fitta rete di cellule urbane finanziate dalla sovversione e dal narcotraffico, che cercano di rovesciare il Governo e stanno senza dubbio portando il Paese alla rovina più assoluta. Tuttavia, questi eventi molto gravi dovrebbero lasciarci una lezione profonda, necessaria perché tante persone indolenti possano aprire gli occhi e si possa così correggere il futuro della Patria.

  • Copertina giugno 2018Rivista Tradizione Famiglia Proprietà, giugno 2018

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  • Il “pensiero unico dominante”: come la contro-rivoluzione deve reagire

    Conferenza data a Napoli, ottobre 2019, durante il Seminario di formazione 2019 organizzato dalla Fondazione Il Giglio. Pubblicato poi nel volume «Il pensiero unico dominante. Come reagire», Il Giglio, Napoli, 2020.

     

     

    di Julio Loredo

    Il tema del “pensiero unico dominante” è già stato sviluppato con autorevolezza e profondità dagli interventi precedenti. Io mi limiterò a tracciare alcune idee su come possiamo reagire da contro-rivoluzionari.

    Dobbiamo capire come questo “pensiero unico dominante”, o “consenso”, o il “politically correct”, come è anche chiamato, nasca e si diffonda nell’opinione pubblica, moderno campo di battaglia fra la Rivoluzione e la Contro-Rivoluzione.

    Per questo mi avvalgo del testo di “Teoria dell’opinione pubblica”, che raccoglie gli schemi di un corso di Plinio Corrêa de Oliveira dettato alla TFP brasiliana nel 1966. Si tratta di un testo ancora inedito, da cui estraggo solo alcuni brani.

    Esordisce il pensatore brasiliano: “Soltanto conoscendo le regole con cui la Rivoluzione agisce sull’opinione pubblica, potremo attuare una Contro-Rivoluzione, vista anche la totale sproporzione dei mezzi. Dobbiamo studiare questa azione nelle singole persone, nei piccoli gruppi sociali e nei grandi gruppi, nazionali e internazionali”.

    Per questo dobbiamo prima studiare l’anima delle persone, poiché l’opinione pubblica non è altro che un’immensa anima collettiva, nella quale si danno – anche se con tempi diversi – gli stessi fenomeni che si danno negli individui: “L’opinione pubblica funziona come un’immensa testa, con tutte le regole della psicologia. Questa testa, ovviamente, non esiste così in nessuno in particolare, ma tutti ce l’hanno nella propria mente”.

    Plinio Corrêa de Oliveira inizia definendo un concetto, su cui poi fa ruotare la sua analisi: l’“orlo di incertezza”.

     

    L’orlo di incertezza

    Messo di fronte a idee divergenti alle sue, l’individuo ha sempre un “orlo di incertezza” che circonda le sue idee, per quanto solide possano essere: “Questo orlo esisterà sempre, a meno che intervenga la grazia divina. Nelle persone con convinzioni ideologiche ben definite, questo orlo affiorerà nei momenti di prova e di mestizia. Nelle persone con convinzioni più deboli, tutto sarà orlo, nel senso che, in tutto quanto esse penseranno o affermeranno, ci sarà sempre un elemento di incertezza”.

    Definendo meglio il concetto, il dott. Plinio scrive: “Un individuo ha un ‘orlo’ quando non è sufficientemente convinto di un’idea, e si sente quindi insicuro. Non sa come giustificarla interamente davanti a persone che la pensano in un altro modo. Ha quindi una certa paura di confrontarsi”.

    Questo fa sì che le persone tendano ad appoggiarsi sul consenso generale: “Ogni uomo ha un orlo di incertezza che, senza la grazia, non riesce a estinguere. Ciò crea in lui un’insicurezza di base che lo spinge ad appoggiarsi sul consenso generale, che tende ad accettare come più sicuro. Egli si sentirà dunque inibito ad affermare cose contrarie a tale consenso, proprio per la sua stessa insicurezza”.

    Per il principio dei “vasi comunicanti” – che il pensatore brasiliano spiega in profondità – gli individui tendono a mettere in comune le proprie idee e i propri modi di essere. Questo è il fondamento della socialità. In presenza di opinioni divergenti, o le persone hanno convinzioni molto radicate, certezze molto ferme, oppure la tendenza sarà a smorzare le divergenze, per facilitare il convivio sociale. Ciò acuisce il fenomeno dell’“orlo di incertezza”, che diventa quindi collettivo: “Tutti si sentono insicuri riguardo alle opinioni che professano”.

    Ciò porta a una conseguenza, che è il fondamento di ciò che oggi chiamiamo pensiero unico: “Per le persone con un orlo di incertezza accentuato, il convivio con altre persone di idee diverse suscita un sentimento di accondiscendenza. Solo con un’ascesi molto forte, e con molta preghiera, si riesce a mantenere una posizione ideologica ferma di fronte a idee divergenti. Nella stragrande maggioranza delle persone si forma una sorta di accondiscendenza sensibile, una zona di tolleranza ‘esperienziale’, che rammollisce le proprie convinzioni. Forse non li abbatte, ma li rammollisce per osmosi. Alla fine si crea uno stato di spirito comune che genera un’accettazione ideologica delle idee predominanti”.

    Questo fenomeno diventa poi sociale: “Dall’individuo, questo fenomeno si trasferisce poi al gruppo sociale, alla nazione e alla società internazionale”.

     

    L’interazione pianeta-satellite

    Per capire come si dà la diffusione del pensiero unico, dobbiamo capire come funziona l’opinione pubblica: “L’opinione pubblica è l’opinione sull’universo di un gruppo sociale, un paese, una regione. Risulta essenzialmente dalla confluenza di opinioni individuali, ma non in modo numerico, bensì come conseguenza dell’interazione fra pianeti e satelliti”.

    “L’insicurezza crea nella persona la tendenza a voler corroborare la propria opinione con quella altrui, ritenuta più sicura e, quindi, autorevole. Si configura così un’interazione fra persone-pianeta e persone-satellite. Tutta l’opinione pubblica è un immenso ingranaggio di pianeti e satelliti. Fra persone pianeta e persone satellite, fra famiglie pianeta e famiglie satellite, fra regioni pianeta e regioni satellite. È questo il meccanismo per il quale le insicurezze si intrecciano”.

    La conoscenza di questi meccanismi è essenziale per poter contrastare la diffusione del pensiero unico.

     

    Il ruolo delle forze segrete

    Un fattore sempre presente nel pensiero, e quindi nell’azione, di Plinio Corrêa de Oliveira è il ruolo delle Forze Segrete, realtà molto più ampia e sfaccettata della sola Massoneria. È chiaro che l’imposizione di un “pensiero unico dominante” a tutta un’area di civiltà, per non dire a tutto il mondo, non sarebbe possibile senza l’intervento di una mente organizzatrice.

    Qualcuno potrebbe, quindi, dire: pubblichiamo un’ampia denuncia delle Forze Segrete e tutto sarà risolto. La realtà è molto più sfumata. Pondera Plinio Corrêa de Oliveira:

    “Sarebbe molto facile pubblicare un libro sulle Forze Segrete denunciando tutta la cospirazione. Sarebbe anche il modo più debole e inefficace. Questo per un principio doloroso: la stragrande maggioranza delle persone ha un rigetto implicito a voler ammettere che le cose non sono ciò che sembrano. C’entra la pigrizia di capire e la pigrizia di lottare. È una pigrizia al quadrato, che interviene come forza psicologica che va presa in considerazione.

    “La stragrande maggioranza delle persone ha un fondo di simpatia per la Rivoluzione, e non vuole riconoscere che sia così cattiva. Ai migliori piacerebbe una forma moderata di Rivoluzione. È il segno della decadenza. La pubblicazione di un tale libro implicherebbe voler dire che l’ideologia e la religione muovono tutto, e questo non sarebbe accettato. Anche contenendo documenti impressionanti, un libro sulle Forze Segrete non sarebbe letto da quasi nessuno, ed esporrebbe gli autori all’accusa di affabulatori. È qui che, per esempio, molte destre europee si sono impantanate”.

     

    Il peccato del pensiero unico

    Alcuni capitoli di questo schema sull’opinione pubblica che sto seguendo sono dedicati allo studio dell’“unanimismo”, un altro nome per il pensiero unico dominante. Commenta il pensatore brasiliano: “L’unanimismo è un difetto morale, è una deformazione dello spirito umano che implica l’eliminazione quasi totale della capacità di capire la verità e di agire di conseguenza. Secondo me, questo non va senza un peccato mortale, poiché fa diventare l’uomo incapace di praticare la virtù.

    “In cosa consiste questo peccato mostruoso? È l’ipertrofia dell’istinto di conservazione, sommato a una pigrizia che porta al cinismo. L’unanimismo manipola la stanchezza dell’umanità di fronte alle tante crisi: basta problemi, vogliamo tranquillità! Questa stanchezza colpevole induce la persona a voler vivere una vita piccola, senza frizioni né scontri, che scade in un materialismo pratico fondato sul cinismo. Questa è la sostanza dell’ateismo di oggi. Non è quello di uno che vuole distruggere Dio, ma di uno che ritiene che Dio è già distrutto, nel senso che non ha niente a che fare con la propria vita. Porsi il problema dell’esistenza di Dio è già una noia. Meglio evitarla”.

    Secondo Plinio Corrêa de Oliv­­eira, l’unanimismo ha avuto inizio all’indomani del pontificato di S. Pio X. Il nazi-fascismo ha poi esasperato artificialmente l’animus belligerandi fino all’inimmaginabile, provocando come reazione una sensazione di saturazione e il conseguente desiderio di fuggire da ogni sorta di scontro. Ecco il brodo di cultura nel quale si è poi annidato l’americanismo.

     

    La reazione

    L’unanimismo – o pensiero unico dominante – comunque è un piano “B” della Rivoluzione, che vorrebbe invece che le persone abbracciassero il male con convinzione. Proprio questo apre la via per una reazione: “L’azione della Contro-Rivoluzione è fattibile perché l’unanimismo, in fondo, è uno stratagemma per la quale la Rivoluzione tenta di occultare il proprio fallimento. Io vedo un grande potenziale anti-unanimista che i contro-rivoluzionari possono esplorare”.

    Di per sé, questa reazione esigerebbe una macchina di propaganda al meno proporzionata a quella della Rivoluzione, che chiaramente noi non abbiamo. Ma la storia mostra che un piccolo gruppo di persone, convinte e fervorose, possono fare la differenza.

    Secondo Plinio Corrêa de Oliveira, il modo di reagire contro la tendenza ad adagiarsi sul consenso è di eliminare l’“orlo di incertezza”, prima in sé e poi nell’opinione pubblica:

    “Quando due opinioni divergenti non riescono a cancellare il proprio ‘orlo’, si radicalizzano e prendono le armi. Questa è la situazione ideale per la Contro-Rivoluzione in relazione alla Rivoluzione. Noi, come contro-rivoluzionari, dobbiamo lottare continuamente contro l’“orlo”, radicalizzandoci sempre di più, cioè radicando le nostre idee su basi sempre più solide e inamovibili. L’esito naturale sarà la lotta” [1].

    Una volta radicalizzato, il contro-rivoluzionario deve partire per la lotta contro la Rivoluzione:

    “Di fronte al fenomeno dell’allargamento dell’‘orlo di incertezza’ nell’opinione pubblica, con la conseguente accettazione del consenso generale, la strategia del contro-rivoluzionario dev’essere, prima, rassodare nelle persone buone ciò che non è ‘orlo’, formando quindi un nucleo di persone fortemente convinte e per niente incerte. Questo nucleo potrà poi cercare di radicalizzare una fascia importante dell’opinione pubblica”.

    “L’azione più importante della Contro-Rivoluzione non consiste nel convertire l’avversario alle nostre idee. L’azione più importante consiste nell’attrarre dalla nostra parte le persone che hanno idee simili, cercando quindi di cancellare in esse qualsiasi ‘orlo di incertezza’. Teniamo in considerazione che molte persone hanno tali idee in stato addormentato, nascosto o parziale. È assolutamente necessario risvegliare nelle persone le idee addormentate, spazzando via l’‘orlo di incertezza’ che li avvolge”.

     

    I modi della reazione

    Salto diversi capitoli dello schema, nei quali Plinio Corrêa de Oliveira descrive la morfologia dell’opinione pubblica distinguendo in essa un nucleo e un protoplasma, influenzati da due poli, quello del bene e quello del male, con i vari gradi intermedi e l’influenza che ogni polo esercita sui vari gradi. Salvo miracoli in casi isolati, il polo del bene non riuscirà mai a convertire persone dell’altro polo. Si tratta di attrarre i gradi intermedi verso il polo del bene. Questa attrazione sarà più efficace quanto più il polo del bene sia autentico e senza macchia: “Non serve a niente sorridere. Noi riusciremo ad attrare i gradi intermedi solo nella misura in cui radicalizzeremo le nostre posizioni. Questo è l’unico modo di rompere in loro la naturale attrazione del consenso. I contro-rivoluzionari debbono sollecitare le persone verso l’alto. Se le sollecitano verso il basso, perdono la battaglia”.

    Salto anche le considerazioni, lunghe e articolate, che Plinio Corrêa de Oliveira fa dell’azione della grazia divina sulle anime e sulle società.

    Passo dunque ad alcune considerazioni sui modi della reazione. Ogni anima ha un nucleo e un protoplasma. Il nucleo è il campo dei grandi principi. Il protoplasma è il campo delle conseguenze concrete di tali principi. L’uomo è solitamente più sensibile all’azione sul protoplasma che sul nucleo: “Quasi mai una persona si converte solo con argomenti, ma sì attraverso impatti psicologici”. Noi dobbiamo influenzare il nucleo. Ma questa influenza si esercita solitamente attraverso un’azione sul protoplasma.

    Plinio Corrêa de Oliveira spiega quindi tre modi in cui i contro-rivoluzionari possono agire per contrastare il pensiero unico:

    • “Per certi modi di essere;
    • “Per gesti eclatanti;
    • “Per mezzo di opere che raggiungano direttamente il nucleo”.

    Quanto al primo modo. Tutti noi siamo familiari col concetto di Rivoluzione nelle tendenze, cioè quella dimensione pre-ideologica della rivoluzione, oppure della contro-rivoluzione, che si gioca sulle forme, sui colori, sui suoni, sui sapori e via dicendo. Queste realtà esercitano un’influenza profonda sull’uomo, in modo da condizionarne poi anche le idee. È la prima profondità della Rivoluzione, oppure della Contro-Rivoluzione, descritta da Plinio Corrêa de Oliveira.

    In questo senso, parlare di “pensiero unico dominante” è alquanto riduttivo. Ci sono anche le “tendenze uniche dominanti”, per esempio le mode, molto più potenti nel propagare lo spirito della Rivoluzione che non le idee, proprio perché toccano il protoplasma.

    Ecco il primo campo di battaglia del contro-rivoluzionario contro il consenso. Noi non possiamo immaginare l’importanza, per esempio, dell’andare in giro ben vestiti, anche in estate, per contrastare le mode imperanti. Oppure del presentare tipi umani – per esempio quello della ragazza pura – in una scuola.

    La Contro-Rivoluzione ha bisogno, poi, di gesti eclatanti, che fungano da fulmine a ciel sereno. Per esempio, parlando del Regno delle Due Sicilie, organizzando un’evocazione storica di epoca borbonica in piazza pubblica. Non, però, come un gesto di semplice nostalgia, per quanto legittimo possa essere, bensì come proclamazione di certi modelli mai assopiti nell’anima dei duo-siciliani, che vanno risvegliati e indirizzati verso il futuro. In fondo, dice il dott. Plinio, bisogna seminare nella testa delle persone una domanda: “La monarchia, perché no?”

    È questo, per esempio, il senso delle campagne pubbliche della TFP, con i suoi caratteristici simboli: lo stendardo col leone rampante, la cappa rossa, ecc. scrive il dott. Plinio: “Lo stendardo nasconde l’uomo, insinua moltitudini, suggerisce qualcosa di grandioso. L’uomo cammina, lo stendardo marcia. Una sfilata di stendardi non dice solo ‘la Tradizione, perché no?’, ma ‘guarda che bellezza! È la bellezza del futuro!’”

    Finalmente, serve anche un’opera dottrinale che raggiunga direttamente il campo delle convinzioni: “Il libro Rivoluzione e Contro-Rivoluzione è stato calcolato per mettere a nudo il problema del nucleo”.

    L’obiettivo è creare ciò che il dott. Plinio chiamava “cristallizzazione”: “Dobbiamo toccare i punti sensibili del protoplasma, creandovi una cristallizzazione che susciti poi piccole o grandi esplosioni nel nucleo”.

     

    De proche en proche

    Nonostante tutto, l’uomo non cessa di essere razionale, cioè di avere una certa logica nel suo modo di essere e di pensare: “La mentalità di una persona è, in fondo, sempre logica”.

    Si tratta, quindi, di trovare il punto di contatto, di affinità, con la persona, un punto vivo per il quale essa risuoni al discorso contro-rivoluzionario. A partire da questo punto, de proche en proche (passo a passo) si potrà costruire nella persona una posizione contro-rivoluzionaria: “Data un’idea, dobbiamo scoprire, di logica in logica, qual è il sistema di idee che giace nel subcosciente della persona”.

     

    Tramonto e aurora

    Sia nella vita spirituale delle singole persone che in quella dei popoli, vi sono periodi di tramonto e periodi di aurora. L’apostolato nei due casi è assai diverso. Uno è, per esempio, il consiglio spirituale alla persona che è sulla china discendente della propria vita spirituale, un altro per quella che è, invece, nell’auge del fervore.

    La Contro-Rivoluzione deve saper distinguere fra tramonto e aurora, sia nelle persone sia nei popoli. Scrive il dott. Plinio: “Quando si è al tramonto, la tattica consiste nel lottare contro la notte, prolungando il più possibile il giorno. Fu il caso, per esempio, di S. Ugo, abate nel periodo decadente di Cluny. Quando, invece, si è nell’aurora, è il momento di spiegare lo stendardo e suonare le trombe. Nel tramonto serve denuncia e conservazione. Nell’aurora serve la proclamazione. Fu il caso della conversione di Clodoveo”.

    Questo è molto importante perché, sbagliando tattica, si rischia di fare più male che bene: “L’apostolato contro-rivoluzionario ha elementi di tramonto e elementi di aurora. Il nostro apostolato oggi è l’azione di una famiglia spirituale suscitata dalla Provvidenza nel maggiore ‘tournant de l’histoire’ per condurre il movimento del passaggio dal tramonto all’aurora che dovrà finalmente spazzare via le tenebre verso quel mezzogiorno che sarà il Regno di Maria. Bisogna saper calibrare bene questi due aspetti. Questa è la sostanza dell’azione contro-rivoluzionaria”.

    Nella vita del dott. Plinio, l’apostolato della Contro-Rivoluzione è passato dall’essere quasi esclusivamente di tramonto a essere uno con sempre più elementi di aurora.

    Parlando nel 1966, all’epoca di questo simposio sull’opinione pubblica, egli disse: “Ancora non vedo una vera grazia di aurora, ma comincio a intuire alcuni chiarori che preannunciano l’aurora. La gente comincia a rendersi conto che tutto è crollato. C’è stata una frattura nel nucleo. Noi, contro-rivoluzionari, dobbiamo saper penetrare questa falla. Il sole ancora non è sorto ma, denunciando lo stato di estrema calamità del mondo e della Chiesa, possiamo far sorgere il desiderio del suo opposto. È un apostolato di tramonto con alcuni elementi di aurora”.

    Molto più tardi, verso la fine della sua vita, egli cominciò a parlare di una “grazia nuova”, specie nelle nuove generazioni, sulla quale magari potremo fare un altro incontro.

    Chiudo citando il proclama con cui lo stesso dott. Plinio termina lo schema:

             “Il dovere dei contro-rivoluzionari:

            “1. Continuare ad agire per cristallizzare il più possibile in questo inverno;

           “2. Polarizzare sempre di più l’opinione pubblica, con campagne, libri e iniziative;

           “3. Mantenersi pronti per l’ora dell’intervento della Madonna”.

    [1] È quasi superfluo ricordarlo: Plinio Corrêa de Oliveira sottolineava sempre il carattere strettamente ideologico, pacifico e legale di questa “lotta”.

     

    © La riproduzione è autorizzata a condizione che venga citata la fonte

  • Il ruolo di Plinio Corrêa de Oliveira nella creazione della destra religiosa internazionale

     

     

    di Julio Loredo

    Nella mitologia rivoluzionaria il processo storico va costantemente “avanti”, cioè verso forme di pensare, di sentire e di vivere sempre più liberali, più ugualitarie, più tolleranti, più laiche, più inclusive, insomma più “moderne”. In altre parole, va sempre verso sinistra. Inesorabilmente.

     

    Dal “malaise” al “Revival”

    A cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, questa sembrava una verità inoppugnabile. Mentre in campo culturale le tossine del Sessantotto scioglievano le fondamenta morali e psicologiche dell’Occidente, in campo socio-politico il comunismo avanzava imperterrito. Gli Stati Uniti, leader de facto del mondo non comunista, arretravano, specialmente dopo il disastro del Vietnam. Il popolo americano sprofondò psicologicamente in ciò che gli analisti chiamarono un “malaise”, interpretato come avvisaglia di una morte non molto lontana. Questo “malaise” si propagò, poi, per tutto il mondo occidentale.

    In campo ecclesiastico, i fautori della cosiddetta ermeneutica della rottura e della discontinuità, che interpretano il Concilio Vaticano II come la nascita di una Nuova Chiesa, cantavano vittoria. Soffiava forte nella Chiesa la cosiddetta “euforia del dissenso”. La linea progressista trionfava ovunque. Il tradizionalismo era ridotto, quasi letteralmente, a quattro gatti.

    Nel 1979, però, tutto cominciò a cambiare.

    A maggio, Margaret Thatcher vinse le elezioni in Gran Bretagna, avviando quindi una riscossa conservatrice che, in pochi anni, smantellò l’apparato socialista che aveva dominato il Paese per più di mezzo secolo. Poi, nel novembre 1980, vinse le elezioni americane Ronald Reagan, conducendo al potere il Conservative Movement. E, anche qui, il Paese fu investito da una svolta copernicana. “The Sixties are Over! – Gli anni Sessanta sono finiti!”, era uno degli slogan più ripetuti. Era l’inizio del Conservative Revival, la Rinascita Conservatrice, che si estese poi per il mondo, portando al governo in molti Paesi una nuova destra di chiara ispirazione religiosa.

    In campo ecclesiastico, il pontificato di Giovanni Paolo II, seppur con luci e ombre, segnò in ugual modo una svolta, della quale fu esempio il motu proprio Ecclesia Dei (1988), che aprì di nuovo le porte alla Messa tridentina. Il tradizionalismo cominciò a crescere ovunque, specialmente tra i giovani. Nacquero diversi istituti religiosi ed ecclesiastici di orientamento conservatore/tradizionalista. Gli eccessi della teologia progressista furono condannati. Questa svolta si rafforzò ulteriormente nel pontificato di Benedetto XVI, per esempio col motu proprio Summorum Pontificum, arrivando a situazioni come quella francese, dove quasi la metà dei sacerdoti ordinati è di rito tradizionale.

    Il Conservative Revival, sia nei suoi aspetti temporali sia in quelli religiosi, è stato studiato con dovizia di particolari e profondità da molti intellettuali. Abbonda la letteratura accademica in merito. Eppure c’è un punto ancora non sufficientemente esplorato: il ruolo del Brasile e, in concreto, del professor Plinio Corrêa de Oliveira nella gestazione e nello sviluppo di questa reazione.

    Per iniziare a colmare questo vuoto, Benjamin A. Cowan ha recentemente pubblicato il libro Moral Majorities across the Americas. Brazil, the United States and the Creation of the Religious RightBrazil, the United States and the Creation of the Religious Right (University of North Carolina Press, 2021, 294 pp.). Laureato a Harvard, il professor Cowan è docente di storia all’Università della California a San Diego.

    Il lavoro di ricerca è corposo. Non meno di 824 note a piè di pagina attestano la dovizia di riferimenti con cui l’autore ha voluto arricchire la sua opera. Buona parte delle fonti è inedita: l’archivio personale di monsignor. Geraldo di Proença Sigaud; rapporti dei Servizi d’intelligence brasiliani; i Paul Weyrich Papers della sezione manoscritti della Library of Congress; gli archivi diocesani di San Paolo e Diamantina; l’archivio del ministero degli Esteri brasiliano e via dicendo.

    Come in ogni lavoro di analisi storica, ci sarebbero da fare alcuni distinguo, specialmente da parte di persone, come il sottoscritto, che hanno partecipato ad alcuni dei fatti raccontati, oppure hanno avuto contatto intimo con chi vi ha preso parte. Ciò nonostante, si tratta di un’opera sostanziosa, destinata a condizionare la ricerca accademica sull’argomento. Giova ricordare che il professor Cowan è un liberal, e si colloca pertanto in una posizione ideologica opposta a quella delle realtà studiate. Lungi dall’essere un’apologia, la sua è una critica, a volte perfino caustica.

     

    Il Concilio Vaticano II

    Il primo capitolo è dedicato al Concilio Vaticano II.

    Nonostante l’ingente bibliografia ormai disponibile sul Concilio, Cowan sostiene che gli studiosi non hanno ancora dato il dovuto rilievo all’“azione decisiva di un gruppo coeso di brasiliani che ha lavorato durante e dopo il Concilio per arginare l’onda riformista. (…) La centralità dei brasiliani [nella reazione tradizionalista] è solitamente avvolta nell’ombra” [1]. Si sono trascurati, per esempio, gli interventi di mons. José Maurício da Rocha, vescovo di Bragança Paulista, “monarchico, ferocemente antimodernista, anticomunista e antiliberale”. Più nota, ma ancora non ben studiata, è l’azione di monsignor Geraldo de Proença Sigaud, arcivescovo di Diamantina, e di monsignor Antonio de Castro Mayer, vescovo di Campos.

    Questo “gruppo coeso di brasiliani” era formato da questi ultimi due Padri conciliari, animati e sostenuti dai membri della TFP, che per l’occasione avevano aperto ben due sedi nella Città Eterna. L’ispiratore e forza motrice del gruppo era, senza dubbio, il professor. Plinio Corrêa de Oliveira.

    Nonostante questo gruppo “abbia giocato un ruolo principale, e in certo senso pioneristico, nella politica del cattolicesimo tradizionalista, in ambito nazionale e transnazionale, durante e dopo il Concilio, Mayer, Sigaud e la sensazionale TFP sono spesso lasciati fuori dalla storiografia sulla genesi della reazione cattolica arciconservatrice nel mondo. (…) I ricercatori hanno largamente ignorato questo contributo brasiliano. (…) In questo primo capitolo vorrei tratteggiare questo attivismo dei brasiliani conservatori durante il Concilio Vaticano II come un elemento nella costruzione e lo sviluppo del tradizionalismo cattolico transnazionale. (…) I brasiliani furono, in alcun modo, la principale – e finora trascurata –  forza dietro la resistenza conservatrice nel Vaticano II” [2].

    Ovviamente, Cowan non afferma che questa sia stata l’unica componente della reazione tradizionalista durante il Concilio. Sostiene appena che finora non le si è data la dovuta attenzione.

    L’azione antiprogressista di Plinio Corrêa de Oliveira, secondo Cowan, comincia negli anni Trenta con la costituzione del Gruppo del Legionario, e continua con la sua opposizione al neomodernismo in seno all’Azione Cattolica negli anni Quaranta, e con la fondazione del movimento Catolicismo negli anni Cinquanta. Allo scoccare dei Sessanta, l’opera antimodernista di Plinio “aveva riverberato in Brasile [e anche] avuto significative ripercussioni internazionali che aiutarono a plasmare e a sostentare la reazione cattolica globale alla modernizzazione e la secolarizzazione” [3]. Quando il dottor Plinio giunse a Roma nel 1962, dunque, egli aveva già le idee molto chiare e un piano di battaglia perfettamente tracciato, a differenza di tanti altri conservatori che “furono colti di sorpresa dalla svolta progressista del Concilio” [4]. Infatti, spiega Cowan, “la TFP anticipò l’orientamento del Concilio, e iniziò a organizzarsi prima che esso cominciasse” [5]. L’archivio privato di monsignor Sigaud contiene il resoconto delle riunioni con Plinio Corrêa de Oliveira per preparare il piano di opposizione all’assalto progressista nel Concilio, prima di recarsi nella Città Eterna.

    Questo piano è contenuto nel votum presentato al Concilio da mons. Sigaud ma ispirato, e forse in parte scritto, da Plinio Corrêa de Oliveira: “La Chiesa deve organizzare, su scala mondiale, la lotta contro la Rivoluzione” [6]. La visione realisticamente preoccupata del dottor Plinio contrastava notevolmente col “giubilo” che non pochi conservatori nutrivano per l’indizione del Concilio, vedendovi un’opportunità di “rinnovamento conservatore”, mentre il leader brasiliano temeva che si trasformasse in una debacle [7].

    Durante il Concilio, i tradizionalisti si riunirono nel Coetus Internationalis Patrum. Dall’archivio di mons. Sigaud emerge la centralità di costui nella formazione del Coetus, sempre incoraggiato da Plinio Corrêa de Oliveira. Sono suoi, per esempio, i manoscritti con “gli schemi per la struttura, riunioni, pubblicazioni, attività e finanziamento” del Coetus. In una lettera al ministro degli Esteri brasiliano, chiedendogli sostegno economico, mons. Sigaud scrive: “Non trovo [a Roma] collaboratori disinteressati e affidabili. Gli attivisti brasiliani, al contrario, lavorano appena per un senso di dedizione alla nostra causa, con grande efficacia e discrezione.(…)  Essi sono specialisti, ognuno in un aspetto del Concilio. (…) La spina dorsale del Coetus è sempre stata, e deve continuare a essere affidata a questi attivisti brasiliani” [8]. Conclude Cowan: “L’attivismo della TFP assunse un’importanza centrale nella mobilitazione del blocco conservatore”.

    Lo stesso monsignor Marcel Lefebvre definiva la TFP il “comitato direzionale” del Coetus [9]. Opinione condivisa dallo storico francese Henri Fesquet. In conclusione, Cowan afferma: “Come abbiamo visto, Marcel Lefebvre e i suoi seguaci erano tra coloro che ritenevano i brasiliani gli attori principali, perfino degli eroi, in questo campo” [10].

    Trascuriamo un lungo capitolo intitolato La bellezza delle gerarchie, in cui Cowan spiega le dottrine che animano la TFP. È interessante, comunque, rilevare come, secondo Cowan, la TFP deduce dalla sua visione cattolica non solo una visione antiprogressista in campo religioso ma anche una concezione tradizionalista della società temporale, intimamente collegata alla prima. Donde le sue battaglie in campo politico, sociale, culturale, morale e religioso. È interessante rilevare anche l’insistenza di Cowan sulla “dimensione estetica” della Contro-Rivoluzione voluta dalla TFP.

    Conclude il professor Cowan: “Anche se il tradizionalismo cattolico è il campo in cui questi attivisti [della TFP] hanno avuto l’effetto più diretto e riconosciuto, il loro impatto si estende pure al più ampio campo del moderno conservatorismo religioso. È ciò che tratterò nei prossimi capitoli. (…) L’attivismo [della TFP] fece del Brasile un locus importante per lo sviluppo di questo particolare brand di conservatorismo religioso, che poi troverà eco dentro e fuori dal Brasile” [11].

     

    Creazione della “Nuova Destra transnazionale”

    Nel quarto capitolo, Cowan intende “tracciare il ruolo del Brasile come un nucleo principale nella rete che diede origine alla Nuova Destra transnazionale” [12]. Bisogna subito chiarire che la “Nuova Destra” alla quale egli si riferisce non ha niente a che fare con la Nouvelle Droite europea, di matrice neopagana. I fondamenti di questa Nuova Destra, secondo Cowan, erano l’anticomunismo, la difesa dei valori morali e della cultura occidentale. Proprio la comune avversione al comunismo – allora il peggiore nemico della civiltà cristiana occidentale – portò molti gruppi e movimenti a cercare di accomunare gli sforzi. Cowan mostra che la TFP ebbe in questo un ruolo principale: “Il Brasile divenne un cardine per la gestazione e l’accreditamento [empowerment] di personaggi e di movimenti di destra, la cui importanza varcherà i confini nazionali” [13].

    Con base a documenti perlopiù inediti, l’autore analizza specialmente i rapporti tra le TFP e la New Right americana. Per capirli bisogna fare un passo indietro.

    Sulla fine degli anni Quaranta, con la pubblicazione di Burke’s Politics [14], comincia a prendere corpo negli Stati Uniti ciò che più tardi si chiamerà il Conservative Movement [15]. Dopo un periodo di elaborazione dottrinale, e un prematuro, e quindi fallito, tentativo elettorale con Barry Goldwater nel 1964, sulla fine degli anni Sessanta questo movimento sbarcò a Washington, dove fondò think tanks come l’Heritage Foundation, e strutture per l’azione politica come la Free Congress Foundation. Ne era l’anima Paul Weyrich, un cattolico tradizionalista di origini austriache[16]. Nel 1980 questa New Right contribuì a portare alla presidenza Ronald Reagan, il primo presidente “conservatore”. Inizia quindi un profondo e vigoroso Conservative Revival, che incide non solo sulla politica ma anche sulla cultura[17].

    Oltre all’azione politica e culturale, i cattolici della New Right (difatti la voce predominante) iniziarono una campagna di opposizione al progressismo dentro la Chiesa. A questo fine fondarono il Catholic Center, per “combattere il movimento progressista di sinistra nella Chiesa” [18]. È da questa fucina, per esempio, che uscì nel 1986 la prima denuncia delle lobby omosessuali[19]. Come pure uscirono diversi studi contro la cosiddetta Teologia della liberazione[20]. Non è un caso che oggi ci siano non meno di quindici Messe in rito romano antico nell’area metropolitana di Washington D.C. È l’onda lunga del Conservative Revival.

    Attento agli sviluppi che avrebbero potuto indicare una reazione potenzialmente contro-rivoluzionaria, il professor Plinio Corrêa de Oliveira diede molta importanza all’ascesa di questa New Right, sia per la sua azione concreta, sia soprattutto per ciò che rappresentava come cambiamento nel panorama ideologico nord-americano. Al fine di stringere i rapporti con essa, la TFP americana incrementò la sua presenza nella capitale col TFP Washington Bureau, al quale Cowan dedica non poco spazio.

    Nel giugno 1981, Plinio Corrêa de Oliveira ricevette a San Paolo la visita di James Lucier, consigliere della Commissione esteri del Senato americano, e Francis Bouchey, vicepresidente del Consiglio di Sicurezza Interamericano, entrambi esponente di spicco della New Right. Poi, nel 1988, egli ricevette la visita dei dirigenti della New Right, tra cui Paul Weyrich e Morton Blackwell. Nel discorso ai soci e cooperatori della TFP brasiliana, Weyrich confidò: “Le conversazioni che ho avuto col vostro leader [Plinio Corrêa de Oliveira] sono state le più straordinarie di tutta la mia carriera politica” [21].

    A Cowan interessa, soprattutto, l’internazionalizzazione di questa Nuova Destra. Egli dedica quindi diverse pagine a raccontare la storia dell’International Policy Forum, un’alleanza di associazioni conservatrici concepita da Paul Weyrich e presieduta da Morton Blackwell. “La costruzione di una Nuova Destra transnazionale – spiega Cowan – fu fatta attraverso organizzazioni specificamente create a questo scopo. (…) L’International Policy Forum (IPF) fu una di queste organizzazioni, forse l’esempio paradigmatico. (…) L’IPF ha ricevuto relativamente poca attenzione accademica” [22]. La prima riunione si tenne a Washington nel 1985.

    “Da più di due secoli gli intellettuali e gli attivisti della sinistra avevano costruito le loro reti internazionali [mentre] i conservatori erano totalmente ignari dei loro consimili in altri Paesi”, leggiamo in un documento dell’IPF[23]. Il riferimento a “più di due secoli” è interessante, e mostra come i membri dell’IPF non fossero esclusivamente anticomunisti, ma avessero una visione più ampia del processo rivoluzionario.

    L’idea di una “transnazionale conservatrice” non era nuova. Infatti, le Società per la difesa della Tradizione Famiglia e Proprietà – TFP, ormai presenti in venti Paesi, formavano già una sorta di “Internazionale della Contro-Rivoluzione”. Fu proprio su suggerimento di Plinio Corrêa de Oliveira, e ispirato all’esempio delle TFP, che Paul Weyrich concepì l’IPF, invitando quindi il leader brasiliano a fare parte del Board of Governors“Weyrich stabilì uno stretto e fruttifero rapporto con la Società brasiliana di difesa della Tradizione Famiglia e Proprietà (TFP), o meglio, con la rete transnazionale di associazioni TFP” [24]. Infatti, in molti dei suoi viaggi internazionali, per prendere contatto con realtà conservatrici/tradizionaliste, il leader della New Right era accompagnato da membri delle TFP che “introducevano Weyrich nella rete degli amici locali”.

    Tutti questi sforzi, spiega Cowan, “costruivano coalizioni internazionali in difesa del cristianesimo tradizionale” [25]. Cowan torna spesso sull’idea della “centralità della TFP”: “La TFP proliferò geograficamente, stabilendo branche in tutto il mondo atlantico. Più importante ancora, la TFP manteneva rapporti con la maggior parte dei movimenti della Nuova Destra ed estremisti [sic], collocandosi nel centro degli sforzi per creare vincoli internazionali di collaborazione” [26].

    In questo modo, prese corpo ciò che Cowan chiama una “Nuova Destra transnazionale”. Afferma il docente californiano: “Questi rappresentanti della destra brasiliana furono i pionieri nel creare reti di collaborazione con simili realtà del Nord, una collaborazione che mise le basi per la costituzione di una Nuova Destra transnazionale” [27]. L’autore passa quindi ad enumerare le idee-base di questa Nuova Destra: “Nostalgia per il passato, meglio se medievale; visione soprannaturale; anticomunismo; antimodernismo; moralismo; antiecumenismo; difesa delle gerarchie; difesa della proprietà privata e della libera iniziativa” [28]. Secondo l’autore, “la TFP era l’attore principale nello sviluppo di questa crociata neoconservatrice nel continente e nel mondo”.

    È importante notare che lo stesso Cowan ammette che, nel corso di queste trattative, la TFP mantenne sempre la sua identità di “cattolici militanti”, senza mai cedere a compromessi e senza mai nascondere che il suo scopo era la Contro-Rivoluzione, cioè la restaurazione della Civiltà cristiana nella sua integrità.

    Oltre a questi sforzi per mettere in comunicazione la galassia New Right, Cowan descrive seppur brevemente gli sforzi per entrare in contatto con realtà tradizionaliste europee, come Alleanza Cattolica in Italia e Lecture et Tradition in Francia.

    Benjamin Cowan conclude auspicando che il ruolo della TFP e del prof. Plinio Corrêa de Oliveira nella formazione della reazione antiprogressista nel mondo possa essere meglio studiato dagli specialisti.

     

    Note

    [1] Benjamin A. Cowan, Moral Majorities across the Americas. Brazil, the United States and the Creation of the Religious Right, University of North Carolina Press, 2021, pp. 16-17.

    [2] Ibid., pp. 17-19.

    [3] Ibid., p. 18.

    [4] Ibid., p. 25.

    [5] Ibid., p. 25

    [6] Ibid., p. 230.

    [7] Ibid., p. 234.

    [8]Ibid., p. 23.

    [9] Ibid., p. 24.

    [10] Ibid., p. 59.

    [11] Ibid., p. 59.

    [12] Ibid., p. 137.

    [13] Ibid., p. 137.

    [14] Hoffman, Ross J. S., and Paul Levak (Eds.). Burke’s Politics: Selected Writings and Speeches of Edmund Burke on Reform, Revolution, and War. Pp. xxxvii, 536. New York: Alfred A. Knopf, 1949.

    [15] La letteratura sul Conservative Movement è vastissima. Un riassunto si trova in Modern Age, vol. 26, n° 3-4, 1982.

    [16] Cfr. Patriottismo, combattività e appetenza del soprannaturale. Intervista a Paul WeyrichTradizione Famiglia Proprietà, marzo 2002. https://www.atfp.it/rivista-tfp/2002/103-marzo-2002/733-intervista-a-paul-weyrich

    [17] In realtà, la New Right si collocava assai più a destra di Reagan, a cui rinfacciava di fare troppo poco.

    [18] Benjamin A. Cowan, Moral Majorities across the Americas, p. 146.

    [19] Enrique T. Rueda, The Homosexual Network. Private Lives and Public Policy, Devin Adair, 1986.

    [20] Enrique T. Rueda, The Marxist Character of Liberation Theology, The Catholic Center, 1986.

    [21] Benjamin A. Cowan, Moral Majorities across the Americas, p. 151.

    [22] Ibid., p. 144.

    [23] Ibid., p. 146.

    [24] Ibid., p. 151.

    [25] Ibid., p. 152.

    [26] Ibid., p. 153.

    [27] Ibid., p. 60.

    [28] Ibid., pp. 154-155.

     

    Fonte: Duc in Altum – Aldo Maria Valli, 30 settembre 2021.

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    ISTITUTO PLINIO CORREA DE OLIVEIRA 

    Associazione Tradizione Famiglia Proprietà (TFP)

     

    In Memoriam 

    Principe D. Luiz di Orleans-Braganza

    Capo della Casa Imperiale del Brasile,

    Illustre membro dell'IPCO

     

     

     

    Il principe Don Luiz de Orleans e Bragança, capo della Casa Imperiale del Brasile, è morto oggi 15 luglio a San Paolo, all'età di 84 anni, dopo una lunga malattia.

    La morte di Don Luiz è stata annunciata nell'anno del bicentenario dell'Indipendenza, proclamata dal suo trisavolo Don Pedro I. Il suo corpo sarà vegliato presso la sede dell'Istituto Plinio Corrêa de Oliveira (IPCO) e verrà sepolto il 18 luglio nel cimitero della Consolação, a San Paolo.

    Con la morte del Principe Don Luiz, la guida della Casa Imperiale del Brasile passa al Principe Don Bertrand de Orleans e Bragança.

    Una Messa di Requiem in data ancora da fissare sarà celebrata a Roma.

     

    © La riproduzione è autorizzata a condizione che venga citata la fonte.

  • La passione per la verità

                Trascriviamo di seguito una lettera del professor Plinio Correa de Oliveira a un giovane cooperatore della TFP, con alcuni consigli sulla vita intellettuale


     

       Mio caro amico,

       Salve Maria!

    Ho letto con molta simpatia la lettera che mi hai inviato.

    Non prendertela a male se ti dico che non ho potuto fare a meno di sorridere, vedendo che tu vorresti essere un uomo come me. Ti garantisco, con grande sincerità, che non ci guadagneresti nulla, anzi. Se potessi augurarti qualcosa di buono, sarebbe proprio che ciò non accadesse. Inoltre, ognuno di noi possiede una personalità unica e inconfondibile, ed è chiamato da Dio per realizzare un proprio ideale di perfezione. Da noi viene richiesta una fedeltà alla verità che c'è in noi, e che è l'unico cammino per attingere la verità di tutti noi.

    Solo la passione della verità giustifica l'esistenza dei filosofi e degli scrittori

    Parlando di verità, arriviamo proprio al punto cruciale di tutto ciò che mi dici nella tua lettera. Infatti, il mondo abbonda di filosofi e scrittori, ma c'è una sola cosa che giustifichi l'esistenza degli uni e degli altri: la passione della verità. Senza questa passione, libri e filosofie non sono altro che vanità, pericolosissime vanità che incendiano la Terra e aizzano le fiamme dell'Inferno.

    Chi ha la passione della verità è disposto a spogliarsi di sé stesso, senza la pur minima restrizione. Sacrificherà le più seducenti idee, i più ingegnosi sistemi, le più profonde e luminose elucubrazioni, le più care intuizioni, le soddisfazioni più elevate dell'intelligenza, e infine le formulazioni più avvincenti e le immagini più esteticamente favorevoli, per cercare austeramente e palesare la verità, solo la verità, che è sempre ardua per la nostra condizione umana, a causa della sua essenziale trascendenza.

    Chi ha la passione della verità si espone all'antipatia degli uomini.

    E non è solo questo. La verità non è mai stata molto apprezzata dagli uomini, essendo effettivamente disprezzata ai nostri giorni. La verità è una e immutabile, ma gli uomini amano lo spettacolo variegato delle apparenze che si susseguono; la verità è eterna, ma gli uomini seguono le mode; la verità è seria e gli uomini sono frivoli; la verità indica il dovere, mentre gli uomini vogliono i piaceri; insomma, la verità è rigida e gli uomini non hanno tempra.

    Quindi, chi ha la passione della verità si espone, necessariamente, all'antipatia degli uomini, ma preferirà la verità ai beni temporali, alla carriera, alla fama e alla propria reputazione. Sarà perseguitato e accusato da quelli che prostituiscono la verità e fanno di essa un semplice strumento della loro infatuazione e cupidigia.

    Ma non è ancora tutto. La passione della verità può portarlo a tacere per anni, mentre gli altri si elevano di fronte all'opinione generale ed alla critica, con la loro produzione di opere letterarie e filosofiche. Egli, nel frattempo, rimarrà in silenzio, fino a quando spunti l'unico motivo che lo indurrà a manifestarsi: dare testimonianza della verità. Dinanzi a quel che ho appena detto, tu potresti replicare che io, invece di segnalare la via della filosofia, ho indicato quella della santità. È vero. Voglio soltanto sottolineare che, per chi ha la vocazione agli studi filosofici, la perfezione spirituale si chiama passione della verità. Per noi, cattolici, la verità non è solo una questione epistemologica o metafisica, è la Seconda Persona della Santissima Trinità, il Verbo di Dio che si è incarnato per salvarci.

    Adesso che siamo arrivati a questo punto, possiamo dedurre le conclusioni, per rispondere alle questioni particolari che mi proponi nella tua lettera.

    La vita intellettuale è intimamente unita alla spirituale, e da essa dipende

    La prima questione è che non ci deve essere una distinzione tra la tua vita spirituale e la tua vita intellettuale. Giacché dici di voler fare tutto secondo la volontà di Dio, e ti ritieni con vocazione agli studi filosofici, allora non preoccuparti del futuro, né come farai a guadagnarti la vita: adempi coscienziosamente i tuoi doveri e spera nella Provvidenza. Abbi fiducia, Dio non si dimentica di coloro che Lo servono.

    Tuttavia, Egli suole mettere alla prova la fiducia dei suoi servi. Quando questo ti capiterà, non supporre di essere abbandonato: questi sono i cammini normali della Provvidenza. Quando tutto sembrerà perduto o compromesso, allora arriverà la soluzione. Però, non aspettarti soluzioni definitive. Rimarrà sempre un certo margine di incertezza e di rischio. Anche questo è necessario, perché Dio vuole che abbiamo fiducia solo in Lui, e non nelle sistemazioni umane.

    D'altra parte, non possiamo perdere di vista che siamo esiliati in questo mondo, e che la vita presente è provvisoria e precaria. Perciò non c'è, ne dobbiamo desiderare, situazioni definitive in questa Terra. Dobbiamo vivere di fede, e la fede è necessariamente oscura, poiché ha come oggetto ciò che è invisibile e inaccessibile alla ragione naturale. San Pietro, camminando sul mare in tempesta, è l'immagine della vita cristiana. So bene che questo cammino è difficile. È lo stretto cammino della salvezza, indicato da Gesù. Non esiste un altro.

    Evitare qualsiasi divorzio tra il pensiero e la vita

    In secondo posto, per quel che riguarda più direttamente ai tuoi studi, sarà necessario evitare diligentemente qualsiasi divorzio tra il pensiero e la vita. La filosofia non può essere trattata come chi risolve un teorema di geometria. In altre parole, il filosofo non può situarsi confortevolmente "fuori" dalla filosofia, e poi costruirla con eleganza e distacco. Al contrario, lui, la sua vita, il suo destino, il destino dell'umanità, sono visceralmente coinvolti dal corso che avranno preso le questioni filosofiche. Il filosofo stesso deve essere il primo problema filosofico in gioco, perché è attraverso il suo essere di carne ed ossa che il filosofo ha i piedi nella realtà.

    Essendo così, il filosofo non deve solo possedere un'intelligenza acuta e sviluppata, ma è indispensabile che abbia una personalità ricca, possente, vigorosa, nella quale tutta la realtà possa ripercuotersi ampiamente. Per ottenere questo spessore e profondità di personalità, mi sembra utile che, oltre agli studi propriamente filosofici, sui quali parlerò dopo, coltivi il tuo spirito nel contatto con le grandi opere, in cui si esprimono certe caratteristiche fondamentali dell'anima umana, e la cui frequentazione produce un insuperabile allargamento della visione di tutti i problemi. Virgilio, Dante, Shakespeare, i classici francesi, sono in questa linea. Non perché sono irreprensibili, nota bene. Ma in tutti loro spira il soffio magnifico, che ingrandisce l'uomo.

    Non ti dico neanche di fare uno studio sistematico di queste opere. Ben lungi da questo. Non si tratta di studiare, di fare un compito, ma di compiacersi, di assaporare. Tra queste sceglierai quella che più ti gradisce. Come pure potrai variare, trattenendoti sia in un brano di una, sia in un passaggio di un'altra. La libertà è totale. L'importante è che siano lette dall'originale.

    Non è soltanto la lettura delle grandi opere letterarie che conduce all'obiettivo mirato, ma pure la contemplazione della grande pittura e l'audizione della musica dei grandi maestri, come Bach o Haendel. In tutto ciò, ognuno deve seguire la propria inclinazione, ed io desidero più suggerire che influire.

    San Tommaso è più chiaro di non pochi tra i suoi commentatori

    Ritornando, quindi, ai tuoi studi, devo dire che capisco perfettamente l'insoddisfazione e la perplessità che ti causano certi autori contemporanei che si presentano come tomisti. Questi autori non sono né veramente dei filosofi né tomisti, e la miglior cosa che tu possa fare, per adesso, è metterli da parte. Potranno solo confonderti lo spirito e spingerlo verso sentieri pericolosi.

    Quanto a Maritain, non è altro che un divulgatore dotato di qualità letterarie e di nessuna serietà scientifica. Coloro che lo seguono sono delle mentalità superficiali, che si soddisfano e si cullano con le sue formule lirico-metafisiche, le quali non reggono a un'analisi più accurata, perché subito evidenziano inesattezze, dubbiosità ed equivoci, di cui sono impregnate. Quando avevo la tua età, confesso che me ne lasciai sedurre, poiché esaltavano la mia sensibilità. Dio, però, mi ha fatto la grazia di vedere, in tempo, il veleno che contenevano.

    Quando si viene a conoscenza dei veri filosofi, ci si vergogna delle divagazioni vuote, inconseguenti, sciocche e pretenziose di certi filosofi pseudo tomisti dei nostri giorni, che non fanno altro che deformare il tomismo, adattandolo a tutte le ultime mode (che non riescono nemmeno a capire), mentre scavalcano i più profondi pensieri di San Tommaso con la più candida delle incompetenze.

    Vai direttamente alla fonte. Cerca di familiarizzarti con i testi di San Tommaso. Non temere, il Dottore Angelico è più chiaro di non pochi dei suoi commentatori. Tutto dipende dall'abituarci al suo stile e, ciò che è più importante, alla sua disciplina. Questo, però, non sarà difficile, purché abbiamo diligenza e umiltà.

    Per iniziare, ti raccomanderei la Prima, della Somma, e il De Veritate. Dalla Prima, lascia da parte le questioni 2ª, 23ª e 24ª. Quanto al De Veritate, per adesso andare oltre alla 3ª questione. Ancora per iniziare, non dedicarti a uno studio sistematico, ma fai come ti ho raccomandato a riguardo delle opere classiche. Ricordati che non si tratta ancora di imparare San Tommaso, bensì, di familiarizzarsi con lui. Perciò, quando qualche testo presenterà una maggiore resistenza alla tua intelligenza, non insistere, ma cerca qualcosa di più facile.

    E adesso ti farò un'osservazione di maggior rilevanza: la meditazione e la riflessione valgono più della lettura. Quindi, cerca, quanto potrai, di risolvere trovare le soluzioni da te stesso, invece di cercarle già pronte. Soprattutto, limitati esclusivamente ai testi di San Tommaso, e non cercare di leggere le note esplicative che vengono a piè di pagina. Quando ti sarai così ambientato allo spirito di San Tommaso, allora si potrà pensare a qualcos'altro.

    Vita spirituale autentica: unico alimento dell'intelligenza

    Giungiamo, infine, all'ultima conclusione, che è quella di maggior peso. Il vero filosofo solo può alimentare il suo pensiero e la sua personalità con una vita spirituale autentica. A mio avviso, la miglior base sono ancora gli Esercizi Spirituali di Sant'Ignazio, con il complemento naturale dell'Imitazione di Cristo. Secondo gli orientamenti che do a questi miei suggerimenti, cerca, preferibilmente, solo i testi originali; soltanto i testi, senza alcun commento. Dato che la devozione cattolica è fondamentalmente di ispirazione mariana, abbi sempre a portata di mano le eccellenti opere di San Luigi Maria Grignion da Montfort; tutte quante, se ti sarà possibile.

    Il demonio pesca nelle acque torbide del nervosismo

    Credo così di aver risposto nella miglior forma a mia portata - e dopo aver chiesto a Dio luci per un compito di tale responsabilità - alle difficoltà, che mi hai presentato nella tua lettera. Certamente troverai in questa mia risposta, molte lacune: è la parte umana. Dio, però, le supplirà, quando ricorrerai a Lui con fiducia.

    Innanzitutto, stai calmo e in pace. Cerca di non perturbarti. Il nervosismo è l'acqua torbida in cui il demonio fa la sua pesca; ed è maestro nell'irritare i nervi e tormentare le coscienze, per mezzo di immaginazioni, suggestioni, istigazioni, ed anche agendo direttamente sul corpo, dove provoca le sensazioni fisiche di malessere, angoscia, ripugnanza, palpitazioni, e quant'altro. Non lasciarti impressionare da nulla di tutto ciò. Guarda in avanti, ai Cuori di Gesù e di Maria, e cammina sulle onde agitate con piena fiducia.

    Qui siamo, io e i miei amici, alla tua disposizione, per quel che avrai bisogno. Non fare cerimonie. E non dimenticarti di me nelle tue preghiere.

                Tuo in Gesù e Maria,

  • Lepanto e lo spirito di crociata

    Relazione letta al convegno “Lepanto: 450 anni”, Milano, 23 ottobre 2021

     

    di Julio Loredo

    In Spagna esiste l’espressione “espíritu de Lepanto” come sinonimo di spirito di crociata. Per esempio, si dice che lo spirito di Lepanto soffiò nella guerra del 36-39 che, appunto, fu chiamata Cruzada Nacional. Quel 7 ottobre 1571 qualcosa rifulse a Lepanto con tale splendore che segnò i secoli futuri in un modo che altre battaglie, perfino più importanti dal punto di vista strategico, come la battaglia di Vienna nel 1683, non fecero. Credo non sia azzardato definire questo spirito come una grazia provvidenziale, una riverberazione di quella “grazia nova” di cui parla San Bernardo nell’ incipit a De laude novae militiae ad milites Templi, e che diede origine alla Cavalleria.

    Crisi della Cristianità medievale

    Nel 1571 la Cristianità medievale non c’era più. Corrosa dallo spirito umanista e rinascimentale, spaccata prima dallo scisma d’Oriente e poi dall’eresia luterana, indebolita dalle politiche machiavelliche, in balìa dei godimenti sensuali che la nascente modernità offriva, l’Europa sembrava un frutto marcio pronto a cadere nelle mani dell’Impero Ottomano.

    Anche nella Chiesa era penetrato questo marciume, dando luogo a una serie di Pontefici dediti più alla cura dell’arte e alle scienze umanistiche che non alla difesa della Fede e della Cristianità. Mi vengono in mente le parole dell’Apocalisse: “Conosco le tue opere; ti si crede viva e invece sei morta. Svegliati e rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire” (Apoc. 3, 1-2).

    Nessuno parlava più di crociata. La stessa Cavalleria, in altri tempi una delle più alte espressioni dell’austerità cristiana, era diventata prima amorosa e sentimentale, e poi meramente mondana. È indicativo che nella battaglia di Alcacer Quibir, combattuta nel 1578 dal Re Dom Sebastião contro i musulmani del Marocco, il reggimento di élite, che radunava il fior fiore della nobiltà portoghese, si chiamava Os Namorados, Gli Innamorati. Lo scontro finì con la totale sconfitta dei cristiani. Os Namorados furono sterminati.

    Gli eroi dell’epoca non erano più San Luigi né San Ferdinando, bensì Giovanni delle Bande Nere, Bayard, Gaston de Foix, o lo stesso Muzio Attendolo, a cui Milano tanto deve. Guerrieri magnifici, ma in cui l’ideale specificamente cattolico era ormai pressoché assente.

    Le stesse guerre di contenimento del nemico islamico, per esempio nell’Adriatico, erano dettate più da motivi politici e commerciali che religiosi. Lo spirito mercantilista aveva soppiantato l’idealismo crociato. Conosciamo bene la frase “Siamo veneziani, poi cristiani”. Ma lo stesso si poteva dire di quasi tutti i popoli europei.

    La Francia, figlia primogenita della Chiesa e anima delle crociate – al punto che, fino ad oggi, i musulmani chiamano i cristiani “franchi” – era alleata del Turco, in chiave anti-imperiale. E anche se così non fosse stato, era talmente dilaniata dalle guerre di religione, che difficilmente avrebbe potuto partecipare a uno sforzo congiunto.

    Lo stesso Filippo II – che poi sarà l’asse dell’alleanza cristiana – temporeggiò a lungo. Tutti gli storici lo ammettono, perfino quelli che lo ammirano: il Re di Spagna era un uomo molto indeciso e titubante. Dovendo risolvere una situazione, camminava lungamente avanti e indietro. Papa san Pio V dovette mandare un’ambasciata dopo l’altra per vincere la tremenda indecisione di Filippo. Secondo alcuni storici, fu proprio questa indecisione a provocare il disastro dell’Armata Invincibile nel 1587. Gli si rinfaccia, per esempio, l’aver scelto uomini molli, come Luis de Requesens, inviato a Lepanto come aiutante di campo di Don Giovanni d’Austria, ma in realtà per controllare gli “eccessi” di zelo del giovane condottiero. Infatti, nel consiglio di guerra tenutosi la vigilia della battaglia sulla nave ammiraglia La Real, Andrea Doria e Luis de Requesens opinarono per una ritirata strategica. Seccato, Don Giovanni d’Austria li rimproverò: “¡Ya no es tiempo de debate sino de combate!”.      

    Un soffio rigeneratore

    Potremmo andare avanti per ore, elencando i molteplici segni di debolezza e di decadenza di cui l’Europa dava allora mostra. Eppure, quando Papa Ghislieri lanciò l’appello che culminò nella formazione della Lega Santa, qualcosa di profondamente medievale soffiò in tutto il continente, non tanto nelle classi dirigenti quanto nella popolazione. Abbondano le memorie dell’epoca che raccontano il giubilo che accolse la notizia della convocazione, e lo slancio con cui si arruolarono i volontari. È frequente, almeno in Spagna, parlare di Lepanto come “un gran acontecimiento sentimental”, un grande evento sentimentale, vale a dire un evento che andò oltre gli aspetti politici e sociali, toccando il più profondo dell’anima europea. Lo stesso Miguel de Cervantes Saavedra, di spirito piuttosto liberale come più tardi vedremo, si arruolò e partecipò alla battaglia, perdendo perfino una mano. Per questo motivo è sopranominato il Monco di Lepanto.

    Questo soffio rigeneratore, che prescindeva dalla titubanza interessata dei capi – che perdevano tempo a litigare tra loro – si propagò per mezza Europa, e in particolare nei Paesi latini cattolici. Gli autori ispanici – quelli che ho maggiormente letto a questo riguardo – sono concordi nel dire che l’appello di Papa san Pio V fece balenare nell’anima di molti un risorgimento dello spirito di crociata. Questo entusiasmo si propagò agli Ordini di cavalleria, quasi fosse un’opportunità per risuscitare vecchie glorie. Nella sua celebre Histoire des Croisades, lo storico Joseph François Michaud afferma: “La battaglia fra cristiani e turchi [a Lepanto] ricordava in certo modo lo spirito e l’entusiasmo delle crociate” (Libro XIX, p. 553).

    È degno di nota ricordare l’acceso fervore religioso con cui la flotta si preparò a Messina. Le cronache raccontano che quasi tutti gli ottantamila marinai e soldati si accostarono alla Confessione e alla Comunione. Abbondarono i casi di conversione e di cambio di vita. Un piccolo esercito di figli di Sant’Ignazio di Loyola, alloggiati nel Collegio dei gesuiti presso la chiesa di San Giovanni Battista, diede manforte ai cappellani militari delle galee. I sacerdoti lavoravano a turni 24 ore su 24. San Pio V aveva chiesto esplicitamente a Don Giovanni d’Austria di licenziare i soldati che mostrassero cattive abitudini, promettendogli in questo modo la vittoria.

    In aperto contrasto con lo spirito umanista dell’epoca, l’epopea di Lepanto fu intrisa d’ideale religioso. San Pio V affidò l’impresa alla Madonna, ordinò preghiere speciali e consegnò a Don Giovanni d’Austria il Gonfalone di San Pietro, issato sulla nave ammiraglia, il cui mastro centrale portava l’enorme Cristo di Lepanto, che possiamo ancora venerare nella cattedrale di Barcellona. Don Giovanni d’Austria portava sul suo petto una reliquia della Santa Croce. Una cronaca dell’epoca descrive le due flotte mentre si approssimavano: mentre da quella turca provenivano urla e gemiti animaleschi, da quella cristiana si innalzava un soave mormorio di preghiera. Lepanto non fu una battaglia moderna. Fu una battaglia medievale.

    La figura centrale dell’epopea di Lepanto, direi il parafulmine di questa grazia di crociata, fu senz’altro Papa san Pio V. Se non fosse stato per il suo impegno non ci sarebbe stata la Lega Santa. San Pio V si comportò da vero eroe, combattendo fino all’ultimo momento. Si può supporre che la famosa visione che egli ebbe sull’esito della battaglia sia stata una ricompensa della Provvidenza per i suoi sforzi. San Pio V era in riunione con alcuni dignitari della Curia. A un certo punto si alzò e iniziò a pregare, sollecitando i prelati a unirsi a lui. Poi, guardando dalla finestra, ebbe la visione della Madonna Ausiliatrice, che gli rivelò che la battaglia di Lepanto era stata vinta. Rivolgendosi ai prelati esclamò: “Signori, abbiamo riportato una grande vittoria!”. Fu chiaramente una rivelazione soprannaturale, poi confermata giorni dopo con l’arrivo della notizia. Ora perché proprio a lui? Prima di tutto perché era il capo della Cristianità. Ma anche perché era stato un vero eroe che aveva fatto uno sforzo uguale o maggiore di quello dei combattenti di Lepanto.

    Protagonista di questa grazia di crociata fu anche la Spagna. Essa veniva da otto secoli di lotta contro i musulmani, l’ormai leggendaria Reconquista, e passò senza soluzione di continuità alla conquista del Nuovo Mondo, portandovi lo stesso spirito di crociata. Usando un’espressione coniata da Guilbert de Tournai nel 1260, e poi ripresa dal beato Raimondo Lullo, si passò dalla crux cismarina alla crux ultramarina. La Reconquista fu definita una crociata dai Papi dell’epoca. Anzi, la Spagna fu la prima a ottenere il privilegio di crociata, vale a dire le indulgenze legate alla guerra contro gli infedeli, da Papa Alessandro II, nel 1063, ben trent’anni prima che il beato Urbano II predicasse la prima crociata a Clermont. Nel 1102, Papa Pasquale II equiparò la Reconquista alle crociate in Terra Santa, proibendo agli ispanici di recarsi in Medio Oriente per non disperdere le forze. Quando san Luigi IX di Francia chiese a suo cugino san Ferdinando III di Castiglia aiuto per la sua crociata nell’Africa settentrionale, costui rispose: “Hartos moros tengo yo en España – Ne ho abbastanza di mori qui in Spagna”.

    È riconosciuto dagli storici che il passare dalla Reconquista alla Conquista senza soluzione di continuità, preservò largamente la Spagna dalla decadenza in cui era precipitata buona parte dell’Europa. Sicché essa poté portare a Lepanto lo spirito di crociata che ancora animava le sue armate.

    Una parola a margine. Si parla tanto della “flotta spagnola”, brillantemente comandata da Don Álvaro de Bazán, marchese di Santa Cruz. In realtà, essa era composta anche da navi siciliane, pugliesi e napoletane, senza dimenticare la flotta calabrese agli ordini del principe Gaspare Toraldo di Tropea. E non possiamo non menzionare la galea Lomellina, al comando di Agostino Canevari. E anche le truppe imbarcate erano in buona parte italiane. Dal Tercio di Napoli, agli ordini di Don Pedro de Padilla, imbarcato sulle navi napoletane e messinesi, al Tercio di Sicilia, agli ordini di Don Diego Enríquez, imbarcato sulle galee siciliane.

    La controffensiva

    La Rivoluzione non poteva rimanere inerte di fronte a un tale risveglio dello spirito di crociata. E partì dunque la controffensiva. Parlando della Spagna, proprio a quell’epoca inizia una sorta di rivoluzione culturale che, attraverso soprattutto la letteratura e la musica, attua profondi cambiamenti nella mentalità delle persone. Nasce, per esempio, la commedia picaresca, che introduce uno spirito frivolo, gaio e spensierato che spazza via l’austera serietà dei tempi antichi, fondamento dello spirito di crociata.

    Alcuni autori sollevano l’ipotesi che il celebre romanzo Don Quijote de la Mancha, di Miguel de Cervantes, sia stato scritto con questa finalità. Esso racconta, infatti, la storia di un idalgo che, a forza di leggere romanzi di cavalleria, “usciva di senno”. Il Chisciotte è la perfetta caricatura del cavaliere. Allo stesso tempo lo glorifica e ne celebra il funerale. Dopo il Chisciotte, lo spirito di cavalleria non sarà mai più lo stesso. Qualsiasi sfoggio d’idealismo sarà ipso facto deriso come una “chisciottata”. Qualsiasi desiderio di lottare contro la Rivoluzione sarà schernito come un “caricare mulini a vento”.

    È possibile questo soffio rigeneratore oggi?

    Mi avvio alla conclusione sollevando una domanda: è possibile un tale soffio rigeneratore nei giorni nostri? È possibile che lo spirito di Lepanto si manifesti ancora? Tutto sembrerebbe indicare una risposta negativa.

    Tanto per cominciare, non abbiamo un beato Urbano II, né un san Pio V, né un beato Innocenzo XI. Non abbiamo nemmeno un Giovanni d’Austria, un Eugenio di Savoia o un Jan Sobieski.

    Tuttavia, se analizziamo dal punto di vista teologico questa grazia che ho chiamato “spirito di Lepanto”, vediamo che essa ha come caratteristica principale l’essere concessa proprio in momenti di grande decadenza. Nel 1571 la Cristianità medievale non c’era più. Eppure, questa grazia fu concessa e ci fu la vittoria. Nel 1936, la Chiesa in Spagna era decadente. Eppure, come scrisse il cardinale Isidro Gomá y Tomás, Primate di Spagna, “la guerra ebbe il merito di trasformare una Chiesa decadente in una Chiesa martire”. E anche qui ci fu la vittoria.

    Chiediamo alla Divina Provvidenza che, in questo auge delle tenebre, ci conceda la grazia che mosse i guerrieri a Lepanto, affinché anche questa volta ci sia la vittoria. Una vittoria in realtà scontata, poiché a Fatima la Madonna promise il trionfo del suo Cuore Immacolato.

    © La riproduzione è autorizzata a condizione che venga citata la fonte.

  • Lepanto e lo spirito di crociata

    Relazione letta al convegno “Lepanto: 450 anni”, Milano, 23 ottobre 2021

     

    di Julio Loredo

    In Spagna esiste l’espressione “espíritu de Lepanto” come sinonimo di spirito di crociata. Per esempio, si dice che lo spirito di Lepanto soffiò nella guerra del 36-39 che, appunto, fu chiamata Cruzada Nacional. Quel 7 ottobre 1571 qualcosa rifulse a Lepanto con tale splendore che segnò i secoli futuri in un modo che altre battaglie, perfino più importanti dal punto di vista strategico, come la battaglia di Vienna nel 1683, non fecero. Credo non sia azzardato definire questo spirito come una grazia provvidenziale, una riverberazione di quella “grazia nova” di cui parla San Bernardo nell’ incipit a De laude novae militiae ad milites Templi, e che diede origine alla Cavalleria.

    Crisi della Cristianità medievale

    Nel 1571 la Cristianità medievale non c’era più. Corrosa dallo spirito umanista e rinascimentale, spaccata prima dallo scisma d’Oriente e poi dall’eresia luterana, indebolita dalle politiche machiavelliche, in balìa dei godimenti sensuali che la nascente modernità offriva, l’Europa sembrava un frutto marcio pronto a cadere nelle mani dell’Impero Ottomano.

    Anche nella Chiesa era penetrato questo marciume, dando luogo a una serie di Pontefici dediti più alla cura dell’arte e alle scienze umanistiche che non alla difesa della Fede e della Cristianità. Mi vengono in mente le parole dell’Apocalisse: “Conosco le tue opere; ti si crede viva e invece sei morta. Svegliati e rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire” (Apoc. 3, 1-2).

    Nessuno parlava più di crociata. La stessa Cavalleria, in altri tempi una delle più alte espressioni dell’austerità cristiana, era diventata prima amorosa e sentimentale, e poi meramente mondana. È indicativo che nella battaglia di Alcacer Quibir, combattuta nel 1578 dal Re Dom Sebastião contro i musulmani del Marocco, il reggimento di élite, che radunava il fior fiore della nobiltà portoghese, si chiamava Os Namorados, Gli Innamorati. Lo scontro finì con la totale sconfitta dei cristiani. Os Namorados furono sterminati.

    Gli eroi dell’epoca non erano più San Luigi né San Ferdinando, bensì Giovanni delle Bande Nere, Bayard, Gaston de Foix, o lo stesso Muzio Attendolo, a cui Milano tanto deve. Guerrieri magnifici, ma in cui l’ideale specificamente cattolico era ormai pressoché assente.

    Le stesse guerre di contenimento del nemico islamico, per esempio nell’Adriatico, erano dettate più da motivi politici e commerciali che religiosi. Lo spirito mercantilista aveva soppiantato l’idealismo crociato. Conosciamo bene la frase “Siamo veneziani, poi cristiani”. Ma lo stesso si poteva dire di quasi tutti i popoli europei.

    La Francia, figlia primogenita della Chiesa e anima delle crociate – al punto che, fino ad oggi, i musulmani chiamano i cristiani “franchi” – era alleata del Turco, in chiave anti-imperiale. E anche se così non fosse stato, era talmente dilaniata dalle guerre di religione, che difficilmente avrebbe potuto partecipare a uno sforzo congiunto.

    Lo stesso Filippo II – che poi sarà l’asse dell’alleanza cristiana – temporeggiò a lungo. Tutti gli storici lo ammettono, perfino quelli che lo ammirano: il Re di Spagna era un uomo molto indeciso e titubante. Dovendo risolvere una situazione, camminava lungamente avanti e indietro. Papa san Pio V dovette mandare un’ambasciata dopo l’altra per vincere la tremenda indecisione di Filippo. Secondo alcuni storici, fu proprio questa indecisione a provocare il disastro dell’Armata Invincibile nel 1587. Gli si rinfaccia, per esempio, l’aver scelto uomini molli, come Luis de Requesens, inviato a Lepanto come aiutante di campo di Don Giovanni d’Austria, ma in realtà per controllare gli “eccessi” di zelo del giovane condottiero. Infatti, nel consiglio di guerra tenutosi la vigilia della battaglia sulla nave ammiraglia La Real, Andrea Doria e Luis de Requesens opinarono per una ritirata strategica. Seccato, Don Giovanni d’Austria li rimproverò: “¡Ya no es tiempo de debate sino de combate!”.      

    Un soffio rigeneratore

    Potremmo andare avanti per ore, elencando i molteplici segni di debolezza e di decadenza di cui l’Europa dava allora mostra. Eppure, quando Papa Ghislieri lanciò l’appello che culminò nella formazione della Lega Santa, qualcosa di profondamente medievale soffiò in tutto il continente, non tanto nelle classi dirigenti quanto nella popolazione. Abbondano le memorie dell’epoca che raccontano il giubilo che accolse la notizia della convocazione, e lo slancio con cui si arruolarono i volontari. È frequente, almeno in Spagna, parlare di Lepanto come “un gran acontecimiento sentimental”, un grande evento sentimentale, vale a dire un evento che andò oltre gli aspetti politici e sociali, toccando il più profondo dell’anima europea. Lo stesso Miguel de Cervantes Saavedra, di spirito piuttosto liberale come più tardi vedremo, si arruolò e partecipò alla battaglia, perdendo perfino una mano. Per questo motivo è sopranominato il Monco di Lepanto.

    Questo soffio rigeneratore, che prescindeva dalla titubanza interessata dei capi – che perdevano tempo a litigare tra loro – si propagò per mezza Europa, e in particolare nei Paesi latini cattolici. Gli autori ispanici – quelli che ho maggiormente letto a questo riguardo – sono concordi nel dire che l’appello di Papa san Pio V fece balenare nell’anima di molti un risorgimento dello spirito di crociata. Questo entusiasmo si propagò agli Ordini di cavalleria, quasi fosse un’opportunità per risuscitare vecchie glorie. Nella sua celebre Histoire des Croisades, lo storico Joseph François Michaud afferma: “La battaglia fra cristiani e turchi [a Lepanto] ricordava in certo modo lo spirito e l’entusiasmo delle crociate” (Libro XIX, p. 553).

    È degno di nota ricordare l’acceso fervore religioso con cui la flotta si preparò a Messina. Le cronache raccontano che quasi tutti gli ottantamila marinai e soldati si accostarono alla Confessione e alla Comunione. Abbondarono i casi di conversione e di cambio di vita. Un piccolo esercito di figli di Sant’Ignazio di Loyola, alloggiati nel Collegio dei gesuiti presso la chiesa di San Giovanni Battista, diede manforte ai cappellani militari delle galee. I sacerdoti lavoravano a turni 24 ore su 24. San Pio V aveva chiesto esplicitamente a Don Giovanni d’Austria di licenziare i soldati che mostrassero cattive abitudini, promettendogli in questo modo la vittoria.

    In aperto contrasto con lo spirito umanista dell’epoca, l’epopea di Lepanto fu intrisa d’ideale religioso. San Pio V affidò l’impresa alla Madonna, ordinò preghiere speciali e consegnò a Don Giovanni d’Austria il Gonfalone di San Pietro, issato sulla nave ammiraglia, il cui mastro centrale portava l’enorme Cristo di Lepanto, che possiamo ancora venerare nella cattedrale di Barcellona. Don Giovanni d’Austria portava sul suo petto una reliquia della Santa Croce. Una cronaca dell’epoca descrive le due flotte mentre si approssimavano: mentre da quella turca provenivano urla e gemiti animaleschi, da quella cristiana si innalzava un soave mormorio di preghiera. Lepanto non fu una battaglia moderna. Fu una battaglia medievale.

    La figura centrale dell’epopea di Lepanto, direi il parafulmine di questa grazia di crociata, fu senz’altro Papa san Pio V. Se non fosse stato per il suo impegno non ci sarebbe stata la Lega Santa. San Pio V si comportò da vero eroe, combattendo fino all’ultimo momento. Si può supporre che la famosa visione che egli ebbe sull’esito della battaglia sia stata una ricompensa della Provvidenza per i suoi sforzi. San Pio V era in riunione con alcuni dignitari della Curia. A un certo punto si alzò e iniziò a pregare, sollecitando i prelati a unirsi a lui. Poi, guardando dalla finestra, ebbe la visione della Madonna Ausiliatrice, che gli rivelò che la battaglia di Lepanto era stata vinta. Rivolgendosi ai prelati esclamò: “Signori, abbiamo riportato una grande vittoria!”. Fu chiaramente una rivelazione soprannaturale, poi confermata giorni dopo con l’arrivo della notizia. Ora perché proprio a lui? Prima di tutto perché era il capo della Cristianità. Ma anche perché era stato un vero eroe che aveva fatto uno sforzo uguale o maggiore di quello dei combattenti di Lepanto.

    Protagonista di questa grazia di crociata fu anche la Spagna. Essa veniva da otto secoli di lotta contro i musulmani, l’ormai leggendaria Reconquista, e passò senza soluzione di continuità alla conquista del Nuovo Mondo, portandovi lo stesso spirito di crociata. Usando un’espressione coniata da Guilbert de Tournai nel 1260, e poi ripresa dal beato Raimondo Lullo, si passò dalla crux cismarina alla crux ultramarina. La Reconquista fu definita una crociata dai Papi dell’epoca. Anzi, la Spagna fu la prima a ottenere il privilegio di crociata, vale a dire le indulgenze legate alla guerra contro gli infedeli, da Papa Alessandro II, nel 1063, ben trent’anni prima che il beato Urbano II predicasse la prima crociata a Clermont. Nel 1102, Papa Pasquale II equiparò la Reconquista alle crociate in Terra Santa, proibendo agli ispanici di recarsi in Medio Oriente per non disperdere le forze. Quando san Luigi IX di Francia chiese a suo cugino san Ferdinando III di Castiglia aiuto per la sua crociata nell’Africa settentrionale, costui rispose: “Hartos moros tengo yo en España – Ne ho abbastanza di mori qui in Spagna”.

    È riconosciuto dagli storici che il passare dalla Reconquista alla Conquista senza soluzione di continuità, preservò largamente la Spagna dalla decadenza in cui era precipitata buona parte dell’Europa. Sicché essa poté portare a Lepanto lo spirito di crociata che ancora animava le sue armate.

    Una parola a margine. Si parla tanto della “flotta spagnola”, brillantemente comandata da Don Álvaro de Bazán, marchese di Santa Cruz. In realtà, essa era composta anche da navi siciliane, pugliesi e napoletane, senza dimenticare la flotta calabrese agli ordini del principe Gaspare Toraldo di Tropea. E non possiamo non menzionare la galea Lomellina, al comando di Agostino Canevari. E anche le truppe imbarcate erano in buona parte italiane. Dal Tercio di Napoli, agli ordini di Don Pedro de Padilla, imbarcato sulle navi napoletane e messinesi, al Tercio di Sicilia, agli ordini di Don Diego Enríquez, imbarcato sulle galee siciliane.

    La controffensiva

    La Rivoluzione non poteva rimanere inerte di fronte a un tale risveglio dello spirito di crociata. E partì dunque la controffensiva. Parlando della Spagna, proprio a quell’epoca inizia una sorta di rivoluzione culturale che, attraverso soprattutto la letteratura e la musica, attua profondi cambiamenti nella mentalità delle persone. Nasce, per esempio, la commedia picaresca, che introduce uno spirito frivolo, gaio e spensierato che spazza via l’austera serietà dei tempi antichi, fondamento dello spirito di crociata.

    Alcuni autori sollevano l’ipotesi che il celebre romanzo Don Quijote de la Mancha, di Miguel de Cervantes, sia stato scritto con questa finalità. Esso racconta, infatti, la storia di un idalgo che, a forza di leggere romanzi di cavalleria, “usciva di senno”. Il Chisciotte è la perfetta caricatura del cavaliere. Allo stesso tempo lo glorifica e ne celebra il funerale. Dopo il Chisciotte, lo spirito di cavalleria non sarà mai più lo stesso. Qualsiasi sfoggio d’idealismo sarà ipso facto deriso come una “chisciottata”. Qualsiasi desiderio di lottare contro la Rivoluzione sarà schernito come un “caricare mulini a vento”.

    È possibile questo soffio rigeneratore oggi?

    Mi avvio alla conclusione sollevando una domanda: è possibile un tale soffio rigeneratore nei giorni nostri? È possibile che lo spirito di Lepanto si manifesti ancora? Tutto sembrerebbe indicare una risposta negativa.

    Tanto per cominciare, non abbiamo un beato Urbano II, né un san Pio V, né un beato Innocenzo XI. Non abbiamo nemmeno un Giovanni d’Austria, un Eugenio di Savoia o un Jan Sobieski.

    Tuttavia, se analizziamo dal punto di vista teologico questa grazia che ho chiamato “spirito di Lepanto”, vediamo che essa ha come caratteristica principale l’essere concessa proprio in momenti di grande decadenza. Nel 1571 la Cristianità medievale non c’era più. Eppure, questa grazia fu concessa e ci fu la vittoria. Nel 1936, la Chiesa in Spagna era decadente. Eppure, come scrisse il cardinale Isidro Gomá y Tomás, Primate di Spagna, “la guerra ebbe il merito di trasformare una Chiesa decadente in una Chiesa martire”. E anche qui ci fu la vittoria.

    Chiediamo alla Divina Provvidenza che, in questo auge delle tenebre, ci conceda la grazia che mosse i guerrieri a Lepanto, affinché anche questa volta ci sia la vittoria. Una vittoria in realtà scontata, poiché a Fatima la Madonna promise il trionfo del suo Cuore Immacolato.

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  • Copertina Marzo2018

    Rivista Tradizione Famiglia Proprietà, marzo 2018

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    Domenica 6 giugno si terrà il ballottaggio per le elezioni presidenziali in Perù. Gli elettori dovranno scegliere fra Keiko Fujimori e Pedro Castillo, vincitore del primo turno, dichiaratamente marxista. Di fronte al reale pericolo che il Paese possa cadere nel comunismo, Tradición y Acción por un Perú Mayor, consorella delle TFP, ha lanciato un manifesto all’opinione pubblica.

  • CopertinaOttobre2017

    Rivista Tradizione Famiglia Proprietà, ottobre 2017

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  • Studio / Il riscatto della Tradizione e il ruolo di Plinio Corrêa de Oliveira nella creazione della destra religiosa internazionale

     

     

    di Julio Loredo

    Nella mitologia rivoluzionaria il processo storico va costantemente “avanti”, cioè verso forme di pensare, di sentire e di vivere sempre più liberali, più ugualitarie, più tolleranti, più laiche, più inclusive, insomma più “moderne”. In altre parole, va sempre verso sinistra. Inesorabilmente.

     

    Dal “malaise” al “Revival”

    A cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, questa sembrava una verità inoppugnabile. Mentre in campo culturale le tossine del Sessantotto scioglievano le fondamenta morali e psicologiche dell’Occidente, in campo socio-politico il comunismo avanzava imperterrito. Gli Stati Uniti, leader de facto del mondo non comunista, arretravano, specialmente dopo il disastro del Vietnam. Il popolo americano sprofondò psicologicamente in ciò che gli analisti chiamarono un “malaise”, interpretato come avvisaglia di una morte non molto lontana. Questo “malaise” si propagò, poi, per tutto il mondo occidentale.

    In campo ecclesiastico, i fautori della cosiddetta ermeneutica della rottura e della discontinuità, che interpretano il Concilio Vaticano II come la nascita di una Nuova Chiesa, cantavano vittoria. Soffiava forte nella Chiesa la cosiddetta “euforia del dissenso”. La linea progressista trionfava ovunque. Il tradizionalismo era ridotto, quasi letteralmente, a quattro gatti.

    Nel 1979, però, tutto cominciò a cambiare.

    A maggio, Margaret Thatcher vinse le elezioni in Gran Bretagna, avviando quindi una riscossa conservatrice che, in pochi anni, smantellò l’apparato socialista che aveva dominato il Paese per più di mezzo secolo. Poi, nel novembre 1980, vinse le elezioni americane Ronald Reagan, conducendo al potere il Conservative Movement. E, anche qui, il Paese fu investito da una svolta copernicana. “The Sixties are Over! – Gli anni Sessanta sono finiti!”, era uno degli slogan più ripetuti. Era l’inizio del Conservative Revival, la Rinascita Conservatrice, che si estese poi per il mondo, portando al governo in molti Paesi una nuova destra di chiara ispirazione religiosa.

    In campo ecclesiastico, il pontificato di Giovanni Paolo II, seppur con luci e ombre, segnò in ugual modo una svolta, della quale fu esempio il motu proprio Ecclesia Dei (1988), che aprì di nuovo le porte alla Messa tridentina. Il tradizionalismo cominciò a crescere ovunque, specialmente tra i giovani. Nacquero diversi istituti religiosi ed ecclesiastici di orientamento conservatore/tradizionalista. Gli eccessi della teologia progressista furono condannati. Questa svolta si rafforzò ulteriormente nel pontificato di Benedetto XVI, per esempio col motu proprio Summorum Pontificum, arrivando a situazioni come quella francese, dove quasi la metà dei sacerdoti ordinati è di rito tradizionale.

    Il Conservative Revival, sia nei suoi aspetti temporali sia in quelli religiosi, è stato studiato con dovizia di particolari e profondità da molti intellettuali. Abbonda la letteratura accademica in merito. Eppure c’è un punto ancora non sufficientemente esplorato: il ruolo del Brasile e, in concreto, del professor Plinio Corrêa de Oliveira nella gestazione e nello sviluppo di questa reazione.

    Per iniziare a colmare questo vuoto, Benjamin A. Cowan ha recentemente pubblicato il libro Moral Majorities across the Americas. Brazil, the United States and the Creation of the Religious RightBrazil, the United States and the Creation of the Religious Right (University of North Carolina Press, 2021, 294 pp.). Laureato a Harvard, il professor Cowan è docente di storia all’Università della California a San Diego.

    Il lavoro di ricerca è corposo. Non meno di 824 note a piè di pagina attestano la dovizia di riferimenti con cui l’autore ha voluto arricchire la sua opera. Buona parte delle fonti è inedita: l’archivio personale di monsignor. Geraldo di Proença Sigaud; rapporti dei Servizi d’intelligence brasiliani; i Paul Weyrich Papers della sezione manoscritti della Library of Congress; gli archivi diocesani di San Paolo e Diamantina; l’archivio del ministero degli Esteri brasiliano e via dicendo.

    Come in ogni lavoro di analisi storica, ci sarebbero da fare alcuni distinguo, specialmente da parte di persone, come il sottoscritto, che hanno partecipato ad alcuni dei fatti raccontati, oppure hanno avuto contatto intimo con chi vi ha preso parte. Ciò nonostante, si tratta di un’opera sostanziosa, destinata a condizionare la ricerca accademica sull’argomento. Giova ricordare che il professor Cowan è un liberal, e si colloca pertanto in una posizione ideologica opposta a quella delle realtà studiate. Lungi dall’essere un’apologia, la sua è una critica, a volte perfino caustica.

     

    Il Concilio Vaticano II

    Il primo capitolo è dedicato al Concilio Vaticano II.

    Nonostante l’ingente bibliografia ormai disponibile sul Concilio, Cowan sostiene che gli studiosi non hanno ancora dato il dovuto rilievo all’“azione decisiva di un gruppo coeso di brasiliani che ha lavorato durante e dopo il Concilio per arginare l’onda riformista. (…) La centralità dei brasiliani [nella reazione tradizionalista] è solitamente avvolta nell’ombra” [1]. Si sono trascurati, per esempio, gli interventi di mons. José Maurício da Rocha, vescovo di Bragança Paulista, “monarchico, ferocemente antimodernista, anticomunista e antiliberale”. Più nota, ma ancora non ben studiata, è l’azione di monsignor Geraldo de Proença Sigaud, arcivescovo di Diamantina, e di monsignor Antonio de Castro Mayer, vescovo di Campos.

    Questo “gruppo coeso di brasiliani” era formato da questi ultimi due Padri conciliari, animati e sostenuti dai membri della TFP, che per l’occasione avevano aperto ben due sedi nella Città Eterna. L’ispiratore e forza motrice del gruppo era, senza dubbio, il professor. Plinio Corrêa de Oliveira.

    Nonostante questo gruppo “abbia giocato un ruolo principale, e in certo senso pioneristico, nella politica del cattolicesimo tradizionalista, in ambito nazionale e transnazionale, durante e dopo il Concilio, Mayer, Sigaud e la sensazionale TFP sono spesso lasciati fuori dalla storiografia sulla genesi della reazione cattolica arciconservatrice nel mondo. (…) I ricercatori hanno largamente ignorato questo contributo brasiliano. (…) In questo primo capitolo vorrei tratteggiare questo attivismo dei brasiliani conservatori durante il Concilio Vaticano II come un elemento nella costruzione e lo sviluppo del tradizionalismo cattolico transnazionale. (…) I brasiliani furono, in alcun modo, la principale – e finora trascurata –  forza dietro la resistenza conservatrice nel Vaticano II” [2].

    Ovviamente, Cowan non afferma che questa sia stata l’unica componente della reazione tradizionalista durante il Concilio. Sostiene appena che finora non le si è data la dovuta attenzione.

    L’azione antiprogressista di Plinio Corrêa de Oliveira, secondo Cowan, comincia negli anni Trenta con la costituzione del Gruppo del Legionario, e continua con la sua opposizione al neomodernismo in seno all’Azione Cattolica negli anni Quaranta, e con la fondazione del movimento Catolicismo negli anni Cinquanta. Allo scoccare dei Sessanta, l’opera antimodernista di Plinio “aveva riverberato in Brasile [e anche] avuto significative ripercussioni internazionali che aiutarono a plasmare e a sostentare la reazione cattolica globale alla modernizzazione e la secolarizzazione” [3]. Quando il dottor Plinio giunse a Roma nel 1962, dunque, egli aveva già le idee molto chiare e un piano di battaglia perfettamente tracciato, a differenza di tanti altri conservatori che “furono colti di sorpresa dalla svolta progressista del Concilio” [4]. Infatti, spiega Cowan, “la TFP anticipò l’orientamento del Concilio, e iniziò a organizzarsi prima che esso cominciasse” [5]. L’archivio privato di monsignor Sigaud contiene il resoconto delle riunioni con Plinio Corrêa de Oliveira per preparare il piano di opposizione all’assalto progressista nel Concilio, prima di recarsi nella Città Eterna.

    Questo piano è contenuto nel votum presentato al Concilio da mons. Sigaud ma ispirato, e forse in parte scritto, da Plinio Corrêa de Oliveira: “La Chiesa deve organizzare, su scala mondiale, la lotta contro la Rivoluzione” [6]. La visione realisticamente preoccupata del dottor Plinio contrastava notevolmente col “giubilo” che non pochi conservatori nutrivano per l’indizione del Concilio, vedendovi un’opportunità di “rinnovamento conservatore”, mentre il leader brasiliano temeva che si trasformasse in una debacle [7].

    Durante il Concilio, i tradizionalisti si riunirono nel Coetus Internationalis Patrum. Dall’archivio di mons. Sigaud emerge la centralità di costui nella formazione del Coetus, sempre incoraggiato da Plinio Corrêa de Oliveira. Sono suoi, per esempio, i manoscritti con “gli schemi per la struttura, riunioni, pubblicazioni, attività e finanziamento” del Coetus. In una lettera al ministro degli Esteri brasiliano, chiedendogli sostegno economico, mons. Sigaud scrive: “Non trovo [a Roma] collaboratori disinteressati e affidabili. Gli attivisti brasiliani, al contrario, lavorano appena per un senso di dedizione alla nostra causa, con grande efficacia e discrezione.(…)  Essi sono specialisti, ognuno in un aspetto del Concilio. (…) La spina dorsale del Coetus è sempre stata, e deve continuare a essere affidata a questi attivisti brasiliani” [8]. Conclude Cowan: “L’attivismo della TFP assunse un’importanza centrale nella mobilitazione del blocco conservatore”.

    Lo stesso monsignor Marcel Lefebvre definiva la TFP il “comitato direzionale” del Coetus [9]. Opinione condivisa dallo storico francese Henri Fesquet. In conclusione, Cowan afferma: “Come abbiamo visto, Marcel Lefebvre e i suoi seguaci erano tra coloro che ritenevano i brasiliani gli attori principali, perfino degli eroi, in questo campo” [10].

    Trascuriamo un lungo capitolo intitolato La bellezza delle gerarchie, in cui Cowan spiega le dottrine che animano la TFP. È interessante, comunque, rilevare come, secondo Cowan, la TFP deduce dalla sua visione cattolica non solo una visione antiprogressista in campo religioso ma anche una concezione tradizionalista della società temporale, intimamente collegata alla prima. Donde le sue battaglie in campo politico, sociale, culturale, morale e religioso. È interessante rilevare anche l’insistenza di Cowan sulla “dimensione estetica” della Contro-Rivoluzione voluta dalla TFP.

    Conclude il professor Cowan: “Anche se il tradizionalismo cattolico è il campo in cui questi attivisti [della TFP] hanno avuto l’effetto più diretto e riconosciuto, il loro impatto si estende pure al più ampio campo del moderno conservatorismo religioso. È ciò che tratterò nei prossimi capitoli. (…) L’attivismo [della TFP] fece del Brasile un locus importante per lo sviluppo di questo particolare brand di conservatorismo religioso, che poi troverà eco dentro e fuori dal Brasile” [11].

     

    Creazione della “Nuova Destra transnazionale”

    Nel quarto capitolo, Cowan intende “tracciare il ruolo del Brasile come un nucleo principale nella rete che diede origine alla Nuova Destra transnazionale” [12]. Bisogna subito chiarire che la “Nuova Destra” alla quale egli si riferisce non ha niente a che fare con la Nouvelle Droite europea, di matrice neopagana. I fondamenti di questa Nuova Destra, secondo Cowan, erano l’anticomunismo, la difesa dei valori morali e della cultura occidentale. Proprio la comune avversione al comunismo – allora il peggiore nemico della civiltà cristiana occidentale – portò molti gruppi e movimenti a cercare di accomunare gli sforzi. Cowan mostra che la TFP ebbe in questo un ruolo principale: “Il Brasile divenne un cardine per la gestazione e l’accreditamento [empowerment] di personaggi e di movimenti di destra, la cui importanza varcherà i confini nazionali” [13].

    Con base a documenti perlopiù inediti, l’autore analizza specialmente i rapporti tra le TFP e la New Right americana. Per capirli bisogna fare un passo indietro.

    Sulla fine degli anni Quaranta, con la pubblicazione di Burke’s Politics [14], comincia a prendere corpo negli Stati Uniti ciò che più tardi si chiamerà il Conservative Movement [15]. Dopo un periodo di elaborazione dottrinale, e un prematuro, e quindi fallito, tentativo elettorale con Barry Goldwater nel 1964, sulla fine degli anni Sessanta questo movimento sbarcò a Washington, dove fondò think tanks come l’Heritage Foundation, e strutture per l’azione politica come la Free Congress Foundation. Ne era l’anima Paul Weyrich, un cattolico tradizionalista di origini austriache[16]. Nel 1980 questa New Right contribuì a portare alla presidenza Ronald Reagan, il primo presidente “conservatore”. Inizia quindi un profondo e vigoroso Conservative Revival, che incide non solo sulla politica ma anche sulla cultura[17].

    Oltre all’azione politica e culturale, i cattolici della New Right (difatti la voce predominante) iniziarono una campagna di opposizione al progressismo dentro la Chiesa. A questo fine fondarono il Catholic Center, per “combattere il movimento progressista di sinistra nella Chiesa” [18]. È da questa fucina, per esempio, che uscì nel 1986 la prima denuncia delle lobby omosessuali[19]. Come pure uscirono diversi studi contro la cosiddetta Teologia della liberazione[20]. Non è un caso che oggi ci siano non meno di quindici Messe in rito romano antico nell’area metropolitana di Washington D.C. È l’onda lunga del Conservative Revival.

    Attento agli sviluppi che avrebbero potuto indicare una reazione potenzialmente contro-rivoluzionaria, il professor Plinio Corrêa de Oliveira diede molta importanza all’ascesa di questa New Right, sia per la sua azione concreta, sia soprattutto per ciò che rappresentava come cambiamento nel panorama ideologico nord-americano. Al fine di stringere i rapporti con essa, la TFP americana incrementò la sua presenza nella capitale col TFP Washington Bureau, al quale Cowan dedica non poco spazio.

    Nel giugno 1981, Plinio Corrêa de Oliveira ricevette a San Paolo la visita di James Lucier, consigliere della Commissione esteri del Senato americano, e Francis Bouchey, vicepresidente del Consiglio di Sicurezza Interamericano, entrambi esponente di spicco della New Right. Poi, nel 1988, egli ricevette la visita dei dirigenti della New Right, tra cui Paul Weyrich e Morton Blackwell. Nel discorso ai soci e cooperatori della TFP brasiliana, Weyrich confidò: “Le conversazioni che ho avuto col vostro leader [Plinio Corrêa de Oliveira] sono state le più straordinarie di tutta la mia carriera politica” [21].

    A Cowan interessa, soprattutto, l’internazionalizzazione di questa Nuova Destra. Egli dedica quindi diverse pagine a raccontare la storia dell’International Policy Forum, un’alleanza di associazioni conservatrici concepita da Paul Weyrich e presieduta da Morton Blackwell. “La costruzione di una Nuova Destra transnazionale – spiega Cowan – fu fatta attraverso organizzazioni specificamente create a questo scopo. (…) L’International Policy Forum (IPF) fu una di queste organizzazioni, forse l’esempio paradigmatico. (…) L’IPF ha ricevuto relativamente poca attenzione accademica” [22]. La prima riunione si tenne a Washington nel 1985.

    “Da più di due secoli gli intellettuali e gli attivisti della sinistra avevano costruito le loro reti internazionali [mentre] i conservatori erano totalmente ignari dei loro consimili in altri Paesi”, leggiamo in un documento dell’IPF[23]. Il riferimento a “più di due secoli” è interessante, e mostra come i membri dell’IPF non fossero esclusivamente anticomunisti, ma avessero una visione più ampia del processo rivoluzionario.

    L’idea di una “transnazionale conservatrice” non era nuova. Infatti, le Società per la difesa della Tradizione Famiglia e Proprietà – TFP, ormai presenti in venti Paesi, formavano già una sorta di “Internazionale della Contro-Rivoluzione”. Fu proprio su suggerimento di Plinio Corrêa de Oliveira, e ispirato all’esempio delle TFP, che Paul Weyrich concepì l’IPF, invitando quindi il leader brasiliano a fare parte del Board of Governors“Weyrich stabilì uno stretto e fruttifero rapporto con la Società brasiliana di difesa della Tradizione Famiglia e Proprietà (TFP), o meglio, con la rete transnazionale di associazioni TFP” [24]. Infatti, in molti dei suoi viaggi internazionali, per prendere contatto con realtà conservatrici/tradizionaliste, il leader della New Right era accompagnato da membri delle TFP che “introducevano Weyrich nella rete degli amici locali”.

    Tutti questi sforzi, spiega Cowan, “costruivano coalizioni internazionali in difesa del cristianesimo tradizionale” [25]. Cowan torna spesso sull’idea della “centralità della TFP”: “La TFP proliferò geograficamente, stabilendo branche in tutto il mondo atlantico. Più importante ancora, la TFP manteneva rapporti con la maggior parte dei movimenti della Nuova Destra ed estremisti [sic], collocandosi nel centro degli sforzi per creare vincoli internazionali di collaborazione” [26].

    In questo modo, prese corpo ciò che Cowan chiama una “Nuova Destra transnazionale”. Afferma il docente californiano: “Questi rappresentanti della destra brasiliana furono i pionieri nel creare reti di collaborazione con simili realtà del Nord, una collaborazione che mise le basi per la costituzione di una Nuova Destra transnazionale” [27]. L’autore passa quindi ad enumerare le idee-base di questa Nuova Destra: “Nostalgia per il passato, meglio se medievale; visione soprannaturale; anticomunismo; antimodernismo; moralismo; antiecumenismo; difesa delle gerarchie; difesa della proprietà privata e della libera iniziativa” [28]. Secondo l’autore, “la TFP era l’attore principale nello sviluppo di questa crociata neoconservatrice nel continente e nel mondo”.

    È importante notare che lo stesso Cowan ammette che, nel corso di queste trattative, la TFP mantenne sempre la sua identità di “cattolici militanti”, senza mai cedere a compromessi e senza mai nascondere che il suo scopo era la Contro-Rivoluzione, cioè la restaurazione della Civiltà cristiana nella sua integrità.

    Oltre a questi sforzi per mettere in comunicazione la galassia New Right, Cowan descrive seppur brevemente gli sforzi per entrare in contatto con realtà tradizionaliste europee, come Alleanza Cattolica in Italia e Lecture et Tradition in Francia.

    Benjamin Cowan conclude auspicando che il ruolo della TFP e del prof. Plinio Corrêa de Oliveira nella formazione della reazione antiprogressista nel mondo possa essere meglio studiato dagli specialisti.

     

    Note

    [1] Benjamin A. Cowan, Moral Majorities across the Americas. Brazil, the United States and the Creation of the Religious Right, University of North Carolina Press, 2021, pp. 16-17.

    [2] Ibid., pp. 17-19.

    [3] Ibid., p. 18.

    [4] Ibid., p. 25.

    [5] Ibid., p. 25

    [6] Ibid., p. 230.

    [7] Ibid., p. 234.

    [8]Ibid., p. 23.

    [9] Ibid., p. 24.

    [10] Ibid., p. 59.

    [11] Ibid., p. 59.

    [12] Ibid., p. 137.

    [13] Ibid., p. 137.

    [14] Hoffman, Ross J. S., and Paul Levak (Eds.). Burke’s Politics: Selected Writings and Speeches of Edmund Burke on Reform, Revolution, and War. Pp. xxxvii, 536. New York: Alfred A. Knopf, 1949.

    [15] La letteratura sul Conservative Movement è vastissima. Un riassunto si trova in Modern Age, vol. 26, n° 3-4, 1982.

    [16] Cfr. Patriottismo, combattività e appetenza del soprannaturale. Intervista a Paul WeyrichTradizione Famiglia Proprietà, marzo 2002. https://www.atfp.it/rivista-tfp/2002/103-marzo-2002/733-intervista-a-paul-weyrich

    [17] In realtà, la New Right si collocava assai più a destra di Reagan, a cui rinfacciava di fare troppo poco.

    [18] Benjamin A. Cowan, Moral Majorities across the Americas, p. 146.

    [19] Enrique T. Rueda, The Homosexual Network. Private Lives and Public Policy, Devin Adair, 1986.

    [20] Enrique T. Rueda, The Marxist Character of Liberation Theology, The Catholic Center, 1986.

    [21] Benjamin A. Cowan, Moral Majorities across the Americas, p. 151.

    [22] Ibid., p. 144.

    [23] Ibid., p. 146.

    [24] Ibid., p. 151.

    [25] Ibid., p. 152.

    [26] Ibid., p. 153.

    [27] Ibid., p. 60.

    [28] Ibid., pp. 154-155.

     

    Fonte: Duc in Altum – Aldo Maria Valli, 30 settembre 2021.

  • Teologia della Liberazione o marxismo per i cristiani?

    Diversi media hanno commentato il 50° anniversario (ad esempio, La Lettura del Corriere della Sera del 7/11/21) di un libro che ha avuto una enorme influenza nella Chiesa cattolica latinoamericana e non solo: “Teologia della liberazione”, del sacerdote peruviano Gustavo Gutiérrez. Sotto questa dicitura crebbe tutto un grande movimento catto-politico, ancora attivo, finalizzato a implementare nella società le teorie esposte nel libro. Pochi ricorderanno, invece, che la prima recensione articolata per denunciare il contenuto di quel saggio come favorevole all’avanzamento dell’ideologia marxista fra i fedeli cattolici, fu quella della rivista peruviana Tradición y Acción, ispirata al pensiero di Plinio Corrêa de Oliveira. I movimenti sudamericani ispirati dal pensatore e uomo di azione brasiliano avevano, dietro un suo specifico suggerimento, intrapreso nell’ormai lontano 1969 una grande campagna internazionale di raccolta firme chiedendo a Papa Paolo VI che prendesse misure contro la crescente infiltrazione di idee comuniste nelle fila del clero. Quella raccolta raggiunse i 2 milioni di firmatari. Le firme furono consegnate alla Santa Sede. Solo nel 1984, ad opera della Congregazione della Dottrina della Fede diretta dall’allora cardinale Ratzinger, Il Vaticano condannò gli aspetti estremi della Teologia della Liberazione con l’Istruzione Libertatis Nuntius che bollava detta ideologia e la sua prassi (“il socialismo reale”) come “vergogna del nostro tempo”. Purtroppo, molti buoi erano ormai scappati dalla stalla…

    Proponiamo di seguito l’analisi del libro Teologia della Liberazione fatta dalla rivista Tradición y Accióndi Lima nel 1973.

     

     

    Ecco come si presenta al lettore ignaro il libro di Gustavo Gutiérrez "Teologia della liberazione": sulla copertina il titolo dell'opera è in lettere bianche e quello dell'autore in nero, il tutto su uno sfondo rosso acceso, che colpisce profondamente la sensibilità dell'osservatore. Questa presentazione è completata dalla quarta di copertina. Qui, attraverso l'uso esclusivo di un forte contrasto bianco-nero senza mezzitoni, viene abbozzata la figura di una folla. Si ha l'impressione di una riunione di massa.

    Vista presumibilmente dall’angolo verso la quale è girata, questa folla ha proporzioni gigantesche. Dato che il disegno non è contenuto in una cornice, ma raggiunge i limiti naturali della quarta di copertina, si ha l'impressione di non poter abbracciare tutta la marea di persone che, oltre la carta, si estende indefinitamente aldilà delle possibilità visive dell'uomo attraverso le regioni senza confini dell'immaginazione. Le figure, più abbozzate che disegnate, accentuano la sensazione dell’infinito numerico.

    L'insieme è una vera aggressione visiva al lettore. I volti sono duri e cupi. I pugni stretti in alto. Si profilano enormi braccia alzate in segno di protesta. Alcune labbra serrate hanno qualcosa di disperato. Bocche aperte come per lanciare grida di odio. Sopra le teste, una macchia bianca, come una bandiera dai contorni vaghi, sembra concentrare in sé l’energia della ribellione che aleggia su tutta l'atmosfera. È come la risultante simbolica del cattivo anticonformismo impresso su quei volti, segnati da una tristezza morbosa e non rassegnata.

    Sembrerebbe una manifestazione di comunisti che protestano contro qualcosa e sono pronti a indulgere, per odio, nella distruzione e nel saccheggio. E tutta questa ostentazione visiva è un “flash” appropriato delle idee che il libro contiene. Nessun riferimento alla condizione sacerdotale dell'autore.

     

    Una fedeltà originale

    Il libro è caratterizzato - va subito detto - da un'impressionante mancanza di originalità. Per quanto non ci si abitui alla noiosa e indigesta "letteratura" catto-progressista, si nota fin dall'inizio la stessa ispirazione sediziosa, gli stessi temi, la stessa struttura di pensiero, gli stessi modelli e persino le stesse ambiguità che segnano le innumerevoli arringhe dei Méndez Arceos1del nostro continente.

    La fedeltà di Gutiérrez agli standard che adotta è notevole, giunge ad essere persino originale!

    Per capire la mentalità dell'autore, vale la pena dire una parola su quale gamma di progressismo egli rappresenti. Gustavo Gutiérrez non può essere incluso tra i moderati. Cioè, non è tra coloro che cercano di bilanciarsi su una via di mezzo, sopra il pendio scivoloso verso il comunismo, per poter invocare in loro difesa una pretesa fedeltà alla dottrina tradizionale della Chiesa.

    Egli entra in scena come un "enragé" del progressismo, già assai vicino all'abisso comunista. Le tinte del cattolicesimo con cui ancora si presenta sono ormai come una pellicola così trasparente che vela malamente le sue idee marxiste. L'effetto pratico del manto di cattolicesimo con cui si copre Gutiérrez serve solo a portare avanti il processo di autodemolizione della Chiesa, che Paolo VI ha così veracemente denunciato (S. S. Paolo VI - Allocuzione al Seminario Lombardo, 7 dicembre 1968, in L'Osservatore Romano", 8 dicembre 1968).

    Si veda per esempio la radicale posizione dottrinale e pratica che il sacerdote adotta, sia nell'ordine temporale che nella sfera religiosa: ". . . solo una rottura con l'attuale ordine ingiusto e un franco impegnoper una nuova societàrenderanno credibile ai popoli dell'America Latina il messaggio d'amore di cui la comunità cristiana è portatrice. Questa esigenza deve condurla a una profonda revisionedel modo di predicare la Parola, di vivere e celebrare la sua fede" (p. 172 - enfasi aggiunta). Il grado di progressismo adottato dall'autore di "Teologia della Liberazione" è costante nel suo libro. Il suo scollamento dalla dottrina cattolica, anche se esplicito, batte sempre la stessa nota dall'inizio alla fine.

    Nella sua smania di radicalismo Gutiérrez respinge sistematicamente le forme meno estreme di cambiamento come il "riformismo": "Questa non è una 'lotta per gli altri', lotta dal retrogusto paternalistico e di obiettivi riformisti, ma per percepirsi come un uomo inappagato che vive in una società alienata e per, di conseguenza, identificarsi radicalmente e combattivamentecon coloro - uomini e classe sociale - che soffrono prima di tutto il peso dell'oppressione" (pp. 180-181 - enfasi aggiunta).

    La stessa politica di sviluppo dei cosiddetti paesi sottosviluppati è respinta da Gutiérrez. Il sottosviluppo dell'America Latina è per lui una conseguenza necessaria dello sviluppo degli Stati Uniti, ed è illusorio volere che il nostro continente progredisca all'interno del sistema capitalista. Secondo lui, sarà solo attraverso uno sconvolgimento sociale e una lotta di classe a livello di continenti (Sud America contro Nord America) che si potrà trovare la soluzione (vedi pp. 105-106 e 115).

    Sempre secondo Gutiérrez, i progetti di assistenza sociale devono essere criticati anche perché sono "superficiali" e creano "illusioni e ritardi". La soluzione può essere trovata solo in una trasformazione totale delle strutture della società capitalista (vedi pp. 146-147).

    Sarebbe impossibile, in un solo articolo, fare uno studio completo di "Teologia della Liberazione" con le sue quasi 400 pagine in caratteri minuti.

    Tuttavia, non c'è dubbio che valga la pena analizzare almeno alcuni dei suoi punti più salienti. Non solo per cercare di rimediare al danno che la propaganda del libro può aver causato negli ambienti cattolici peruviani, soprattutto in considerazione dello status sacerdotale di Gutiérrez - ma anche perché, essendo "Teologia della liberazione" un esempio molto caratteristico della dottrina catto-progressista, il lettore potrà trarre da questa analisi un antidoto efficace contro il progressismo, anche quando esso si presenti sotto vari gradi di diluizione, mescolato con la dottrina tradizionale della Chiesa e con il sostegno di ecclesiastici.

     

    Ambiguità sinistra

    Radicale sia nei termini dei suoi obiettivi prossimi di distruzione della società attuale, sia nei termini dei metodi che sostiene, "Teologia della Liberazione" rimane tuttavia fondamentalmente ambigua per quanto riguarda i fini ultimi che cerca di raggiungere. Il lettore è invitato a impegnarsi in una lotta di vita e di morte, il cui fine ultimo gli viene presentato in modo sufficientemente velato e vago per non spaventarlo. Gli viene dato un carro armato e gli viene mostrato il nemico che deve distruggere, ma la causa che deve servire non è chiaramente definita.

    Perché questa ambiguità? Si teme che i soldati disertino se i desideri dei loro ufficiali vengono rivelati apertamente? Se sì, quali sinistri desideri potrebbero essere? Gutiérrez cerca di spiegarsi in questo senso, ma le sue spiegazioni, esse stesse ambigue e sfuggenti, lasciano spazio alla domanda: dove vuole arrivare?

    Già nell'introduzione, l'autore cerca di evitare l'effetto che questa fondamentale ambiguità può avere sulla mente del lettore: "La novità e la mobilità delle domande poste dall'impegno liberatorio rendono difficile l'uso di un linguaggio adeguato e di nozioni sufficientemente precise" (p. 11 - enfasi aggiunta). In altre parole, il lettore non deve cercare qui obiettivi definiti e nozioni chiare, perché non le troverà....

    Chi vorrà prendere quel treno il cui percorso è così avvolto nella nebbia da non sapere dove andrà a finire?

     

    Si tratta del vecchio marxismo

    Intanto, quei veli che coprono gli obiettivi dell'opera in questione, se non sono trasparenti, sono almeno traslucidi e lasciano intravedere la grande affinità delle idee dell'autore con il marxismo. Le pagine di "Teologia della liberazione" trasudano così tanto marxismo che Gutiérrez ha sentito il bisogno di mettere in guardia i suoi seguaci o simpatizzanti contro coloro che avrebbero denunciato questo fatto. Ecco le sue parole: "Per alcuni, partecipare a questo processo di liberazione

    significa non lasciarsi intimidire dall'accusa di 'comunisti'" (p. 148).

    Crediamo che padre Gutiérrez sia coerente nel fare questa raccomandazione, perché se la dottrina e la mentalità sono accettate, perché indietreggiare davanti alla parola?

    Il lettore stia tranquillo che non moltiplicheremo qui - come sarebbe molto facile fare - il numero di citazioni dell'opera in esame per dimostrare il suo stretto legame ideologico con il marxismo. Tuttavia, è giusto citare almeno alcune caratteristiche. Permetteteci di farlo.

    "Ci sono molti che pensano, quindi, con Sartre, che 'il marxismo, come quadro formale di tutto il pensiero filosofico odierno, non può essere superato'. Sia come sia, infatti, la teologia contemporanea è in inevitabile e fruttuoso dialogo con il marxismo" (pp. 25-26). L'espressione "sia come sia" rende chiaro che Gutiérrez ammette la possibilità che l'affermazione di Sartre sia vera e, quindi, che la stessa filosofia cattolica abbia oggi il suo quadro formale nel marxismo. Ora, essendo il marxismo intrinsecamente ateo, ci ritroveremmo con un pensiero cattolico che ruota intorno all'ateismo come suo asse naturale. Ammettere questa possibilità è già, di per sé, porsi agli antipodi della dottrina della Chiesa. Per non dire dell'assurdità di chiamare "inevitabile e fruttuoso" un dialogo tra la teologia (per definizione lo studio di Dio) e il marxismo (per definizione ateo).

    Tuttavia, Gutiérrez non si lascia turbare da queste contraddizioni. Il suo libro, del resto, ne è pieno: come non pensare che, in fondo, il concetto di Dio, di Cielo, di salvezza, sia per lui diverso da quello che ci insegna la Chiesa? Da questo punto in poi, tutto il suo pensiero diventa più chiaro e cessa di essere contraddittorio. Ce ne occuperemo rapidamente qui di seguito.

    Riferendosi a una nuova scienza storica elaborata sulla base di Marx e che permette un nuovo tipo di "iniziazione storica", il libro afferma che questa iniziativa deve essere orientata verso una società in cui "una volta abolita l'appropriazione privata del plusvalore, una volta stabilito il socialismo, l'uomo può cominciare a vivere liberamente e umanamente" (p. 49). L'abolizione della proprietà privata - il grande "leitmotiv" dei comunisti - appare qui nella sua formulazione più plateale, dove anche espressioni tecnicamente marxiste come plusvalorenon vengono evitate.

    Gutiérrez accoglie con gioia l'ingresso nella sovversione di un numero crescente di sacerdoti. Dopo aver citato specificamente il prete guerrigliero Camilo Torres, dice: "La novità (della posizione del clero in America Latina) è (...) soprattutto che le scelte che stanno facendo, in un modo o nell'altro, sono sovversive dell'ordine sociale regnante" (p. 134). Queste parole ci ricordano preti come quelli collusi con i terroristi Tupamaros in Uruguay, come i “Sacerdotes para el Tercer Mundo” ("Preti per il Terzo Mondo"), complici scoperti dei terroristi che assassinarono l'ex presidente argentino, il generale Aramburu, o come i padri domenicani in Brasile che lavorarono per la sovversione e il terrorismo in obbedienza diretta al Partito Comunista di quel paese.

    Con il "candore" di chi sta affermando qualcosa di ovvio e conosciuto, Gutiérrez dice che la lotta di classe è un fatto, e che è necessario stare dalla parte degli oppressi, cioè dei poveri. La propaganda marxista è penetrata così profondamente nella testa di questo ecclesiastico da fargli chiudere gli occhi sulla realtà? Perché il completo fallimento economico con cui il deposto regime marxista di Allende ha oppresso il popolo cileno non ha suscitato la compassione di Gutiérrez? E nella Cuba di Fidel Castro, chi sono gli oppressi? I capisquadra armati che costringono la popolazione infelice a tagliare la canna il giorno di Natale? Perché lo stesso silenzio da parte di Gutiérrez e dei "progressisti" della sua razza?

    L'arringa continua sulla stessa linea, dicendo che è necessario andare verso una società senza classi e senza proprietà, etichettando chiunque osi negare la validità della lotta di classe come un sostenitore dei settori dominanti. Ma non solo, è anche necessario dichiarare guerra all'eventuale oppressore: "Optare per l'oppresso è optare contro l'oppressore" (p. 371).

    Che ci siano ingiustizie in Perù come ovunque nel mondo, nessuno lo nega. Ma presentarli con una lente d'ingrandimento per predicare la lotta di classe è una tecnica tipicamente marxista. Tanto più che Gutiérrez non dice una sola parola sulla peggiore ingiustizia, commessa da quei chierici che negano al popolo la manna della salvezza, cioè la vera dottrina rivelata, tradizionalmente insegnata dalla Chiesa.

    L'opera ci mostra che, secondo la teologia (progressista), amare tutte le persone non significa evitare "scontri", ma che amare gli oppressori significa spogliarli del loro potere.

    Come il lettore potrà percepire, la dottrina di Gutiérrez non è altro che la dottrina di Marx, vecchia più di cento anni, e con tutti i suoi ingredienti tarlati: attacco al capitalismo, esaltazione della lotta di classe, distruzione completa della proprietà individuale, ecc.

    Caratteristica è anche la naturalezza - potremmo quasi dire familiarità - con cui Gustavo Gutiérrez si appoggia agli autori marxisti. Ecco alcuni esempi:

    - “Questa linea sarà ripresa e rinnovata, a modo suo, da K. Marx" (p. 48).

    - “In questo senso, il tentativo di Marcuse, segnato da Hegel e Marx, di tradurre le categorie psicoanalitiche in critica sociale è importante" (p. 51).

    - “Questo è stato studiato, inizialmente, da autori come Hobson, e, in un'altra prospettiva, da Rosa Luxenburg, Lenin e Bukharin che hanno formulato la teoria dell'imperialismo e del colonialismo" (p. 110).

     

    Giustificazione della violenza

    Gustavo Gutiérrez è un focoso apologeta della violenza come mezzo per demolire gli attuali modelli sociali. Qualsiasi guerrigliero o terrorista latinoamericano che abbia bisogno di una "giustificazione teologica" dei loro crimini, troverà molto materiale nel libro in esame. “(...) Il dominio della politica è necessariamente conflittuale. Più precisamente, (. . .) la costruzione di una società giusta passa attraverso il confronto - in cui la violenza è presente in modi diversi..." (p. 68).

    Inoltre, afferma che la "cosa più importante" per conoscere la realtà latinoamericana consiste nel non limitarsi a una "una descrizione piagnona", e "nel non illudersi della possibilità di avanzare dolcementee per tappeprestabilite verso una società sviluppata" (p. 101 – enfasi aggiunta). Dunque, non c'è nulla di dolce nel cammino indicato da questo prete!

    L'importanza che ha la violenza nella teologia di Gutiérrez lo porta a preoccuparsi di evitare che qualcuno dei suoi seguaci sia trattenuto da scrupoli morali. Poiché, secondo lui, ci troviamo in una situazione di violenza istituzionalizzata, "la questione della contro-violenza lascia il piano dei criteri etici astratti e si sposta più decisamente su quello dell'efficacia politica" (p. 129). O, per dirla in termini meno cervellotici, i militanti della sinistra cattolica non dovrebbero preoccuparsi della moralità del terrorismo, della guerriglia e della rivoluzione sanguinaria, ma semplicemente verificare se questi metodi sono politicamente efficaci. L'efficacia sarebbe, data la situazione attuale, sinonimo di moralità. Questo è il machiavellismo più grossolano che si possa immaginare...

    Ma allora, si chiederà il lettore, la violenza oggi è sempre giusta? Non è quello che pensa Gutiérrez. Per lui, così come per altri sacerdoti che cita senza nominarli, c'è una violenza ingiusta che non va confusa con la violenza giusta: è quella degli "oppressori che sostengono questo sistema nefasto" (p. 142).

     

    Gruppi nascosti che tramano la sovversione

    Gustavo Gutiérrez riconosce espressamente (pp. 127, 166, 262) che i sostenitori della sua tesi costituiscono una minoranza in America Latina. A pagina 115 sembra voler limitare ulteriormente l'estensione del movimento parlando di "gruppi più attenti". Ma nelle pagine 129 e seguenti troviamo la vera natura di quel movimento: il lavoro per il cambiamento sociale è guidato da entità nascoste. L'autore, parlando dell'azione rivoluzionaria sviluppata dai gruppi cristiani, dice: "In termini concreti, tutto ciò significa spesso coinvolgimento in gruppi politici rivoluzionari. La situazione politica dell'America Latina e la sovversione dell'ordine attuale sostenuta da questi gruppi li pone necessariamente in una certa clandestinità" (enfasi aggiunta). Continua poi a spiegare perché la sovversione sociale non può essere portata avanti da gruppi che esistono alla luce del sole, come l'Azione Cattolica: "Tra l'altro perché la radicalizzazione politica tende a uniformare - e ad appassionare - le opzioni, e perché il tipo di attività che si svolge non permette di esprimersi con assoluta franchezza. Lo schema dell'Azione Cattolica dei Lavoratori è valido in una società più o meno stabile e dove il gioco politico si gioca alla luce del sole".

    Come si può vedere, siamo dichiaratamente in presenza di una cospirazione che, in nome del cristianesimo, vuole distruggere la Civiltà Cristiana e impiantare una società di tipo marxista. È impossibile non collegare le rivendicazioni della "Teologia della Liberazione" con i cosiddetti "gruppi profetici" e l’IDO-C, organizzazioni semiclandestine di carattere internazionale, attive tra i cattolici che cercano di sovvertire l'ordine sociale cristiano per imporre il comunismo (vedi "Tradizione e Azione", n. 2-3)2.

    Gutiérrez parla, ancora una volta in modo poco chiaro, dell'influenza che, secondo lui, queste correnti radicali avrebbero avuto sul Concilio. A titolo di documentazione per il lettore, trascriviamo questo oscuro passaggio: “L'impulso iniziale per questo (scopo, cioè la revisione radicale della Chiesa) può essere stato dato dal Concilio, soprattutto per la maggioranza dei cristiani, ma oggi il movimento ha una sua dinamica in un certo qual modo autonoma. Il fatto è che in esso convergono altre correnti, che in un dato momento l’evento conciliare sembrava assimilare e incanalare, ma che non perdettero le loro energie le quali oggi ricompaiono in pieno giorno" (p. 310).

     

    Perché promuovere la sovversione dall'interno della Chiesa?

    Come si può percepire da quanto sopra, si tratta di un piano ben congegnato per condurre le masse cattoliche ad una posizione che, se fosse chiaramente presentata, esse rifiuterebbero. Questa è anche la ragione per cui questi marxisti da sacrestia sottolineano categoricamente il fatto d’ ispirarsi al Vangelo. Quando si mostrano allo scoperto vengono respinti; allora è necessario camuffarsi. Un travestimento che a volte, come nel caso di "Teologia della Liberazione", nasconde rozzamente il lupo che sta dietro, formando così una figura grottesca in cui la pelle è quella di una pecora, ma con il muso e gli artigli di un lupo, che ulula come un lupo, e il cui respiro è maligno e insopportabile per un vero cattolico.

    Ecco le parole dello stesso Gutiérrez sulla costituzione di questi nuclei sovversivi: "In un buon numero di paesi, si è osservata la creazione di gruppi sacerdotali - con caratteristiche non previste dal Diritto Canonico! -per incanalare e rinforzare questa nascente inquietudine. Predominante in questi gruppi è la volontà di impegnarsi nel processo di liberazione e il desiderio di cambiamenti radicali sia nelle attuali strutture interne della Chiesa latinoamericana sia nelle forme della sua presenza e azione in un subcontinente in situazione rivoluzionaria" (p. 133 - enfasi aggiunta). In una nota, i "Sacerdoti per il Terzo Mondo" (Argentina), il "Movimiento Sacerdotal ONIS" e altri sono citati come esempi.

    Tuttavia, più rivelatrici dei piani di questa nuova chiesa, messa al servizio del comunismo, sono le parole di Jorge Vernazza scritte a nome dei "Sacerdoti per il Terzo Mondo" e che "Teologia della Liberazione" riproduce. Si tratta di una lettera indirizzata al capo del movimento "profetico" francese "Echanges et Dialogues", che dà le ragioni per cui in America Latina i sovversivi rimangono all'interno della Chiesa, anche come sacerdoti. I termini, come vedremo, sono chiari, rivelando che ci troviamo davanti a una mera tattica per trascinare la popolazione del nostro continente, ancora molto attaccata alla Chiesa, nel loro campo. Ecco il testo: "Il nostro obiettivo essenziale non è quello di porre fine alla nostra situazione di chierici, ma di impegnarci come sacerdoti nel processo rivoluzionario latinoamericano (...). L'America Latina esige soprattutto una salvezza che si verificherà nella liberazione da uno stato multisecolare di ingiustizia e oppressione. Ed è la Chiesa che deve annunciare e promuovere questa liberazione, la Chiesa che agli occhi del popolo è indissolubilmente legata all'immagine e alla funzione sacerdotale... Quindi, anche se le nostre azioni e dichiarazioni ci porteranno - come di fatto ci hanno già portato – ad attriti e a sospetti con la maggior parte della Chiesa 'ufficiale', è nostra precipua preoccupazione non apparire emarginati da essa per non diminuire l'efficacia della nostra azione, giacché è la Chiesa che crediamo abbia, nei confronti del popolo, una enorme efficacia di coscientizzazione” (enfasi aggiunta, p. 185).

    Come si vede, una chiara confessione che essi rimangono nella Chiesa, e persino come sacerdoti, perché altrimenti perderebbero la loro reputazione influente tra la gente, e non potrebbero trascinarla sulla via del comunismo. La Chiesa è quindi per loro uno strumento di sovversione. Farisaismo e cinismo combinati. Veramente ripugnante.

     

    La nuova chiesa, la nuova società, l'uomo nuovo.

    Non sorprende che, una volta poste in questa prospettiva, le pagine del libro siano costellate di attacchi, diretti o velati, alla Chiesa cattolica come è sempre stata intesa da Papi, Santi e Dottori nel corso dei secoli. Lo zelo per l'ortodossia, per la morale, l'amore per le istituzioni, per i costumi tradizionali, nulla sfugge alla furia progressista di "Teologia della Liberazione". "Smascherando" gli errori modernisti, il libro sostiene che la fede stessa deve avere una nuova concezione. Nel corso delle pagine, si moltiplicano frasi come questa, già presente nell'Introduzione: "C'è stato un tempo, infatti, in cui la Chiesa rispondeva ai problemi che le venivano posti facendo appello imperturbabilmente alle sue riserve dottrinali e vitali".

    Si tratta quindi di una nuova chiesa che vuole costruire sulle macerie della vera Chiesa Cattolica, Una, Santa e indistruttibile, approfittando così del suo prestigio e della sua influenza.

    A cosa porta, nelle sue ultime conseguenze, questo nuovo misticismo e questa nuova teologia? Qui entriamo pienamente nel campo dell'imprecisione e dell'ambiguità a cui abbiamo già fatto riferimento. Non entreremo in una considerazione dettagliata di questo argomento, perché ci vorrebbe troppo tempo. Basti dire per ora che gli abbondanti passaggi della "Teologia della Liberazione" che trattano l'argomento tendono a negare l'ordine soprannaturale e a ridurre lo scopo dell'uomo alla costruzione della città terrena. Non ci sarebbe un paradiso celeste da conquistare e un inferno da evitare, non ci sarebbe soprattutto un Dio trascendente da adorare.

    L'obiettivo sarebbe quello di costruire una nuova società, guidata dal mito dell'uguaglianza totale, basata su una nuova moralità e una nuova carità. Il nuovo Dio di questa società sarebbe l'umanità, adorata attraverso un nuovo culto in una nuova chiesa? Per questo, ciò che è più necessario è un cambiamento nella natura umana.

    Per quanto ci siamo sforzati, non riusciamo a vedere quale novità questo porti alla vecchia teoria marxista di una nuova società e di un nuovo uomo da costruire. Tranne, naturalmente, l’aggiunta di di una patina di cristianesimo.

    Fortunatamente senza la pretesa, come abbiamo già detto, di approfondire la questione, riproduciamo per la considerazione del lettore due testi. Il primo è tratto dal libro che abbiamo davanti. Il secondo da un articolo scritto dall'autore marxista Gajo Petrovic e pubblicato in una rivista ufficialmente marxista. Il carattere in grassetto è nostro, le conclusioni saranno del lettore.

    1.- "Cercare la liberazione del subcontinente va oltre il superamento della dipendenza economica, sociale e politica. È, più profondamente, vedere l'evoluzione dell'umanità come un processo di emancipazione dell’uomo lungo la storia, orientato verso una società qualitativamente diversa, in cui l'uomo è libero da ogni servitù, in cui è artefice del proprio destino. È cercare la costruzione di un uomo nuovo" (p. 121).

    2.- La rivoluzione è solo la costruzione di una società qualitativamente diversa(...). Un cambiamento radicale della società può avvenire solo attraverso la trasformazione delle strutture sociali? Considero sbagliato pensare che la trasformazione delle strutture sociali possa essere separata dalla trasformazione dell'uomo o che la trasformazione dell'ordine sociale possa precedere la trasformazione dell'uomo, che invece dovrebbe avvenire automaticamente. La trasformazione della società e la creazione di un uomo nuovosono possibili solo come aspetti strettamente legati di uno stesso processo" (Humanisme et Révolutionin "L'Homme et la Societé", n. 21, luglio-agosto-settembre 1971, pp. 201/2).

     

    Il vero significato dell'ecumenismo

    Il libro analizzato ci fornisce dati anche per verificare il significato più profondo dell'ecumenismo tra i progressisti. Non è nemmeno una sintesi di varie religioni per arrivare alla verità - una posizione già di per sé condannabile - ma un'unione intorno a obiettivi sovversivi.

    "Si fa sempre più frequente l’incontro di cristiani di diverse confessioni nella stessa opzione politica. Questo sta portando alla formazione di gruppi ecumenici (...) in cui i cristiani condividono la loro fede e i loro sforzi per creare una società più giusta" (p. 130).

     

    Un libro obsoleto

    Un'ultima osservazione è d'obbligo. La fedeltà di Gutiérrez alle norme rivoluzionarie classiche lo rende, in queste circostanze, un po' antiquato.

    Il suo libro sarebbe stato perfettamente sulla cresta dell'onda se fosse stato scritto una ventina di anni fa. Oggi, tuttavia, l'evidente fallimento economico e ideologico del comunismo in tutto il mondo ha costretto i suoi leader internazionali a cambiare le loro tattiche per sopravvivere.

    Con l'agricoltura sovietica regredita a uno stato di produzione inferiore a quello dei tempi degli zar, quando la Russia era chiamata "il granaio del mondo", la dirigenza moscovita si è trovata nella posizione di importare favolose quantità di grano e altre materie prime dall'Occidente. Nel settore industriale, il Cremlino non può più nascondere al mondo la sua smania di importare tecnici, “know-how” e persino interi centri industriali.

    Da un punto di vista ideologico, il fallimento non è stato meno clamoroso. Da più di mezzo secolo il comunismo, avendo tutto a disposizione per convincere il mondo dei suoi principi - denaro, abbondante propaganda, partiti politici legali, ecc. - non solo non è riuscito a persuadere gli occidentali, ma nemmeno a far accettare la sua dottrina da coloro che domina. Da qui la sua assoluta necessità, per sostenersi, di fare dei paesi dietro la cortina di ferro delle vere e immense prigioni, le più grandi e odiose che la storia abbia mai conosciuto, come ha denunciato recentemente il fisico dissidente Sahkarov. E, se vogliamo tornare all'esempio cileno, ancora vivo tra noi, basta ricordare i continui scioperi di operai, camionisti, ecc. in opposizione al deposto regime marxista, in una clamorosa smentita della teoria secondo cui i poveri sono i beneficiari del marxismo e quindi le colonne portanti delle cosiddette "democrazie popolari".

    Di fronte alla rovina che minacciava l'imperialismo sovietico, soprattutto di fronte al crescente malcontento della popolazione che opprimeva, i dirigenti internazionali della propaganda rossa non avevano alternative. Hanno dovuto rivolgersi all'Occidente e chiedere aiuto. Per questo sono stati costretti a cambiare la loro tattica e a presentarsi sorridenti. Si arrivò al punto che letteralmente - come fu riportato dalla stampa mondiale - Brezhnev si fece radere parte delle sue sopracciglia, che, essendo così folte, gli davano un aspetto minaccioso... Il comunismo della "faccia feroce" fu sostituito da un comunismo apparentemente cordiale, amichevole, sorridente, bonario. Questa tattica è il "nuovo look" del comunismo. Questo è il mezzo con cui ora cerca di realizzare i suoi malvagi disegni e ingannare gli incauti.

    Ora, se anche quanti si proclamano comunisti si vantano di pretendere di dialogare, come si spiega il fanatismo di coloro che presentano il loro marxismo sotto le vesti del cristianesimo? “Teologia della Liberazione" non è certo un libro di dialogo. L'autore passa ogni pagina a digrignare i denti e a mostrare gli artigli al lettore.

    Sarà che, siccome il processo di comunicazione in America Latina è in ritardo, qui vogliono ancora usare la tattica della violenza? O sarà che Gutiérrez, nel suo entusiasmo, non si è reso conto che il gioco stava cambiando e quindi è diventato obsoleto?

    Lasciamo la soluzione di questo interessante problema alla riflessione del lettore, perché ci porterebbe lontano dagli obiettivi che ci siamo posti. In ogni caso, resta il fatto che il libro di Gutiérrez non è aggiornato rispetto alle ultime manovre della rivoluzione marxista.

     

    Conclusione

    Bene, cari lettori, crediamo di aver raggiunto l'obiettivo che ci eravamo prefissati di far sfilare davanti ai vostri occhi un campione, il più vasto possibile per gli stretti confini di un articolo, della dottrina di Gustavo Gutiérrez nel libro "Teologia della Liberazione". E con questo mezzo, ad alcuni, già informati di tali deviazioni, abbiamo voluto confermarli nella fede, e ad altri, che forse non hanno avuto il tempo di approfondire questo tipo di "letteratura", aiutarli ad aprire gli occhi per vedere dove la corrente progressista vuole portarci. Anche quando i loro libri si presentano, ahimè, sotto le spoglie di un personaggio sacerdotale.

    In questi tempi di confusione è più che mai necessario chiedere alla Madre di Dio di ottenerci la grazia di una fedeltà che resista alla prova del tempo. Fedeltà a cosa? La fedeltà alla dottrina tradizionale della Chiesa, che ci è stata insegnata fin da Gesù Cristo, che ci ha dato dogmi infallibili che niente e nessuno può alterare, e che sola è capace di prepararci ai giorni terribili che, secondo la profezia di Fatima, si stanno avvicinando.

    "Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza. (...).

    "Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, pur di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo i propri capricci, 4rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole" (II Tim 3,14-15 e 4, 3-4).

     

    Note

    1. Sergio Méndez Arceo, allora vescovo di Cuernavaca in Messico, uno degli ispiratori di spicco della Teologia della Liberazione.
    2. L’ IDO-C era nato nel 1965 dalla fusione del DO-C, agenzia informativa dell’episcopato olandese, con il CCCC, Centro di Coordinamento delle Comunicazioni Conciliari, diventando la più vasta rete mondiale di notizie e commenti destinai ai grandi media progressisti, sia cattolici che laici. Insieme alla rete semi-segreta costituita dai cosiddetti “gruppi profetici”, l’IDO-C fu denunciato nel 1969 dalle TFP come responsabile della diffusione capillare degli errori del neo-modernismo, allo scopo di instaurare una Chiesa “desacralizzata, demistificata, disalienata e ugualitaria”.)

     

    Fonte: Tradición y Acción, 1973. Traduzione a cura di Tradizione Famiglia Proprietà – Italia

    © La riproduzione è autorizzata a condizione che venga citata la fonte.

  • Tradizione Famiglia Proprietà: il perché di un lemma

     

     

    di Plinio Corrêa de Oliveira

    La seguente interessante testimonianza, proprio perché proviene da un ambito ideologico del tutto opposto a quello delle TFP, può essere considerata al di sopra di ogni sospetto:

    "In diversi paesi dell'America Latina esiste un gruppo integrista (sic) che si chiama 'Tradizione, Famiglia e Proprietà'. La sua esistenza e la sua attività sono molto inquietanti, ma quello che attira specialmente la mia attenzione è il nome. Osservatori superficiali potrebbero sorprendersi del trinomio 'Tradizione - Famiglia - Proprietà' come se si trattasse di un amalgama artificiale. In realtà, l'unione di questi tre termini non è dovuta al caso, né è stata una scelta arbitraria quella di metterli insieme per fornire il nome a un movimento di estrema destra (sic) particolarmente poderoso. Così come vengono intese nella maggior parte delle volte, la tradizione, la famiglia e la proprietà costituiscono di fatto tre alienazioni (sic) fondamentali dell'uomo, che coesistono l'una accanto all'altra sostenendosi continuamente mediante un tessuto estremamente complesso di rapporti e interdipendenze di ordine economico, psicologico, giuridico.

    "Sarebbe assai facile dimostrare come, ad esempio, l'accesso alla proprietà privata sia stato possibile soltanto in unione allo sviluppo del particolarismo familiare, e come il suo mantenimento possa essere garantito soltanto grazie a un sistema che fissi la cellula familiare nel suo individualismo. Si potrebbe anche dimostrare in quale maniera una certa tradizione, fatta di abitudini solidificatesi in istituzioni di ogni tipo, possa essere lo strumento adeguato di questo immobilismo, ecc.

    "'Tradizione - Famiglia - Proprietà' costituiscono un blocco coerente che si può accettare o rifiutare, ma i cui elementi non è possibile separare". [Max Delespesse, «Jésus et la triple constestation - Tradition, Famille, Proprieté», Fluerus, Novalis, Paris/Ottawa, 1972, pp. 7-8.]

    Bisogna notare che l'autore di questa testimonianza ha assorbito, da buon progressista, linguaggio ed idee marxiste, per cui non sorprende che qualifichi la tradizione, la famiglia e la proprietà come le "tre grandi alienazioni dell'uomo", qualifichi le TFP come movimenti integristi e di estrema destra, accusi la famiglia di essere corrosa dall'individualismo e imputi alla tradizione di essere causa di immobilismo.

    Ciò nonostante va riconosciuto che l'autore ha saputo vedere il vincolo inscindibile che unisce i tre concetti e l'importanza del ruolo che svolgono questi tre valori quali pilastri dell'ordine attuale.

    Per sostituire quest'ordine con una società collettivista e autogestionaria — come lo vogliono i post-comunisti ed i progressisti di tutte le sfumature — è necessaria la distruzione di questi tre pilastri della nostra civiltà.

    Tradizione, Famiglia e Proprietà non è dunque un lemma qualsiasi. È il trinomio anticomunista e antiprogressista per eccellenza, che suscita la simpatia di quanti amano la civiltà cristiana e l'avversione, se non addirittura l'odio, di tutti coloro che, in grado minore o maggiore, si sono lasciati infettare dal virus rivoluzionario.

    Tradizione 

    Quando si parla di tradizione, molti pensano subito all'Inghilterra attuale, con la sua regina, la sua camera dei Lord, le sue Rolls Royce, i cappelli a cilindro, la proverbiale raffinatezza e flemma britannica. Fondamentalmente, la parola evoca reminiscenze di tempi remoti che, nell'insieme, provocano negli spiriti reazioni contraddittorie. 

    Per innumerevoli persone, la tradizione così intesa è qualcosa che cambia di aspetto nel corso dei giorni a seconda delle impressioni che di volta in volta lo stile di vita odierno va suscitando in loro. Ci sono dei momenti in cui restano affascinate dall'agitazione delle megalopoli moderne e guardano con entusiasmo alle organizzazioni colossali, alle pianificazioni ciclopiche e alle tecniche odierne, che vanno mutuando in realtà tanti temi cari alla fantascienza. In questi momenti a molti dei nostri contemporanei la tradizione appare come una triste arretratezza, qualcosa di asfissiante, una sorta di giogo a fronte della bufera che va abbattendo ogni gerarchia, portandosi via anche gli ultimi resti di pudore e di rispetto sociale.

    Nelle occasioni in cui, di contro, la volgarità trionfante di un mondo sempre più ugualitario, i ritmi assordanti, frenetici e complicati della esistenza attuale, la minacciosa instabilità di tutte le istituzioni, di tutti i diritti, di tutte le situazioni provocano nevrosi, angoscie e stress in milioni di nostri simili, la tradizione si presenta loro come un'oasi di elevazione dell'anima, buon senso, buon ordine, buona educazione e, insomma, saggia arte di vivere.

    Dunque, che cosa è la tradizione?

    Tradizione viene dal latino "tradere", che significa trasmettere. Si chiama tradizione -- vera tradizione -- il complesso di realizzazioni che una generazione porta a compimento -- nel senso della propia elevazione spirituale, religiosa, morale, culturale e materiale -- e comunica alla successiva.

    In questo senso, tradizione è sinonimo di progresso, un progresso distillato che si trasmette da una generazione all'altra.

    Un luminoso brano di Pio XII illustra queste considerazioni:

    "La tradizione è cosa molto diversa dal semplice attaccamento ad un passato scomparso; è tutto l'opposto di una reazione che diffida di ogni sano progresso. Il suo stesso vocabolo etimologicamente è sinonimo di cammino e di avanzamento. Sinonimia, non identità. Mentre infatti il progresso indica soltanto il fatto del cammino in avanti passo innanzi passo, cercando con lo sguardo un certo avvenire; la tradizione dice pure un cammino in avanti, ma un cammino continuo che si svolge in pari tempo tranquillo e vivace, secondo le leggi della vita, sfuggendo all'angoscia alternativa: 'Si jeunesse savait, si vieillese pouvait'; simile a quel signore di Turenne, di cui fu detto: 'Il y a dans sa jeunesse toute la prudence d'une âge avancé, et dans une âge avancé toute la vigueur de la jeunesse' (Fléchier, Oraison Funèbre, 1676). In forza della tradizione, la gioventù, illuminata e guidata dall'esperienza degli anziani, si avanza di un passo più sicuro, la vecchiaia trasmette e consegna fiduciosa l'aratro a mani più vigorose che prosseguono il solco cominciato. Come indica col suo nome, la tradizione e il dono che passa di generazione in generazione la fiaccola che il corridore ad ogni cambio pone in mano e affida all'altro corridore. Senza che la corsa si arresti o si rallenti. Tradizione e progresso si integrano a vicenda con tanta armonia, che, come la tradizione senza il progresso contraddirebbe a sè stessa, così il progresso senza la tradizione sarebbe una impressa temeraria, un salto nel buio". [Allocuzione al Patriziato ed alla Nobiltà romana, 14 gennaio 1944. Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, Tipografia Poliglota Vaticana, vol. V, pp. 177-182.]

    La tradizione, naturalmente, può venire intesa anche in un senso peggiorativo. Ciò avviene quando, cadute in preda all'inerzia, le generazioni successive non realizzano nuovi perfezionamenti, accontentandosi dei valori ricevuti dal passato. Così come ciò che non si rinnova muore, in queste situazioni di sclerosi gli stessi valori del passato incominciano a deperire fino ad estinguersi del tutto.

    Ciò non avviene con la vera tradizione.

    Questa nega che il passato debba rimanere immobile o che tutto quanto esiste nel presente debba essere accettato senza discussione, poiché essa non è a favore del passato in quanto passato, nè a favore del presente in quanto presente.

    La vera tradizione presuppone invece che tutto l'ordinamento autentico e vivo abbia una spinta propulsiva verso il miglioramento e la perfezione: perciò il vero progresso non consiste nel distruggere ma nel costruire. Cioè, la tradizione è la somma del passato al presente, facendo del giorno di oggi non la negazione di quello di ieri, ma la sua armonica continuazione.

    In termini più concreti, la tradizone cristiana è un valore incomparabile, che deve regolare i giorni attuali, evitando ad esempio che l'uguaglianza venga intesa come distruzione delle élites ed esaltazione della volgarità; non consentendo che la libertà serva di pretesto alla depravazione ed al caos; adoperandosi perché il dinamismo non si trasformi in delirio, perché la tecnica non schiavizzi l'uomo: in una parola, la tradizione cerca di impedire che il progresso diventi inumano, insopportabile, odioso.

    Pertanto, la tradizione non vuole estinguere il progresso ma salvarlo da possibili deviazioni suscettibili di trasformarlo in barbarie organizzata, alla quale altri contrappongono una barbarie altrettanto insensata e foribonda, quella del caos creativo, filosofia che fa da battistrada a forme sempre più aberranti di neo-barbarie.

    Tradizione e famiglia 

    La tradizione trova la sua vera spiegazione solo alla luce della nozione di famiglia. Se non ci fosse la famiglia, non esisterebbe neppure la tradizione. E in tutti i luoghi dove fiorisce rigogliosa la vita familiare, sia i costumi privati che pubblici, la cultura e la civiltà sono impregnati di tradizioni. 

    Persino in istituzioni quali gli ordini religiosi, le università, le imprese private, il governo e l'amministrazione, ecc., le tradizioni si stabiliscono solo quando si formano, per così dire, famiglie di anime che, sempre rinnovandosi, perseguono tuttavia l'ideale di progredire verso l'alto all'interno di un solco ben determinato.

    Ancora una volta è in Pio XII che troveremo preziosi testi esplicativi. Trattando dei fattori dell'ordine naturale, morale e soprannaturale che fanno della famiglia una ricchissima fonte di continuità fra le generazioni nel corso dei secoli, egli afferma:

    "Di questa grande e misteriosa cosa che è l'eredità, vale a dire il passaggio in una stirpe perpetuantesi di generazione in generazione, di un ricco insieme di beni materiali e spirituali, la continuità di un medesimo tipo fisico e morale conservantesi da padre in figlio, la tradizione che unisce attraverso i secoli membri di una medesima famiglia di questa eredità, diciamo, si può senza dubbio travisare la vera natura con teorie materialiste. Ma si può anche e si deve considerare una tale realtà di così grande importanza nella pienezza della sua verità umana e soprannaturale. Non si negherà certamente il fatto di un sostratto materiale alla trasmissione dei caratteri ereditari; per meravigliarsene bisognerebbe dimenticare l'unione intima della nostra anima col nostro corpo, in quale larga misura le stesse nostre attività più spirituali siano dipendenti dal nostro temperamente fisico. Perciò la morale cristiana non manca di ricordare ai genitori le gravi responsabilità che loro spettano a tale riguardo. Ma quel che più vale è l'eredità spirituale, trasmessa non tanto per mezzo di questi misteriosi legami della generazione materiale, quanto con l'azione permanente di quel ambiente privilegiato che costituisce la famiglia con la lenta e profonda formazione delle anime nell'atmosfera di un focolare ricco di alte tradizioni intellettuali, morali e soprattutto cristiane, con la mutua influenza fra coloro che dimorano in una medesima casa, influenza i cui benefici effetti si prolungano ben al di là degli anni della fanciullezza e della gioventù, sino al termine di una lunga vita, in quelle anime elette che sanno fondere in sè stesse i tesori di una preziosa eredità col contributo delle loro proprie qualità ed esperienze. Tale è il patrimonio, sopra ogni altro pregevole, che, illuminato da una fede salda, vivificato da una forte e fedele pratica della vita cristiana in tutte le sue esigenze, eleverà, affinerà, arricchirà le anime dei vostri figli". [Id. 5 gennaio 1941. Ibid. vol. II, pp.363-366]

    Ma ci si chiederà: questa concezione non si oppone alla democrazia? Pio XII sembra abbia prevenuto l'obiezione quando dice:

    "Per testimonianza della storia, là ove vige una vera democrazia, la vita del popolo è come impregnata di sane tradizioni, che non è lecito di abbattere. Rappresentanti di queste tradizioni sono anzittutto le classi dirigenti, ossia i gruppi di uomini e donne o le associazioni, che danno come suol dirsi il tono nel villaggio e nella città, nella regione e nell'intero paese. Di qui, in tutti i popoli civili, l'esistenza e l'influsso di istituzioni eminentemente aristocratiche nel senso più alto della parola come sono talune accademie di vasta e ben meritata rinomanza". [ Id. 16 gennaio 1946. Ibid. vol VII, pp. 337-342.]

    Ci si potrebbe anche chiedere: questa concezione della tradizione e della famiglia non porta a una società ordinata in classi diverse? Certamente. È lo stesso Pio XII ad affermarlo:

    "Le ineguaglianze sociali, anche quelle legate alla nascita, sono inevitabili: la natura benigna e la benedizione di Dio all'umanità illuminano e proteggono le culle, le baciano, ma non le pareggiano. Guardate pure le società più inesorabilmente livellate. Nessun'arte ha mai potuto operare tanto che il figlio di un gran capo, di un gran conduttore di folle, restasse in tutto nel medesimo stato di un oscuro cittadino perduto fra il popolo. Ma se tali ineluttabili disparità possono paganamente apparire un'inflessibile conseguenza del conflitto delle forze sociali e della potenza acquisita dagli uni sugli altri, per le leggi cieche che si stimano reggere l'attività umana e mettere capo al trionfo degli uni, come al sacrificio degli altri; da una mente invece cristianamente istruita ed educata essi non possono considerarsi quali disposizione voluta da Dio con il medesimo consiglio delle ineguaglianze nell'interno della famiglia, e quindi destinate a unire maggiormente gli uomini tra loro nel viaggio della vita presente verso la patria del Cielo, gli uni aiutano gli altri, a quel modo che il padre aiuta la madre ed i figli. Se questa concezione della superiorità sociale talvolta, per l'urto delle passioni umane, sospinse gli animi a deviazioni nei rapporti delle persone di rango più elevato con quelle di condizione più umile, la storia dell'umanità decaduta non se ne meraviglia. Tali deviazioni non valgono a diminuire o ad offuscare la verità fondamentale che per il cristiano le disuguaglianze sociali si fondono in una grande famiglia umana". [Id. 5 gennaio 1942. Ibid. vol III, pp. 345-349.]

    Se la famiglia genera di suo la tradizione e la gerarchia sociale, per sopprimere queste bisogna dunque fiaccare, depauperare e fare a pezzi la famiglia. È quanto consapevolmente perseguono i rivoluzionari radicali, allo scopo di stabilire il più ferreo ugualitarismo, supremo principio della loro filosofia.

    Tradizione famiglia proprietà

    Un letterato francese raccontò la seguente favola. C'era una volta un giovane tormentato da una critica situazione affettiva. Voleva bene di tutto cuore alla moglie e tributava amore e venerazione profonda alla madre. Orbene, i rapporti fra la nuora e la suocera erano diventati tesi e, accecata dalla gelosia, la giovane donna, incantevole ma cattiva, nutriva un odio immotivato contro l'anziana e rispettabile matrona. Ad un certo momento, la moglie mise il marito davanti ad una terribile alternativa: se non avesse ucciso la madre portandole il suo cuore, lo avrebbe abbandonato. Dopo mille dubbi il giovane cedette, uccise chi gli aveva dato la vita, le strappò il cuore dal petto, lo avvolse in un panno e tornò a casa. Sulla via del ritorno il giovane inciampò e cadde. Udì allora una voce proveniente dal cuore materno che gli chiedeva amorevolmente: "Figlio mio, ti sei fatto male?"

     Con questa commovente narrazione, l'autore voleva mettere in risalto ciò che l'amore materno ha di più sublime e toccante, cioè il suo completo disinteresse, la sua intera gratuità, la illimitata capacità di perdonare. Senza questo amore non esistono paternità o maternità degne di questo nome. Chi nega la eccelsa gratuità di questo amore nega di fatto la stessa famiglia. È questo amore che porta i genitori a voler più bene ai propri figli che agli altri -- in perfetto accordo con la legge di Dio -- e a desiderare per loro la migliore educazione possibile, la migliore istruzione, la vita stabile, la ascesa lungo tutta la scala dei valori, persino quelli sociali.

    Per questo i genitori lavorano, lottano e risparmiano. Il loro istinto, la loro ragione, la propria coscienza li portano in questa direzione. Accumulare un patrimonio per trasmetterlo ai figli in eredità è un desiderio naturale. Negare la sua legittimità è come affermare che il padre deve comportarsi con il figlio come con qualsiasi altra persona, significa distruggere la famiglia. Sì, la eredità è l'istituzione in cui famiglia e proprietà convergono.

    E non solo la famiglia e la proprietà, ma anche la tradizione. Infatti, fra le molteplici forme di eredità che esistono, non è quella del denaro la più preziosa. La eredità -- come viene abitualmente osservato -- fissa molte volte nella stessa stirpe, sia essa nobile o plebea, certi tratti fisionomici e psicologici che costituiscono un anello di congiunzione fra le generazioni, una testimonianza che in qualche modo gli antenati sopravvivono e si perpetuano nei loro discendenti.

    È proprio della famiglia distillare nel corso delle generazioni lo stile di educazione e di vita domestica, così come di attività pubblica e privata, in cui la ricchezza originaria delle sue caratteristiche raggiunga la sua più alta espressione. Questo progresso, realizzato attraverso decenni e secoli, è la tradizione. O una famiglia elabora la propria tradizione come una scuola di vita, di azione, di progresso e di servizio -- per il bene dei suoi membri, come pure per quello della Patria, della Cristianità e della Chiesa -- oppure corre il rischo di generare non di rado individui disadattati, dalla personalità indefinita e senza nessuna possibilità di un radicamento stabile e logico in qualsiasi gruppo sociale.

    A che serve ricevere dai genitori un ricco patrimonio materiale se non viene accompagnato -- almeno in stato germinale quando si tratti di famiglie nuove -- da una tradizione, cioè un patrimonio morale e culturale? Tradizione, certo, che non è un passato atrofizzato ma la vita che un seme riceve dal frutto. Ossia, una capacità di germinare, di produrre qualcosa di nuovo che non sia il contrario dell'antico, ma il suo armonioso sviluppo e arricchimento. Vista così, la tradizione si amalgama armonicamente colla famiglia e colla proprietà, nella formazione dell'eredità e della continuità familiare. Questo principio si fonda sul buon senso e perciò lo recepiscono persino i paesi più democratici.

    Addirittura la gratitudine ha qualcosa di ereditario che ci spinge a fare per i discendenti dei nostri benefattori, anche dopo la loro morte, ciò che questi ci chiederebbero che facessimo. A questa legge sono soggetti non solo i singoli, ma pure gli Stati.

    Lo dimostra questo esempio. Nella guerra civile spagnola i comunisti catturarono il Duca di Veragua, ultimo discendente di Cristoforo Colombo, disponendosi a fucilarlo; però tutte le nazioni americane invocarono all'unisono clemenza perché non potevano guardare con indifferenza all'estinzione della discendenza dell'eroico scopritore.

    Queste sono le logiche conseguenze dell'esistenza della famiglia ed i suoi riflessi sulla tradizione e sulla proprietà. Tutto ciò a dimostrazione di come in effetti, secondo il citato autore francese:

    "Tradizione, Famiglia e Proprietà' costituiscono un blocco coerente che si può accettare o rifiutare, ma i cui elementi non è possibile separare".

     

    Fonte: Testo composto da Leo Daniele con brani di diversi articoli del prof. Plinio Corrêa de Oliveira apparsi sulla Folha de S. Paulo: 18-12-1968; 12-03-1969; 24-04-1969; 30-03-1970.

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