Ultramontanismo

  • Cattolici liberali: "L'unica regola di salvezza è stare con il Papa vivente" (purché sia​​uno di loro...)

     

     

    di José Antonio Ureta

    In un precedente articolo abbiamo fugato il malinteso che ha portato alcuni tradizionalisti ad accusare gli ultramontani e un cosiddetto “spirito del Vaticano I“ di essere responsabili della deriva ‘papolatrica’ di certi cattolici che pensano che bisogna obbedire al Papa anche quando agisce contro l'insegnamento tradizionale della Chiesa. Nelle righe che seguono dimostreremo che non furono gli ultramontani, bensì i cattolici liberali ad estendere i limiti dell'infallibilità del Papa ben oltre quelli fissati dalla costituzione dogmatica Pastor Aeternus.

    Questa deriva iniziò durante la politica di ralliement con la Repubblica imposta da papa Leone XIII ai cattolici francesi, una linea di condotta accolta con entusiasmo dai cattolici liberali i quali volevano conciliare la Chiesa con la modernità rivoluzionaria, mentre gli ultramontani si opposero a questa indebita ingerenza del Papa negli affari temporali della Francia sottolineando i limiti del suo potere magisteriale (ndt, in italiano ralliementsi potrebbe tradurre come allineamento).

    L'episodio è stato magistralmente analizzato dal prof. Roberto de Mattei, nel suo libro “Il Ralliement di Leone XIII - Il fallimento di un progetto pastorale”1. Per evitare la separazione tra Chiesa e Stato francese, papa Pecci esortò i cattolici a unirsi alla Repubblica e a combattere le leggi anticlericali all'interno del sistema repubblicano. In questo modo, la diplomazia vaticana voleva ottenere la benevolenza del governo francese per recuperare i territori che il Regno d'Italia aveva sottratto alla Santa Sede.

    La nuova politica di Leone XIII si scontrava con due grosse difficoltà: da una parte, le elezioni avevano portato al potere in Francia governi massonici e laici, che avevano introdotto il divorzio, espulso i gesuiti, proibito a sacerdoti e religiosi di insegnare nelle scuole pubbliche, abolito l'educazione religiosa nelle scuole e imposto ai chierici il servizio militare; dall'altro, essa vanificava le convinzioni monarchiche della maggioranza del clero e dei laici francesi.

    Papa Leone XIII era un intellettuale dai principi solidi ma dal cuore liberale. Ingenuamente credeva che, per disinnescare l'anticlericalismo dei repubblicani, fosse sufficiente convincerli che la Chiesa non si opponeva alla Repubblica, ma solo al loro secolarismo. Al contrario del Papa, i fedeli francesi vedevano chiaramente che il programma di scristianizzazione della Francia non era un elemento accessorio, ma la stessa ragion d'essere del regime repubblicano. Per loro, accettare la Repubblica significava accettare lo “spirito repubblicano", cioè l'impronta egualitaria e antireligiosa dell'ideologia rivoluzionaria del 1789 su tutta la società.

    Il cardinale Lavigerie, arcivescovo di Algeri, fu scelto da Leone XIII come "intermediario autorizzato" tra Parigi e il Vaticano per la realizzazione del ralliement. Ad un ricevimento per gli ufficiali della flotta da guerra francese del Mediterraneo, propose un brindisi per esortarli ad accettare la forma repubblicana di governo, sostenendo che l'unione di tutti i buoni cittadini era il bisogno supremo della Francia e "il primo desiderio della Chiesa e dei suoi Pastori".

    Pochi mesi dopo, Leone XIII stesso entrò nella mischia concedendo un'intervista (la prima mai rilasciata da un Sovrano Pontefice) a un quotidiano parigino filogovernativo, Le Petit Journal, in cui dichiarò: "Ognuno può mantenere le sue preferenze intime, ma nel campo dell'azione, non c'è altro che il governo che la Francia si è dato. La repubblica è una forma di governo legittima come qualsiasi altra". Tre giorni dopo uscì la sua enciclica Au Milieu des sollicitudes, seguita poco dopo dalla lettera apostolica Notre consolation a été grande, in cui il Papa insisteva sulla sua idea di "accettare senza seconde intenzioni, con quella perfetta lealtà che si addice a un cristiano, il potere civile nella forma in cui esiste di fatto".

    Il problema di coscienza che questa svolta poneva ai cattolici abituati a combattere la Repubblica massonica era simile, in termini attuali, a quello sollevato dal cardinale Joseph Zen e dai cattolici della Chiesa clandestina di fronte al nefasto accordo firmato tra la Santa Sede e il regime comunista cinese.

    La maggioranza dell'episcopato francese dell'epoca accolse freddamente questa politica di ralliement, e alcune note figure della corrente ultramontana, come Mons. Charles-Émile Freppel, vescovo di Angers, vi si opposero apertamente. Il cardinale Lavigerie aprì allora il ballo del "magisterialismo", cioè, l'errore di conferire più importanza agli insegnamenti e ai gesti del pontefice del momento che a quelli della Tradizione. Accusando gli "intransigenti" che si appellavano a Pio IX per opporsi a Leone XIII, dichiarò: «La sola regola di salvezza e di vita nella Chiesa è quella di essere dalla parte del Papa, del Papa vivente. Chiunque esso sia»2.

    La stessa istruzione arrivò ben presto dal Papa stesso in relazione a una lettera del cardinale Giovanni Battista Pitra, uno dei principali rappresentanti del "partito piano" (partito di Pio IX). Un corrispondente olandese pubblicò il testo che aveva ricevuto dal cardinale, il quale nella sua parte più importante difendeva i giornalisti ultramontani e lodava l'espansione cattolica avvenuta sotto Pio IX, senza dire una parola sul suo successore. Una campagna di stampa si scatenò contro il vecchio cardinale, accusandolo di voler opporre una politica personale a quella di Leone XIII. Un giornale belga arrivò ad accusarlo di essere "il capo scismatico di una piccola chiesa che vuole dare lezioni al papa, atteggiandosi a più papista di lui". La stampa laica si unì ai giornali cattolici liberali nel chiedere la punizione del cardinale.

    Su istigazione del cardinale Lavigerie, il Papa fece pubblicare sull'Osservatore Romanouna lettera che aveva scritto al cardinale arcivescovo di Parigi, in cui esigeva l'obbedienza dei fedeli in una questione esclusivamente politica che non aveva nulla a che fare con la fede, la morale o la disciplina ecclesiastica. Sarebbe come se Papa Francesco imponesse le sue convinzioni sull'immigrazione o sul cambiamento climatico come obbligatorie. L'abuso di potere magisteriale manifestato nella lettera di Leone XIII meriterebbe di essere trascritto per intero, ma ciò supererebbe le dimensioni di un articolo. Ecco alcuni degli estratti più significativi (i commenti in corsivo e tra parentesi quadre sono nostri):

    "Non è difficile vedere che tra i cattolici ci sono alcuni, forse a causa dei tempi sventurati, che, non contenti del ruolo di sottomissione assegnato loro nella Chiesa, pensano di poterne assumere uno nel suo governo. Per dire il meno, immaginano di poter esaminare e giudicare gli atti dell’autorità secondo il loro modo di vedere le cose. Questo sarebbe un grave disordine se dovesse prevalere nella Chiesa di Dio, dove, per espressa volontà del suo divino Fondatore, sono stati stabiliti due ordini chiaramente distinti: la Chiesa docente e la Chiesa discente (ndt, la Chiesa che insegna e quella che viene istruita), i Pastori e il gregge, e tra i Pastori, uno di loro che è per tutti il Capo e il Supremo Pastore. Ai soli pastori è stato dato il pieno potere di insegnare, di giudicare, di dirigere; ai fedeli è stato imposto il dovere di seguire questi insegnamenti, di sottomettersi con docilità a questi giudizi, di lasciarsi governare, correggere e condurre alla salvezza. [Certamente è così in materia di fede, morale e disciplina ecclesiastica, ma non in tutto il resto, in cui i fedeli sono liberi di avere un'opinione personale].

    "Così, è assolutamente necessario che i semplici fedeli si sottomettano nella mente e nel cuore ai propri pastori, e questi con loro al Capo e Pastore Supremo. Da questa subordinazione, da questa obbedienza, dipendono l'ordine e la vita della Chiesa. È la condizione indispensabile per fare del bene e per arrivare felicemente in porto. Se invece i semplici fedeli si attribuiscono un'autorità, se pretendono di erigersi a giudici e dottori; se gli inferiori preferiscono o cercano di far prevalere, nel governo della Chiesa universale, una direzione diversa da quella dell'autorità suprema, si tratta, da parte loro, di capovolgere l'ordine, di arrecare confusione in un gran numero di menti e di abbandonare la retta via. [Il ralliement non riguardava il governo della Chiesa, ma l'atteggiamento politico dei cattolici francesi verso il loro governo; i fedeli non erano dunque obbligati a seguire i loro pastori in questa materia].

    "E non è necessario, per venir meno a un così sacro dovere, fare un atto di aperta opposizione sia ai vescovi che al Capo della Chiesa: basta che questa opposizione venga fatta in modo indiretto, tanto più pericoloso perché si cerca maggiormente di velarla con apparenze contrarie. [Questo era un riferimento agli ultramontani campioni dell'infallibilità papale].

    "È anche un segno di sottomissione insincera stabilire un'opposizione tra Sommo Pontefice e Sommo Pontefice [questo suona familiare…]. Coloro che, tra due diverse direzioni, rifiutano quella del presente attenendosi a quella del passato, non mostrano obbedienza all'autorità, la quale ha il diritto e il dovere di dirigerli, e assomigliano per certi aspetti a coloro che, dopo una condanna, vorrebbero appellarsi a un futuro Concilio o a un Papa più informato. [Un altro attacco agli ultramontani accusandoli di essere diventati conciliaristi].

    E in una manifestazione fino ad allora sconosciuta di centralismo e persino di autoritarismo, Leone XIII aggiunse:

    "Ciò da ritenere su questo punto è che, quindi, nel governo generale della Chiesa, a parte i doveri essenziali del ministero apostolico imposti a tutti i Pontefici, è nella libertà di ciascuno di essi seguire la regola di condotta che, secondo i tempi e le altre circostanze, giudica migliore. In questo egli è l'unico giudice, avendo in questa materia non solo intuizioni speciali, ma anche una conoscenza della situazione generale e dei bisogni della cattolicità, secondo la quale la sua sollecitudine apostolica deve essere regolata. [Ma il Papa è infallibile in tutto ciò che intraprende? Si può avere un giudizio contrario?]Egli è colui che deve procurare il bene della Chiesa universale, al quale è ordinato il bene delle sue varie parti, e tutti coloro che sono soggetti a questo ordinamento devono assecondare l'azione del Direttore Supremo e servire i suoi scopi. [No, se credono in coscienza che sbaglia]Così come la Chiesa è una, il suo Capo è uno solo, e così anche il suo governo, al quale tutti devono conformarsi»3. [L'attuale diritto canonico riconosce il diritto dei fedeli di esprimere il loro disaccordo con il rispetto dovuto ai pastori].

    Sei giorni dopo, uno dei principali parroci di Parigi descriveva così il nuovo clima nella Chiesa: «I vescovi devono riconoscere e proclamare che il Papa ha sempre ragione. I parroci devono proclamare e riconoscere che il loro vescovo ha sempre ragione. I fedeli devono riconoscere e proclamare che il loro parroco, in unione con il suo vescovo e unito al Papa, ha sempre ragione. È come la gendarmeria; ma è poco pratico e la storia testimonia che tutto ciò è stato poco pratico»4.

    Il cardinale Lavigerie, invece, si congratulava con Leone XIII per aver resistito ai venti di malcontento provenienti dai fedeli e dai giornali ultramontani: «Con questo vigoroso atto pontificale, Sua Santità ha condannato un nuovo genere di tirannia, che tentava di imporsi sulla gerarchia cattolica»5.

    Dopo la pubblicazione dell'enciclica Au milieu des sollicitudes, il Papa rafforzò la sua posizione, pur riconoscendo che si trattava di una questione temporale. Così scriveva al vescovo di Grenoble:

    "Ci sono alcuni, dispiace dirlo, che mentre protestano del loro cattolicesimo, si credono in diritto di essere refrattari all’indirizzo dato dal Capo della Chiesa, con il pretesto che sarebbe un indirizzo politico. E beh! Di fronte alle loro pretese erronee noi manteniamo in tutta l’integrità ogni nostro atto precedentemente emanato e diciamo ancora: 'No, senza dubbio, noi non cerchiamo di fare politica, ma quando la politica è strettamente connessa con gli interessi religiosi, come sta accadendo attualmente in Francia, se qualcuno ha la missione di determinare la condotta che può effettivamente salvaguardare gli interessi religiosi, nei quali consiste il fine supremo delle cose, è il Romano Pontefice»6.

    Al momento della pubblicazione dell'enciclica, il sig. Émile Ollivier - tutt'altro che ultramontano giacché era stato ministro dell'imperatore Napoleone III - scrisse quanto segue in una colonna del Figaro:

    «In attesa che il futuro si pronunci tra Pio IX e Leone XIII, la scelta tra le due opinioni è libera; in quanto si può dire, come gli antichi, non de fide, non si tratta di fede. Quanto a coloro che considerano la lettera pontificia una definizione ex cathedra, stare a discutere con loro è come perdere tempo. Bisogna rimandarli a scuola»7.

    L'ex ministro bonapartista non stava per nulla esagerando. Due professori di teologia morale avevano concluso che le direttive papali obbligavano sotto pena di peccato mortale; due giornali cattolici liberali avevano dichiarato che chi continuava a sostenere pubblicamente la monarchia commetteva un peccato grave, e alcuni fedeli erano stati privati dell'assoluzione per aver commesso il "peccato di monarchia". Il cardinale Ferrata, ex nunzio a Parigi, commentò nelle sue memorie che la lettera apostolica Notre consolation"escludeva ormai qualsiasi equivoco: la si doveva accettare o dichiararsi ribelli alle parole del Papa»8.

    Gli ultramontani evitarono entrambe le insidie. Non si schierarono né con la Repubblica massonica, come voleva Leone XIII, né si ribellarono alla sua autorità: semplicemente resistettero, come San Paolo aveva "resistito in faccia" a San Pietro (Gal 2,16).

    Tra l'ottobre 1891 e il febbraio 1894, un piccolo gruppo di religiosi e laici si riunì mensilmente in un'associazione ad hoc che chiamarono Notre-Dame-de-Nazareth per "agire sul prossimo conclave e fare in modo che all'attuale Papa non venga dato un successore che continui i suoi errori liberali e politici, così dannosi per la Chiesa". Il principale leader del gruppo, padre Charles Maignen, lesse nel luglio 1892 un suo scritto "le cui conclusioni sono tali da calmare le inquietudini dei cattolici francesi che rifiutano, per ragioni di coscienza, di aderire a un governo che perseguita la Chiesa". Infatti, asseriva, "Leone XIII non ha agito in virtù del potere spirituale che il Sommo Pontefice può esercitare indirettamente nell'ordine temporale [ratione peccati]; di conseguenza, i suoi insegnamenti, i suoi consigli o anche i suoi ordini non vincolano i cattolici francesi in coscienza". In un altro studio mai pubblicato, intitolato Un pape légitime, peut-il cesser d'être pape? (ndt, Può un papa legittimo cessare di essere papa?), padre Maignen affrontò addirittura il delicato problema del papa eretico9.

    Si può quindi concludere senza esitazione che l'esagerata devozione e sottomissione al Papa, fino al punto di credersi obbligati ad obbedirgli in questioni non legate alla fede o quando insegna o comanda l'errore, non viene da un ultramontanismo esagerato o da un presunto "spirito del Vaticano I" ma, al contrario, dalla corrente cattolico-liberale.

    Del resto, quale fu il risultato di questa politica di «allineamento» (ralliement) verso la Repubblica? Un fallimento totale, riconosciuto dallo stesso Leone XIII. Poco prima della sua morte, concesse un'udienza a Jules Méline, ex presidente del Consiglio francese, al quale disse: "Mi sono sinceramente legato alla Repubblica e ciò non ha impedito al governo attuale di riconoscere i miei sentimenti e di non tenerne alcun conto. Ha scatenato una guerra religiosa che deploro, e che fa ancora più male alla Francia che alla religione»10.

    Presto Papa Francesco dovrà dire la stessa cosa - se sarà sincero come il suo predecessore - del suo accordo con Xi Jinping. E ammettere che era il cardinale Zen ad avere ragione.

     

    Note

    1. Editrice Le Lettere, Firenze 2014, 365 p.
    2. Roberto de Mattei, op. cit.p. 115
    3. https://archidiacre.wordpress.com/2020/05/26/leon-xiii-lettre-epistola-tua-17-juin-1885/
    4. Roberto de Mattei, op. cit.p. 132.
    5. Ibidem,p. 132.
    6. Ibidem,p. 332.
    7. Ibidem, p.186.
    8. Ibidem, p. 191.
    9. Ibidem, p. 276-277-278
    10. Ibidem,p. 250.

     

    Fonte: Onepeterfive, 19 Ottobre 2021. Traduzione a cura di Tradizione Famiglia Proprietà – Italia

    © La riproduzione è autorizzata a condizione che venga citata la fonte.

  • Cattolici liberali: "L'unica regola di salvezza è stare con il Papa vivente" (purché sia​​uno di loro...)

     

     

    di José Antonio Ureta

    In un precedente articolo abbiamo fugato il malinteso che ha portato alcuni tradizionalisti ad accusare gli ultramontani e un cosiddetto “spirito del Vaticano I“ di essere responsabili della deriva ‘papolatrica’ di certi cattolici che pensano che bisogna obbedire al Papa anche quando agisce contro l'insegnamento tradizionale della Chiesa. Nelle righe che seguono dimostreremo che non furono gli ultramontani, bensì i cattolici liberali ad estendere i limiti dell'infallibilità del Papa ben oltre quelli fissati dalla costituzione dogmatica Pastor Aeternus.

    Questa deriva iniziò durante la politica di ralliement con la Repubblica imposta da papa Leone XIII ai cattolici francesi, una linea di condotta accolta con entusiasmo dai cattolici liberali i quali volevano conciliare la Chiesa con la modernità rivoluzionaria, mentre gli ultramontani si opposero a questa indebita ingerenza del Papa negli affari temporali della Francia sottolineando i limiti del suo potere magisteriale (ndt, in italiano ralliementsi potrebbe tradurre come allineamento).

    L'episodio è stato magistralmente analizzato dal prof. Roberto de Mattei, nel suo libro “Il Ralliement di Leone XIII - Il fallimento di un progetto pastorale”1. Per evitare la separazione tra Chiesa e Stato francese, papa Pecci esortò i cattolici a unirsi alla Repubblica e a combattere le leggi anticlericali all'interno del sistema repubblicano. In questo modo, la diplomazia vaticana voleva ottenere la benevolenza del governo francese per recuperare i territori che il Regno d'Italia aveva sottratto alla Santa Sede.

    La nuova politica di Leone XIII si scontrava con due grosse difficoltà: da una parte, le elezioni avevano portato al potere in Francia governi massonici e laici, che avevano introdotto il divorzio, espulso i gesuiti, proibito a sacerdoti e religiosi di insegnare nelle scuole pubbliche, abolito l'educazione religiosa nelle scuole e imposto ai chierici il servizio militare; dall'altro, essa vanificava le convinzioni monarchiche della maggioranza del clero e dei laici francesi.

    Papa Leone XIII era un intellettuale dai principi solidi ma dal cuore liberale. Ingenuamente credeva che, per disinnescare l'anticlericalismo dei repubblicani, fosse sufficiente convincerli che la Chiesa non si opponeva alla Repubblica, ma solo al loro secolarismo. Al contrario del Papa, i fedeli francesi vedevano chiaramente che il programma di scristianizzazione della Francia non era un elemento accessorio, ma la stessa ragion d'essere del regime repubblicano. Per loro, accettare la Repubblica significava accettare lo “spirito repubblicano", cioè l'impronta egualitaria e antireligiosa dell'ideologia rivoluzionaria del 1789 su tutta la società.

    Il cardinale Lavigerie, arcivescovo di Algeri, fu scelto da Leone XIII come "intermediario autorizzato" tra Parigi e il Vaticano per la realizzazione del ralliement. Ad un ricevimento per gli ufficiali della flotta da guerra francese del Mediterraneo, propose un brindisi per esortarli ad accettare la forma repubblicana di governo, sostenendo che l'unione di tutti i buoni cittadini era il bisogno supremo della Francia e "il primo desiderio della Chiesa e dei suoi Pastori".

    Pochi mesi dopo, Leone XIII stesso entrò nella mischia concedendo un'intervista (la prima mai rilasciata da un Sovrano Pontefice) a un quotidiano parigino filogovernativo, Le Petit Journal, in cui dichiarò: "Ognuno può mantenere le sue preferenze intime, ma nel campo dell'azione, non c'è altro che il governo che la Francia si è dato. La repubblica è una forma di governo legittima come qualsiasi altra". Tre giorni dopo uscì la sua enciclica Au Milieu des sollicitudes, seguita poco dopo dalla lettera apostolica Notre consolation a été grande, in cui il Papa insisteva sulla sua idea di "accettare senza seconde intenzioni, con quella perfetta lealtà che si addice a un cristiano, il potere civile nella forma in cui esiste di fatto".

    Il problema di coscienza che questa svolta poneva ai cattolici abituati a combattere la Repubblica massonica era simile, in termini attuali, a quello sollevato dal cardinale Joseph Zen e dai cattolici della Chiesa clandestina di fronte al nefasto accordo firmato tra la Santa Sede e il regime comunista cinese.

    La maggioranza dell'episcopato francese dell'epoca accolse freddamente questa politica di ralliement, e alcune note figure della corrente ultramontana, come Mons. Charles-Émile Freppel, vescovo di Angers, vi si opposero apertamente. Il cardinale Lavigerie aprì allora il ballo del "magisterialismo", cioè, l'errore di conferire più importanza agli insegnamenti e ai gesti del pontefice del momento che a quelli della Tradizione. Accusando gli "intransigenti" che si appellavano a Pio IX per opporsi a Leone XIII, dichiarò: «La sola regola di salvezza e di vita nella Chiesa è quella di essere dalla parte del Papa, del Papa vivente. Chiunque esso sia»2.

    La stessa istruzione arrivò ben presto dal Papa stesso in relazione a una lettera del cardinale Giovanni Battista Pitra, uno dei principali rappresentanti del "partito piano" (partito di Pio IX). Un corrispondente olandese pubblicò il testo che aveva ricevuto dal cardinale, il quale nella sua parte più importante difendeva i giornalisti ultramontani e lodava l'espansione cattolica avvenuta sotto Pio IX, senza dire una parola sul suo successore. Una campagna di stampa si scatenò contro il vecchio cardinale, accusandolo di voler opporre una politica personale a quella di Leone XIII. Un giornale belga arrivò ad accusarlo di essere "il capo scismatico di una piccola chiesa che vuole dare lezioni al papa, atteggiandosi a più papista di lui". La stampa laica si unì ai giornali cattolici liberali nel chiedere la punizione del cardinale.

    Su istigazione del cardinale Lavigerie, il Papa fece pubblicare sull'Osservatore Romanouna lettera che aveva scritto al cardinale arcivescovo di Parigi, in cui esigeva l'obbedienza dei fedeli in una questione esclusivamente politica che non aveva nulla a che fare con la fede, la morale o la disciplina ecclesiastica. Sarebbe come se Papa Francesco imponesse le sue convinzioni sull'immigrazione o sul cambiamento climatico come obbligatorie. L'abuso di potere magisteriale manifestato nella lettera di Leone XIII meriterebbe di essere trascritto per intero, ma ciò supererebbe le dimensioni di un articolo. Ecco alcuni degli estratti più significativi (i commenti in corsivo e tra parentesi quadre sono nostri):

    "Non è difficile vedere che tra i cattolici ci sono alcuni, forse a causa dei tempi sventurati, che, non contenti del ruolo di sottomissione assegnato loro nella Chiesa, pensano di poterne assumere uno nel suo governo. Per dire il meno, immaginano di poter esaminare e giudicare gli atti dell’autorità secondo il loro modo di vedere le cose. Questo sarebbe un grave disordine se dovesse prevalere nella Chiesa di Dio, dove, per espressa volontà del suo divino Fondatore, sono stati stabiliti due ordini chiaramente distinti: la Chiesa docente e la Chiesa discente (ndt, la Chiesa che insegna e quella che viene istruita), i Pastori e il gregge, e tra i Pastori, uno di loro che è per tutti il Capo e il Supremo Pastore. Ai soli pastori è stato dato il pieno potere di insegnare, di giudicare, di dirigere; ai fedeli è stato imposto il dovere di seguire questi insegnamenti, di sottomettersi con docilità a questi giudizi, di lasciarsi governare, correggere e condurre alla salvezza. [Certamente è così in materia di fede, morale e disciplina ecclesiastica, ma non in tutto il resto, in cui i fedeli sono liberi di avere un'opinione personale].

    "Così, è assolutamente necessario che i semplici fedeli si sottomettano nella mente e nel cuore ai propri pastori, e questi con loro al Capo e Pastore Supremo. Da questa subordinazione, da questa obbedienza, dipendono l'ordine e la vita della Chiesa. È la condizione indispensabile per fare del bene e per arrivare felicemente in porto. Se invece i semplici fedeli si attribuiscono un'autorità, se pretendono di erigersi a giudici e dottori; se gli inferiori preferiscono o cercano di far prevalere, nel governo della Chiesa universale, una direzione diversa da quella dell'autorità suprema, si tratta, da parte loro, di capovolgere l'ordine, di arrecare confusione in un gran numero di menti e di abbandonare la retta via. [Il ralliement non riguardava il governo della Chiesa, ma l'atteggiamento politico dei cattolici francesi verso il loro governo; i fedeli non erano dunque obbligati a seguire i loro pastori in questa materia].

    "E non è necessario, per venir meno a un così sacro dovere, fare un atto di aperta opposizione sia ai vescovi che al Capo della Chiesa: basta che questa opposizione venga fatta in modo indiretto, tanto più pericoloso perché si cerca maggiormente di velarla con apparenze contrarie. [Questo era un riferimento agli ultramontani campioni dell'infallibilità papale].

    "È anche un segno di sottomissione insincera stabilire un'opposizione tra Sommo Pontefice e Sommo Pontefice [questo suona familiare…]. Coloro che, tra due diverse direzioni, rifiutano quella del presente attenendosi a quella del passato, non mostrano obbedienza all'autorità, la quale ha il diritto e il dovere di dirigerli, e assomigliano per certi aspetti a coloro che, dopo una condanna, vorrebbero appellarsi a un futuro Concilio o a un Papa più informato. [Un altro attacco agli ultramontani accusandoli di essere diventati conciliaristi].

    E in una manifestazione fino ad allora sconosciuta di centralismo e persino di autoritarismo, Leone XIII aggiunse:

    "Ciò da ritenere su questo punto è che, quindi, nel governo generale della Chiesa, a parte i doveri essenziali del ministero apostolico imposti a tutti i Pontefici, è nella libertà di ciascuno di essi seguire la regola di condotta che, secondo i tempi e le altre circostanze, giudica migliore. In questo egli è l'unico giudice, avendo in questa materia non solo intuizioni speciali, ma anche una conoscenza della situazione generale e dei bisogni della cattolicità, secondo la quale la sua sollecitudine apostolica deve essere regolata. [Ma il Papa è infallibile in tutto ciò che intraprende? Si può avere un giudizio contrario?]Egli è colui che deve procurare il bene della Chiesa universale, al quale è ordinato il bene delle sue varie parti, e tutti coloro che sono soggetti a questo ordinamento devono assecondare l'azione del Direttore Supremo e servire i suoi scopi. [No, se credono in coscienza che sbaglia]Così come la Chiesa è una, il suo Capo è uno solo, e così anche il suo governo, al quale tutti devono conformarsi»3. [L'attuale diritto canonico riconosce il diritto dei fedeli di esprimere il loro disaccordo con il rispetto dovuto ai pastori].

    Sei giorni dopo, uno dei principali parroci di Parigi descriveva così il nuovo clima nella Chiesa: «I vescovi devono riconoscere e proclamare che il Papa ha sempre ragione. I parroci devono proclamare e riconoscere che il loro vescovo ha sempre ragione. I fedeli devono riconoscere e proclamare che il loro parroco, in unione con il suo vescovo e unito al Papa, ha sempre ragione. È come la gendarmeria; ma è poco pratico e la storia testimonia che tutto ciò è stato poco pratico»4.

    Il cardinale Lavigerie, invece, si congratulava con Leone XIII per aver resistito ai venti di malcontento provenienti dai fedeli e dai giornali ultramontani: «Con questo vigoroso atto pontificale, Sua Santità ha condannato un nuovo genere di tirannia, che tentava di imporsi sulla gerarchia cattolica»5.

    Dopo la pubblicazione dell'enciclica Au milieu des sollicitudes, il Papa rafforzò la sua posizione, pur riconoscendo che si trattava di una questione temporale. Così scriveva al vescovo di Grenoble:

    "Ci sono alcuni, dispiace dirlo, che mentre protestano del loro cattolicesimo, si credono in diritto di essere refrattari all’indirizzo dato dal Capo della Chiesa, con il pretesto che sarebbe un indirizzo politico. E beh! Di fronte alle loro pretese erronee noi manteniamo in tutta l’integrità ogni nostro atto precedentemente emanato e diciamo ancora: 'No, senza dubbio, noi non cerchiamo di fare politica, ma quando la politica è strettamente connessa con gli interessi religiosi, come sta accadendo attualmente in Francia, se qualcuno ha la missione di determinare la condotta che può effettivamente salvaguardare gli interessi religiosi, nei quali consiste il fine supremo delle cose, è il Romano Pontefice»6.

    Al momento della pubblicazione dell'enciclica, il sig. Émile Ollivier - tutt'altro che ultramontano giacché era stato ministro dell'imperatore Napoleone III - scrisse quanto segue in una colonna del Figaro:

    «In attesa che il futuro si pronunci tra Pio IX e Leone XIII, la scelta tra le due opinioni è libera; in quanto si può dire, come gli antichi, non de fide, non si tratta di fede. Quanto a coloro che considerano la lettera pontificia una definizione ex cathedra, stare a discutere con loro è come perdere tempo. Bisogna rimandarli a scuola»7.

    L'ex ministro bonapartista non stava per nulla esagerando. Due professori di teologia morale avevano concluso che le direttive papali obbligavano sotto pena di peccato mortale; due giornali cattolici liberali avevano dichiarato che chi continuava a sostenere pubblicamente la monarchia commetteva un peccato grave, e alcuni fedeli erano stati privati dell'assoluzione per aver commesso il "peccato di monarchia". Il cardinale Ferrata, ex nunzio a Parigi, commentò nelle sue memorie che la lettera apostolica Notre consolation"escludeva ormai qualsiasi equivoco: la si doveva accettare o dichiararsi ribelli alle parole del Papa»8.

    Gli ultramontani evitarono entrambe le insidie. Non si schierarono né con la Repubblica massonica, come voleva Leone XIII, né si ribellarono alla sua autorità: semplicemente resistettero, come San Paolo aveva "resistito in faccia" a San Pietro (Gal 2,16).

    Tra l'ottobre 1891 e il febbraio 1894, un piccolo gruppo di religiosi e laici si riunì mensilmente in un'associazione ad hoc che chiamarono Notre-Dame-de-Nazareth per "agire sul prossimo conclave e fare in modo che all'attuale Papa non venga dato un successore che continui i suoi errori liberali e politici, così dannosi per la Chiesa". Il principale leader del gruppo, padre Charles Maignen, lesse nel luglio 1892 un suo scritto "le cui conclusioni sono tali da calmare le inquietudini dei cattolici francesi che rifiutano, per ragioni di coscienza, di aderire a un governo che perseguita la Chiesa". Infatti, asseriva, "Leone XIII non ha agito in virtù del potere spirituale che il Sommo Pontefice può esercitare indirettamente nell'ordine temporale [ratione peccati]; di conseguenza, i suoi insegnamenti, i suoi consigli o anche i suoi ordini non vincolano i cattolici francesi in coscienza". In un altro studio mai pubblicato, intitolato Un pape légitime, peut-il cesser d'être pape? (ndt, Può un papa legittimo cessare di essere papa?), padre Maignen affrontò addirittura il delicato problema del papa eretico9.

    Si può quindi concludere senza esitazione che l'esagerata devozione e sottomissione al Papa, fino al punto di credersi obbligati ad obbedirgli in questioni non legate alla fede o quando insegna o comanda l'errore, non viene da un ultramontanismo esagerato o da un presunto "spirito del Vaticano I" ma, al contrario, dalla corrente cattolico-liberale.

    Del resto, quale fu il risultato di questa politica di «allineamento» (ralliement) verso la Repubblica? Un fallimento totale, riconosciuto dallo stesso Leone XIII. Poco prima della sua morte, concesse un'udienza a Jules Méline, ex presidente del Consiglio francese, al quale disse: "Mi sono sinceramente legato alla Repubblica e ciò non ha impedito al governo attuale di riconoscere i miei sentimenti e di non tenerne alcun conto. Ha scatenato una guerra religiosa che deploro, e che fa ancora più male alla Francia che alla religione»10.

    Presto Papa Francesco dovrà dire la stessa cosa - se sarà sincero come il suo predecessore - del suo accordo con Xi Jinping. E ammettere che era il cardinale Zen ad avere ragione.

     

    Note

    1. Editrice Le Lettere, Firenze 2014, 365 p.
    2. Roberto de Mattei, op. cit.p. 115
    3. https://archidiacre.wordpress.com/2020/05/26/leon-xiii-lettre-epistola-tua-17-juin-1885/
    4. Roberto de Mattei, op. cit.p. 132.
    5. Ibidem,p. 132.
    6. Ibidem,p. 332.
    7. Ibidem, p.186.
    8. Ibidem, p. 191.
    9. Ibidem, p. 276-277-278
    10. Ibidem,p. 250.

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  • Considerazioni amichevoli per dissipare un malinteso sull'ultramontanismo e sullo «spirito del Vaticano I»

     

     

    di José Antonio Ureta

    Non si può che condividere di tutto cuore la posizione editoriale di OnePeterFive nel senso di unire i “clan” in un'unica crociata per ricostruire la Cristianità al fine di "restaurare ogni cosa in Cristo". Assieme alla nuova redazione, deploro anche io il difetto di alcuni rappresentanti del cattolicesimo tradizionale di voler «discutere tra loro di minuzie mentre gli eretici trionfano contro il dogma».

    Non è quindi con questo spirito cavilloso che accetto l'invito a sottoporre un mio contributo da ospite per approfondire il tema che sta al centro delle riflessioni della posizione editoriale della nuova redazione, ovvero l'atteggiamento corretto che un fedele cattolico deve assumere di fronte agli errori promossi da papa Francesco e da gran parte della gerarchia.

    Sebbene pienamente d'accordo con il vostro rifiuto del sedevacantismo e con la seducente soluzione di rifugiarsi nello scisma greco, ho però qualche riserva sulle etichette «spirito del Vaticano I» e «ultramontanismo estremo» che voi date all'atteggiamento riprovevole di chi preferirebbe avere torto con il Papa che avere ragione contro di lui.

    Questo falso concetto di obbedienza, che paralizza molti cattolici conservatori, lo denunciai nel mio libro Il Cambio di Paradigma di Papa Francesco – Continuità o rottura nella missione della Chiesa?, ma attribuendogli una fonte diversa: il "magisterialismo" insinuatosi negli estimatori di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI negli ultimi decenni, per il fatto di criticare i modernisti non tanto perchè questi si allontanavano dall’insegnamento tradizionale, ma perché attaccavano il magistero del papa regnante[i].

    L'idea che «tutta la vita cattolica debba ruotare attorno al Papa, che sarebbe una specie di oracolo di Delfi, il cui minimo capriccio diventa legge vincolante nella Chiesa» è assurda, ma mi sembra pericoloso caratterizzarla come proveniente da un «falso spirito del Vaticano I» e da un «ultramontanismo estremo». Dal punto di vista del marketing si è tentati di fare un parallelo tra le ultime due assemblee conciliari e di dire che i loro documenti sono stati stravolti da alcuni estremisti nel rispettivo periodo post-conciliare. Ma questa facile soluzione ha tre problemi: 1) dà un “placet” di totale ortodossia al Vaticano II, incolpando un suo "spirito" presumibilmente in contrasto con i suoi testi; 2) getta un velo di sospetto sul movimento ultramontano del XIX secolo ponendolo sullo stesso piano del progressismo che generò il Vaticano II; 3) non corrisponde alla verità storica, perché la “papolatria” non è un frutto avvelenato dell'ultramontanismo, ma un figlio snaturato dei suoi avversari, i cattolici liberali, che vollero servirsene, durante il pontificato di Leone XIII, per imporre ai fedeli l’accettazione della sua politica di “ralliement” attorno alla Repubblica massonica francese (ndt, per ralliement si intende la politica vaticana che spronava i fedeli monarchici ad accettare la repubblica laicista).

    È innegabile che gli ultramontani furono - e questo va a loro merito - i grandi difensori dei due dogmi di fede solennemente pronunciati dal Vaticano I sul Papa, cioè la sua piena e universale giurisdizione e la sua infallibilità. Già all'epoca, questa difesa valse loro l'accusa di essere «teologi dell'assolutismo» e di aver immolato la verità «come un olocausto all'idolo che si erano fabbricati in Vaticano»[ii], secondo l’accusa rivolta loro dal noto scrittore liberale conte Charles de Montalembert (che, del resto, mi sorprende trovare nella vostra lista di controrivoluzionari laici).

    Ma è vero che gli ultramontani hanno portato all'eccesso il loro amore per questi due privilegi della Cattedra di Pietro? Per niente. Ma, per dimostrarlo, è necessario dare uno sguardo d'insieme al pensiero e all'azione del vescovo Louis-Edouard Pie, uno dei principali attori del Concilio Vaticano I insieme al cardinale Henry Edward Manning. Prendo la prima di queste personalità come riferimento perché, risiedendo buona parte dell'anno in Francia, la sua figura mi è più familiare e poi perché innegabilmente la Francia, primogenita della Chiesa, fu il centro intellettuale della corrente ultramontana. Infine, perché il Vescovo di Poitiers è stato il grande difensore del Regno sociale di Nostro Signore e colui che ha ispirato il motto del pontificato di San Pio X, ripreso dal vostro sito nella sua pagina editoriale: Instaurare omnia in Christo.

    Cominciamo dall'accusa rivolta all’ultramontanismo di avere qualche simpatia per l'assolutismo. Questa è del tutto infondata, sia per quanto riguarda il potere temporale che per il potere religioso. Gli ultramontani - e in particolare il futuro cardinale Pie - erano monarchici legittimisti che rifiutavano il centralismo imperialista bonapartista e difendevano una monarchia temperata: «La regalità cristiana, in particolare la regalità francese», scriveva mons. Pie in un programma monarchico redatto su richiesta del pretendente al trono, il conte di Chambord, «non è mai stata arbitraria o addirittura assoluta. Da tempi immemoriali, essa era temperata dall'esistenza dei vari ordini del regno, dalle assemblee provinciali, dagli Stati generali, dai Parlamenti, dalle libertà e dai costumi locali»[iii].

    La stessa visione di un'autorità temperata si applicava alla Chiesa. Monsignor Pie fu un grande difensore delle prerogative di quelli che allora venivano chiamati concili "particolari" o "provinciali". Lavorò per la loro celebrazione nella sua provincia ecclesiastica, eseguì i decreti e, secondo lo spirito che li aveva ispirati, redasse gli statuti che vi erano stati preparati. Commentando una lettera di Pio IX ai vescovi austriaci incoraggiandoli a celebrare un Concilio provinciale, mons. Pie ci vedeva una «risposta irreprensibile alle accuse avventate di monopolizzare tutte le attribuzioni e la tendenza a un accentramento illimitato, che alcuni non hanno paura di scagliare contro la Chiesa romana negli ultimi tempi».

    E aggiungeva: «I concili particolari sono un elemento e una garanzia di libertà e nazionalità per le diverse province del mondo cattolico; diversi concili ecumenici hanno attribuito loro questo carattere. Tuttavia, lungi dall'indignarsi per la convocazione di queste assisi provinciali, è lui stesso, il capo della Chiesa, che ne esige la ripresa, che si rammarica dell'abbandono di esse, che ne dimostra il vantaggio». Quali? «Finché vi saranno differenze di origine, lingua, governo, direi anche di clima (...) l'esistenza di un diritto comune, di una legislazione assoluta, uniforme, senza modificazioni e senza deroghe, sarà impossibile su un numero di punti che riguardano la disciplina ecclesiastica. Il diritto comune (...) ammette come elemento del diritto stesso il principio delle eccezioni, delle deroghe, delle modifiche, purché effettuate in condizioni regolari. Tuttavia, il tribunale che offre maggiori garanzie (...) è l'episcopato della provincia riunito canonicamente, conciliarmente»[iv]. Altrove scrisse: «Mai la sede apostolica ha insistito più [che sotto Pio IX] sulla tenuta periodica dei concili particolari, nei quali i vescovi adempiano congiuntamente però a questa funzione di giudici che Roma è accusata di disputare loro»[v].

    Mi permetto una disgressione: molto mal consigliati furono i Padri conciliari del Vaticano II che accusarono il precedente Concilio di aver sbilanciato la struttura della Chiesa e che, per rimediare a ciò, introdussero una "collegialità" sconosciuta alla Tradizione e mutuata dallo Scisma orientale (persino nella parola, che è una cattiva traduzione dal russo sobornost). Contrariamente a quanto afferma Lumen Gentium e la nota praevia di Paolo VI, il collegio dei vescovi unito al Papa non esercita alcun potere supremo permanente sulla Chiesa universale. La Chiesa cattolica non è bicefala, ha una sola testa: il successore di Pietro. A meno che non siano convocati straordinariamente dal Papa in Concilio, il potere di giurisdizione dei vescovi è solitamente limitato alla singola diocesi di cui sono pastori. Ma sì, possono riunirsi nei concili provinciali sotto l'occhio vigile della Santa Sede, che deve vegliare sull'unità della Chiesa, cosa che Roma oggi rifiuta di fare riguardo al Cammino sinodale tedesco, nonostante esso attribuisca a sé stesso un potere dottrinale che i sinodi provinciali non hanno mai avuto, che si limitavano a legiferare su questioni disciplinari.

    Ma, riprendiamo il nostro discorso andando al cuore della domanda: gli ultramontani erano "papolatri" disposti a fare del Successore di Pietro una specie di pitonessa che proferisce gli oracoli di Apollo, come a Delfi? Affatto!

    L'atteggiamento di mons. Pie prima della convocazione del Concilio Vaticano I e durante il suo svolgimento fu molto illuminante al riguardo.

    Essendo stato nominato consultore da Pio IX e ancor prima che l'assemblea conciliare fosse annunciata pubblicamente, mons. Pie elaborò un progetto per la commissione preparatoria sui temi di attualità che, a suo avviso, il futuro Concilio avrebbe dovuto trattare. Convinto che il grande problema del momento fosse la negazione della regalità di Cristo mediante la secolarizzazione della società, propose un progetto che puntava soprattutto alla denuncia degli errori del razionalismo e del naturalismo (piano largamente ripreso nella costituzione dogmatica Dei Filius), che non includeva la questione dell'infallibilità papale.

    Certo, era ardentemente infallibilista, ma non aveva una fissazione su questa verità di fede ancora non proclamata. Tanto che propose la nomina a consultore conciliare di Arthur-Marie Le Hire, sacerdote di Saint-Sulpice e professore di Sacra Scrittura presso il celebre seminario parigino, baluardo del gallicanesimo.

    Dopo l'indizione ufficiale del Concilio, furono i liberali a eccitare gli animi gridando al lupo e suscitando una polemica sull'infallibilità che non era ancora all'ordine del giorno. Sollecitato da diversi vescovi amici a scendere nell'arena di questa controversia, il vescovo Pie non vi aderì, spiegando il perché in una lettera ai suoi diocesani: «La nostra risoluzione è stata presa per evitare di trattare d'ora in poi in nostro nome le questioni capitali che si impongono per sé stesse in questa santa assemblea. Ci è sembrato che il rispetto dovuto ai nostri venerabili colleghi nell'episcopato, così come quello che dobbiamo a noi stessi, ci imponesse questo riserbo. Non dobbiamo né impedire il giudizio degli altri, né formulare in anticipo il nostro giudizio personale, anche perché siamo disposti a trarre profitto dallo scambio di pensieri, frutto di discussioni, e soprattutto ad obbedire alle luci e ai movimenti dello Spirito Santo, la cui assistenza non ci mancherà nel tempo opportuno»[vi].

    Ma il vescovo di Poitiers non si fece offuscare dall'accesa polemica tra vari organi di stampa dei due schieramenti su questo tema scottante: «Che gli scrittori privati, sotto la loro personale responsabilità, formulino ipotesi e dibattano al riguardo. La Chiesa, che è molto liberale nelle sue procedure, e che darà pieno spazio all'espressione di tutti i pensieri e sentimenti, durante la durata delle sessioni conciliari, non si allarma né si offende di questi dibattiti pubblici, se contenuti entro giusti limiti. A condizione, tuttavia, che il falso liberalismo, come è già avvenuto, non rivendichi il monopolio della libertà, e che, secondo le sue pratiche di assolutismo pratico, non invochi la repressione, e non gridi allo scandalo, a causa della libertà lasciata ai suoi avversari»[vii]. Sembrerebbe che parli profeticamente dei nostri giorni!

    Il futuro cardinale Pie non si allontanò da questa riserva fino a quando mons. Henri Maret, decano della Sorbona, pubblicò due volumi in cui qualificava di «assolutismo» la presunta «onnipotenza» che fornirebbe al Sommo Pontefice la definizione di una personale infallibilità aliena all'omologazione del collegio episcopale. Come contrappeso, il presule parigino proponeva nientemeno che la partecipazione ordinaria dei vescovi al governo generale della Chiesa, attraverso l'istituzione di concili ecumenici decennali (oggi avrebbe formulato la sua proposta sotto la denominazione di "sinodalità”).

    In occasione del ventesimo anniversario della sua elevazione all'episcopato, il vescovo Pie affermò nel suo sermone che sarebbe un affronto alla promessa di Gesù Cristo a Pietro subordinare le decisioni dottrinali dei Papi all'assenso positivo o tacito dell’episcopato mondiale. Ma, si affrettava ad aggiungere che, fedele alle sue abitudini, non intendeva «provocare o pregiudicare in alcun modo una definizione conciliare, la cui opportunità anzitutto, e poi la forma, deve essere interamente riservata al giudizio della grande assemblea sinodale e alla suprema volontà dello Spirito Santo». Per conformare il suo operato alle sue parole, pubblicò sul settimanale della diocesi la risposta del vescovo Maret, aggiungendo: «È regola, in ogni leale controversia, che la difesa possa comparire dove è avvenuto l'attacco»[viii].

    Il futuro cardinale mantenne la stessa riserva quando, alla vigilia dell'apertura del Concilio, il paladino della corrente liberale, mons. Dupanloup, pubblicò due scritti polemici che, con il pretesto di dimostrare l'"inopportunità" di una definizione solenne sul potere magisteriale del Romano Pontefice, in realtà attaccava in maniera formale l'infallibilità stessa. Il Vescovo di Angulema pronunciò il famoso detto: Quod innoportune dixerunt, necessarium fecerunt, cioè proprio quelli che dicono inopportuna la proclamazione di un dogma, la rendono necessaria. E Dom Prosper Guéranger, abate di Solesmes, commentava che questo era ciò che mancava per concludere che era giunto il momento di definire l'infallibilità. Mons. Pie si limitò comunque a riaffermare, in una lettera riservata alla madre: «Siamo decisi, nonostante tutto, a tacere. Il Concilio ci guadagnerà»[ix].

    Il Concilio fu inaugurato l'8 dicembre 1869, festa dell'Immacolata. Il giorno successivo, mons. Pie fu eletto al secondo posto nella composizione della Commissione della Dottrina della Fede, con 470 voti su 700 votanti. Ma questa prima vittoria delle dottrine ultramontane che egli rappresentava lo trovò pure condiscendente nei confronti della minoranza di prima. In una lettera a un ecclesiastico rimasto in Francia, scrisse: «Non sarebbe stato senza vantaggio se nelle prime commissioni fossero stati nominati alcuni teologi dell'altra parte, come mons. de Grenoble [il vescovo Jacques Ginoulhiac]», con riferimento a quelle della dottrina e della disciplina.

    Relatore della congregazione generale dello schema su "Fede e Ragione", confidò alla madre che gli era stato detto che la sua presentazione era stata ascoltata con simpatia da tutti e che «i vescovi di quasi tutte le sfumature [lo avevano] complimentato»x. Non c'è da stupirsi che la costituzione Dei Filius, che conteneva questo schema, sia stata approvata all'unanimità dall'assemblea.

    Nello stesso giorno di questa approvazione, a causa dell'aggravamento della situazione internazionale e delle minacce di guerra, 150 Padri conciliari riuniti dal futuro cardinale Manning, arcivescovo di Westminster, grande capo della corrente ultramontana nei paesi anglofoni, presentò al Papa un postulato per la più pronta introduzione della questione dell'infallibilità del Romano Pontefice. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il vescovo Pie non risultava tra i firmatari di questa petizione. Egli non era un esagitato, come a volte vengono dipinti gli ultramontani, di cui tuttavia era il paladino nell’ambito della lingua francese. La sua moderazione è sorprendentemente evidente dalla spiegazione che diede in un secondo momento ai sacerdoti della sua diocesi, in cui riconobbe l'importanza di tale questione, ma sostenne che «non ogni Concilio debba disciplinare ogni controversia e definire ogni dottrina» e che, nell'ordine logico delle materie che costituivano il programma conciliare, non fosse arrivato il turno dell'infallibilità , poiché non si era ancora discusso la seconda parte dello schema di De Fide sulla grazia, il peccato originale e la Redenzione, già scritto quasi integralmente. Solo dopo questa grande sintesi dogmatica, ci si sarebbe dovuti avvicinare al capitolo sulla Chiesa e sul Sommo Pontefice, affinché la questione dell'infallibilità trovasse la sua collocazione naturale. Infine, credeva ufficialmente che i suffragi che i Padri conciliari gli avevano accordato all'interno della Commissione sulla Fede gli consigliasse di fare questa riserva «in vista del fatto che sarei stato probabilmente chiamato ad intervenire personalmente nell'introduzione della causa, cosa che effettivamente accade»[x]i.

    Interessa, ai nostri fini, citare il seguente commento del suo biografo: «Ci si stupisce che egli non facesse parte di nessun gruppo militante e che, accessibile a tutti, avesse l’abitudine di osservare i diversi spiriti e le loro variegate sfumature, studiando ciascuno di essi ed evitando di farli scontrare con partiti presi e con volontà preconcette, pur tuttavia restando molto fermo nei confronti dei vescovi che si erano costituiti capi dell'opposizione. Il suo entourage e i suoi amici avrebbero voluto che guidasse la maggioranza; ma si astenne da ogni ingerenza personale come trattandosi di una incomprensione dello spirito della Chiesa»[xi]i.

    Ciò nonostante, mons. Pie non tardò a riconoscere l'urgenza di affrontare l'infallibilità per non lasciare la questione nello stato tumultuoso provocato dalle polemiche accese dalla minoranza gallicana-liberale, la quale si affrettò a protestare, per voce di 67 vescovi, contro un possibile cambio di programma delle discussioni.

    In considerazione del fatto che cinquecento vescovi si erano uniti nella richiesta di trattare la questione, Pio IX ordinò la distribuzione dello schema sull'infallibilità il 9 maggio 1870. I ventiquattro membri della Commissione sulla Fede chiesero a mons. Pie di fare la relazione su questo nuovo argomento da deliberare; cosa che fu fatta quattro giorni dopo, alla congregazione generale. A nome della Commissione, egli si scusò per aver dovuto presentare una relazione fuori dagli schemi, ma impostasi dalla passione con cui l'opinione pubblica stava affrontando l'argomento. Dopo aver illustrato i primi tre capitoli sul potere pontificio, abbordò il quarto sull'infallibilità, corollario logico e obbligato del magistero supremo e universale che il Papa detiene, concludendo con queste rassicuranti parole rivolte ai Padri conciliari: «Senza dubbio, lo schema che vi viene proposto non è giunto alla sua perfezione. Perciò la Commissione da voi incaricata non ha desiderio più grande che vedere da voi perfezionata l'opera solo abbozzata»[xii]i.

    In trentaquattro congregazioni generali e particolari - ogni mattina e pomeriggio - il tema fu affrontato in tutti i suoi aspetti, sia dagli "infallibilisti" ultramontani che dagli "anti-infallibilisti" e dagli "inopportunisti". I gallicani, infatti, continuavano a sostenere che l'infallibilità della Chiesa non poteva poggiare solo sulla persona del Papa, ma richiedeva l'accordo del Papa e del Concilio. I cattolici liberali, dal canto loro, affermavano di non opporsi alla tesi dell'infallibilità personale del Papa, ma di ritenere inopportuno proclamare questo dogma perché il suo carattere "assolutista" avrebbe potuto offendere lo spirito democratico del mondo moderno. Temevano anche che gli ultramontani avrebbero esteso retrospettivamente l'infallibilità papale al Sillabo, che aveva condannato i loro piani di una "cristianizzazione del liberalismo".

    Approfittando della sua influenza, mons. Pie si fece dare tutti i discorsi pronunciati, specialmente quelli degli avversari e ne prese nota per adeguare la sua posizione. A volte lasciava trasparire la sua tristezza, dicendo: «ci si stupisce nel vedere come anche gli uomini di Chiesa giudichino le cose esclusivamente dal punto di vista umano»xiv.

    La minoranza lottava per prolungare indefinitamente i dibattiti. Il 4 luglio 1870 fu inviato da Parigi un telegramma a un membro del Concilio con queste parole: «Attende qualche giorno, la Provvidenza vi manderà un aiuto inaspettato». Era la guerra (ndt, la guerra Franco-prussiana) già ritenuta inevitabile nelle alte sfere del governo francese, che avrebbe causato il rinvio dell'assemblea conciliare a tempo indeterminato.

    Ma il telegramma arrivò troppo tardi. Il giorno prima e quello stesso 4 luglio, un totale di cinquantasei oratori avevano rinunciato a parlare, quindi la discussione fu chiusa. Diversi esponenti della minoranza lasciarono Roma e il 13 luglio la Congregazione generale approvò l'intero schema con 451 placet, 88 non placet e 62 placet juxta modum, cioè con riserva di apportarvi miglioramenti. Alcuni nella maggioranza volevano una definizione ancora più chiara e gli oppositori proponevano di inserire che, per essere infallibile, il Papa doveva fare affidamento sulla testimonianza delle Chiese: nixus testimonio Ecclesiarum, che avrebbe subordinato l'inerranza papale all'assenso dei vescovi.

    L'esito dell’iniziativa fu opposta: «La maggioranza ha quindi sottolineato maggiormente il significato delle frasi contraddette», racconta mons. Pie, «e, di fronte a queste minacce dall'interno e dall'esterno, la Chiesa ha comunque affermato la sua Costituzione». Nel canone IV si aggiungeva che il Papa aveva, non già la maggior parte, potiores partes, ma tutta la pienezza del supremo potere. Parimenti, il paragrafo dogmatico del capitolo quarto si completava con queste parole: «(le) definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per sé stesse, e non per il consenso della Chiesa»xv.

    Il 18 luglio 1870, l'infallibilità del Papa così intesa e precisata fu solennemente proclamata all'unanimità dai Padri conciliari presenti, meno due, uno dei quali andò a deporre il suo atto di fedeltà ai piedi di Pio IX la sera stessa e l'altro all’indomani. La maggior parte degli oppositori si astenne dalla seduta. Il 19 luglio, così come predetto dal misterioso telegramma da Parigi, iniziò la guerra franco-prussiana e due mesi dopo i piemontesi entrarono a Roma, imprigionando in Vaticano Pio IX e rendendo in questo modo impossibile la prosecuzione dell’assise conciliare, che fu sospesa sine diae.

    Una testimonianza eloquente del temperamento pacificatore di mons. Pie la diede mons. Xavier de Mérode. Questo ex soldato di una famiglia principesca belga aveva preso gli ordini sacri e organizzato i famosi Zuavi per la difesa dello Stato Pontificio. Sebbene fosse un amico personale del vescovo di Poitiers, proveniva da un ambiente liberale ed era parte della minoranza. Il giorno dopo la proclamazione del dogma e mentre mons. Pie era già in treno, salì sulla sua carrozza e dopo aver pregato l'entourage di lasciarli soli, i due avversari dottrinali ebbero un lungo colloquio bagnato di lacrime. Mons. Pie dimostrò la stessa benevolenza nei confronti di tutti i membri della minoranza facendo registrare dal settimanale diocesano di Poitiers le adesioni e sottomissioni che poi indirizzava al Sommo Pontefice. Attraverso i suoi personali sforzi caritatevoli, ottenne anche la sottomissione in articulo mortisdi padre Alphonse Gratry, le cui opere anti-infallibiliste erano state una delle armi più potenti della stampa liberale contro le dottrine ultramontane. Questi atteggiamenti caritatevoli avevano in mons. Pie una sorgente dottrinale: a differenza delle tendenze gianseniste dei gallicani, aveva assistito il cardinale-arcivescovo di Reims, mons. Thomas Gousset, nell'importare dall'Italia il "liguorismo", questa dottrina morale teorizzata da sant'Alfonso de’ Liguori che, invece di un Dio terribile promuoveva un Dio di amore e di fiducia.

    Una volta ottenuta la vittoria della verità sugli errori liberali e gallicani, il campione francese dell'ultramontanismo non si lasciò trascinare esagerando la portata della definizione conciliare, rendendo il Papa infallibile anche nel suo magistero ordinario o quello non riguardante le questioni di fede e di morale?

    Il futuro cardinale Pie sarebbe rimasto sorpreso davanti a una tale domanda giacché conosceva molto bene la debolezza umana e sapeva che l'assistenza divina veniva promessa solo a condizioni molto ristrette: «L'assistenza garantitagli dall'alto [al Papa] non è né ispirazione né scienza infusa. Il suo compito è quindi quello di non trascurare nessuno degli elementi naturali e soprannaturali che possono aiutare il trionfo della verità e l'opera della grazia. Uno di questi elementi è lo studio, il consiglio, la discussione, la messa in comune di tutte le conoscenze e di tutte le esperienze. (…) Prima di pronunciare il suo giudizio, non è da trascurare l’esempio che il Capo della Chiesa diede chiedendo per iscritto i sentimenti dei suoi fratelli dispersi su tutta la faccia del globo e incentivando le deliberazioni orali di tutti coloro che poté raccogliere intorno a sé. È in queste condizioni che Pio IX pubblicò la bolla dogmatica che definisce l'Immacolata Concezione di Maria». Donde la convenienza dei Concili: «Ciò che il linguaggio teologico più moderno chiama insegnamento ex cathedra del Papa, nelle epoche precedenti era chiamato il papa che parla con consiglio: papa loquens cum consilio»xvi.

    Mons. Pie era anche ben consapevole del fatto che l'infallibilità pontificia non coprisse il magistero ordinario del Pontefice, ma che, persino nei confronti del suo magistero straordinario, non s’imponeva ai fedeli l'assenso se non sulle sentenze dogmatiche: «Infatti, la teologia ammette che gli atti dottrinali più solenni del magistero della Chiesa, se si impongono all'intelligenza e alla fede dei cristiani per quanto riguarda la decisione finale che essi emanano, restano ancora nell'ambito della controversia per quanto riguarda i preliminari e le considerazioni sulla decisione". Da allora in poi, la suprema magistratura «forte della sua infallibilità quanto all'essenza delle cose, consegna senza rischio ad un adeguato e rispettoso esame tutto ciò che non è oggetto di tale privilegio»xvii.

    Voglia il lettore scusarmi dall’aver largamente superato i limiti di un normale articolo, ma ci è sembrato necessario ripristinare la vera fisionomia intellettuale e morale di colui che fu chiamato a suo tempo "il martello del liberalismo", come Saint Hilaire de Poitiers lo fu dell’arianesimo.

    Se questa fu la grande figura dell’indiscusso paladino dei prelati ultramontani francesi al tempo del Concilio, non si può che naturalmente concludere che «lo spirito del Vaticano I» fu uno spirito intriso di amore soprannaturale per la verità tradizionale e, quindi, uno spirito oggettivo, prudente, equilibrato e sfumato, anche nel vivo della polemica. Pertanto, non c'è nulla da temere da un «ultramontanismo estremo», poiché rappresenterebbe solo un grado ancora più alto della saggezza cristiana. Si è ben lungi dalla versione caricaturale fatta dagli oppositori liberali o gallicani e che, per un malinteso, alcuni tradizionalisti non sufficientemente informati oggi riprendono.

    Né lo "spirito del Vaticano I" né l'ultramontanismo sono responsabili della successiva deriva nel senso di una fissazione sulla persona e sul magistero del Papa del momento, a scapito del primato della Tradizione. Questo “magisterialismo” è figlio della corrente liberal-progressista e nasce intorno alla figura di Leone XIII, con l'obiettivo di sostenere la sua controversa politica di “ralliementintorno alla Repubblica”, che si opponeva… agli ultramontani!

    Ma questa è un'altra storia e la lasceremo per un prossimo articolo.

     

    Note

    [i] Vedere al riguardo l’articolo “Operative Points of View,” di don Chad Ripperger, in Christian Order, marzo 2001 (http://christianorder.com/features/feature_2001-03.html).

    [ii] R.P. Lecanuet, L’Eglise et le Second Empire, Paris, Poussièlgue, 1905, p. 430.

    [iii] Mons. Louis Bonard, Histoire du cardinal Pie, vol. II, p. 488.

    [iv] Lettera pastoraledel 14 luglio 1866, in Œuvres de Monseigneur l’évêque de Poitiers, vol. II p. 442-443.

    [v] Ibidem, vol. VI p. 67.

    [vi] Mons. Louis Bonard, op. cit.p. 330-331.

    [vii] Ibidem, p. 331-332.

    [viii] Ibidem, p. 340.

    [ix] Ibidem, p. 355.

    [x] Ibidem, p. 365

    xi Ibidem,p. 375-377.

    [xi]i Ibidem,p. 377-378.

    [xii]iIbidem, p. 384.

    xivIbidem, p. 388.

    xvIbidem, p. 392.

    xviIbidem, Lettre pastorale et Mandement del 24 maggio 1869, in Œuvresvol. VI, p.408-409.

    xviiIbidem, Allocuzione del dicembre 1861, in Œuvresvol. VI, p. 339.

     

    Fonte:Onepeterfive, 12 Ottobre 2021. Traduzione a cura di Tradizione Famiglia Proprietà - Italia

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  • Difendere l’ultramontanismo

     

     

    di José Antonio Ureta

    Il direttore di OnePeterFive è stato molto gentile ad invitare a fare osservazioni sull’origine dell’eccessiva sottomissione di molti cattolici agli insegnamenti e alle misure manifestamente errate di papa Francesco.

    Egli afferma che tale atteggiamento deriva da “un falso spirito del Vaticano I” e da quello che lui chiama iperüberultramontanismo. Questa espressione, apparentemente umoristica, sembra essere una qualche barriera anti-polemica. 

    In effetti, la testata dell’articolo (vedi foto d’apertura) mostra una tiara pontificia con sovrapposta la dicitura “L’ultramontanismo e il falso spirito del Vaticano I”. L’assenza del prefisso precauzionale hyperüber è stata forse una svista, ma è comunque rivelatrice.

    Accetto l’invito ed  inizio col dire che condivido l’osservazione fatta da Peter Kwasniewski in un articolo recente dove chiarisce che limitarsi al “magistero del momento” è contrario all’insegnamento della Chiesa. Significa ignorare la Scrittura e la Tradizione e accettare le novità non infallibili del papa e dei vescovi attuali come l’unico modo per conoscere la verità. Sono pienamente d’accordo con il suo uso di magisteriale e iperpapalista per designare quei cattolici che adottano questa obbedienza adulterata. 

    Mentre in passato usava “ultramontanismo” per riferirsi a tali cattolici, adesso non lo fa più.

    L’anno scorso, ho scritto due articoli su OnePeterFive (qui e qui) e uno su Rorate Caeli per affrontare l’errata caratterizzazione tradizionalista dell’ultramontanismo. Ho dimostrato tre cose:

    (1) Il futuro cardinale Edouard Pie, il capo più in vista degli ultramontani francesi durante il Concilio Vaticano I, aveva una concezione molto equilibrata sia della monarchia papale che dei limiti dell’autorità magistrale e di governo del Romano pontefice;

    (2) la richiesta abusiva che i fedeli aderissero senza restrizioni agli insegnamenti e agli atti di governo non infallibili di un papa regnante proveniva dalla corrente liberale durante il pontificato di Leone XIII, che chiedeva ai cattolici francesi monarchici di accettare la Repubblica massonica secolare del loro paese; e,

    (3) I papi più vicini alla corrente liberale – Benedetto XV, Pio XI e i papi conciliari – hanno aggravato quell’abuso per tutto il XX secolo. Il processo è culminato con il totalitarismo dell’attuale pontefice, che portò Henry Sire a chiamarlo, con molta scaltrezza, The Dictator Pope – Il Papa dittatore.

    A sua volta, il prof. Roberto De Mattei ha scritto un articolo che si inserisce nel contesto della controversia tra ultramontani da una parte e gallicani e liberali dall’altra. Ha fatto vedere come il Beato Pio IX sostenesse pienamente l’ultramontanismo. Ha citato due esempi che evidenziano quanto fosse equilibrata la corrente ultramontana. La prima è stata una dichiarazione dei vescovi tedeschi. Hanno reso evidente come il magistero del papa e dei vescovi «è ristretto ai contenuti del magistero infallibile della Chiesa in generale, ed è ristretto ai contenuti della Sacra Scrittura e della tradizione» (Denz.-H 3116). La seconda era una dichiarazione del cardinale Manning, citata da Michael Davies: “L’infallibilità non è una qualità inerente a una persona, ma un’assistenza collegata a un ufficio”. [1]

    Infine, il prof. de Mattei ha evidenziato il paradosso dell’adozione, da parte di alcuni settori del tradizionalismo, dell’ostilità verso l’ultramontanismo mostrata dal teologo domenicano Yves Congar. Egli è stato uno dei principali artefici del Concilio Vaticano II e, nel suo diario conciliare, si scagliò contro quella che definì la “sventurata ecclesiologia ultramontana”. [2] Il 9 dicembre 1962, scriveva, «tutto ciò che si fa per convertire l’Italia dall’ultramontanismo politico, ecclesiologico o devozionale al Vangelo, lo si guadagna anche per la Chiesa universale». [3]

    Solo se i dati storici forniti nell’articolo del noto storico e nei miei tre sono falsi, sarebbe legittimo continuare ad incolpare la corrente ultramontana per l’accettazione ingiustificata degli errori dell’attuale papa nell’insegnamento e nel governo della Chiesa. 

    Non di meno, è sbagliato farlo se i fatti sono veri. 

    Pertanto, coloro che attribuiscono agli ultramontani l’odierna ossequiosità iperpapalistica, devono prima confutare gli articoli del prof. de Mattei ed i miei. Dovrebbero fornire dati storici più conclusivi di quelli che abbiamo presentato.

    Ciò non è accaduto finora. Nessuno ha confutato quello che abbiamo scritto io e il Prof. de Mattei.

    Attiro l’attenzione su questa incoerenza e chiedo agli anti – iperüberultramontani di essere intellettualmente onesti. Devono confutare ciò che abbiamo scritto io e il Prof. de Mattei oppure smettere di caratterizzare erroneamente l’ultramontanismo. Inoltre, dovrebbero ammettere che la storia mostra che il magisterismo e l’iperpapalismo sono i frutti spuri della corrente cattolica liberale, che ricorre all’autoritarismo per imporre i suoi errori.

    Invito i nostri amici tradizionalisti anti-ultramontani a un dibattito di livello più elevato.

     

    Note

    [1] Michael Davies, Pope John’s Council (Chawleigh, Chulmleigh [Devon]: Augustine Publishing Company, 1977, 175.

    [2] Yves Congar, Il mio diario del Consiglio, trad. Mary John Ronayne e Mary Cecily Boulding (Adelaide, Australia: ATF Press, 2012), 485.

    [3] Ibid., 247.

     

    Fonte: Stilvm Curiae – Marco Tosatti, 22 giugno 2022. Traduzione a cura di Vincenzo Fedele. Articolo originale apparso su OnePeter5 il 20 Giugno 2022.

  • Il modernismo, non l'ultramontanismo, è la "sintesi di tutte le eresie"

    Il seguente articolo è stato presentato a Rorate Caeli da José Antonio Ureta, co-fondatore della Fundación Roma(Cile) e consulente del progetto pro-vita e pro-famiglia Acción Familia. Studioso presso la Société Française pour la Défense de la Tradition, Famille et Propriété (Parigi), è autore di “Il cambio di Paradigma di Papa Francesco: continuità o rottura nella missione della Chiesa?” (Spring Grove, PA, 2018). Lo pubblichiamo nell'interesse di una discussione aperta su temi di grave importanza nella Chiesa.

     

     Apertura sessione Concilio Vaticano I, Incisione del 1870, BNE, La Ilustración Española y Americana (Manuel M. V.CC BY 2.0)

     

    di José A. Ureta

    Nei circoli tradizionalisti americani sta diventando di moda incolpare l'"ultramontanismo" per i mali che colpiscono il cattolicesimo oggi. Si suppone che Papa Francesco sia in grado di imporre un'agenda rivoluzionaria alla Chiesa a causa delle azioni degli ultramontani durante il Concilio Vaticano I. I detrattori di quest’ultimi ammettono che questi hanno trasformato in dogma l'insegnamento tradizionale della Chiesa sull'infallibilità papale e la giurisdizione universale, ma continuano a sostenere, in modo sbagliato, che gli ultramontani hanno corrotto l'obbedienza dei fedeli al papa in ossequio, avendo avvolto la sua persona in un'aura di esagerata venerabilità. Questo sviluppo avrebbe portato ad una centralizzazione e conseguente abuso di potere nella Chiesa. Per evitare la "papolatria" alimentata dagli ultramontani, alcuni autori suggeriscono di ripensare il papato nei termini del primo millennio, prima di San Gregorio VII, per quanto riguarda la nomina dei vescovi e l'esercizio del potere magisteriale del papa.[1]

    Questa accusa è apparsa recentemente in un articolo di Stuart Chessman intitolato "Ultramontanismo: la sua vita e la sua morte". Secondo l'autore, un certo "spirito del Vaticano I" ha portato le persone a interpretare le definizioni dogmatiche di quel Concilio ben oltre i limiti imposti dal testo. Ciò avrebbe inaugurato un "regime ultramontano" in cui "tutta l'autorità in materia di fede, organizzazione e liturgia venne centralizzata in Vaticano" e "l'obbedienza all'autorità ecclesiastica fu elevata ad una posizione centrale nella fede cattolica" con una corrispondente diminuzione dell'autorità episcopale. Un vescovo della corrente minoritaria anti-infallibilista commentò ironicamente: "Sono entrato (al Vaticano I) come vescovo e sono uscito come sacrestano".

    Il Trattato del Laterano e la creazione dello Stato del Vaticano, così come le nuove tecnologie di comunicazione, avrebbero aumentato l'importanza di questo elemento "ultramontano" nella vita della Chiesa. Tutto ciò ha avuto alcuni vantaggi - "si raggiunse una grande uniformità di credo e di pratica" - ma anche gravi inconvenienti, in primo luogo la burocratizzazione della Chiesa e la sua inevitabile conseguenza: mediocri vescovi manager che hanno smesso di essere "guide spirituali" capaci di convertire il mondo. Questa "strategia difensiva", "finalizzata all'unità a blocchi, al controllo centralizzato e alla subordinazione assoluta ai superiori", ebbe come risultato "un revival del cattolicesimo progressista". Quest'ultimo sarebbe nato "come [un sentimento di] frustrazione per la timida natura 'borghese' della testimonianza cattolica ultramontana e l'eccessiva conformità della Chiesa a questo mondo", e come reazione alle "restrizioni al discorso cattolico".

    Secondo la narrazione del signor Chessman, l'"ultramontanismo" si alleò in seguito a "forze progressiste interne" che si materializzarono al Concilio Vaticano II. Egli arriva ad affermare che: "La gestione del Concilio e la sua successiva attuazione furono veramente il più grande trionfo dell'ultramontanismo". I cambiamenti rivoluzionari imposti da Paolo VI incontrarono poca resistenza perché "i costumi e le tradizioni della Chiesa avevano probabilmente perso la loro presa su gran parte del mondo cattolico attraverso la comprensione ultramontana dell'obbedienza all'autorità e dell'aderenza alle regole legali come fonte della loro legittimità."

    A causa della crescita della corrente progressista – continua la narrazione - gli ultramontani non riuscirono a consolidare l'autorità del Romano Pontefice all'indomani del Vaticano II e in particolare dopo il rifiuto dell'enciclica Humanae Vitae. Tuttavia, Giovanni Paolo II intraprese un "revival neo-ultramontano" che enfatizzava l'infallibilità papale e trasformava il papa in una "specie di avvocato spirituale del mondo". A livello interno, tuttavia, e in particolare sotto Benedetto XVI, "il Vaticano funzionava sempre più come un mero centro amministrativo", portando la burocratizzazione della Chiesa ancora più in là e trasformandola in una "cloaca di carrierismo, incompetenza e corruzione finanziaria".

    L'elezione di Papa Francesco avrebbe comportato "un ritorno all'agenda progressista degli anni '60 insieme a un radicale revival dell'autoritarismo ultramontano". Usando "il linguaggio e le tecniche dell'ultramontanismo", il papa argentino "pone l'unità della Chiesa e l'inviolabilità del Concilio come valori assoluti" per ridurre al silenzio e opprimere i tradizionalisti. Quindi, "veramente il regime di Francesco può essere chiamato ultramontanismo totalitario!".

    In breve, per tali critici tradizionalisti, tutti i mali di cui soffre ora la Chiesa derivano dagli ultramontani, il cui grande errore fu quello di aver cercato "di raggiungere obiettivi spirituali attraverso l'applicazione di tecniche organizzative". Paradossalmente, l'ultramontanismo alla fine avrebbe raggiunto l'opposto di quanto si era proposto: "Un insieme di politiche che avrebbero dovuto assicurare la dottrina della Chiesa dai nemici interni e preservare la sua indipendenza dal controllo secolare ha invece facilitato la più grande crisi di fede nella storia della Chiesa insieme alla sua più abietta sottomissione al "potere temporale" - non quello dei monarchi come in passato, ma dei media, delle banche, delle ONG, delle università e, sempre più, dei governi "democratici" (inclusa la Cina!)".

    Da quanto riportato sopra, si potrebbe quasi dire che il "misterioso processo di autodemolizione" della Chiesa dovuto all'infiltrazione del "fumo di Satana", di cui parlava Paolo VI, nacque, si sviluppò e raggiunse il suo apice grazie all'ultramontanismo, la nuova sintesi di tutti i mali! Quale potrebbe essere la via d'uscita da questa crisi? L'autore dice che "l'uscita dal vicolo cieco ultramontano/progressista" richiede un tradizionalismo anti-ultramontano perché non si regge "sull'autorità del clero" ma "sull'impegno individuale dei laici" alla "pienezza della tradizione cattolica", nel rispetto della "libertà di coscienza del singolo credente".

    La costruzione intellettuale del signor Chessman soffre di due difetti. In primo luogo, egli attribuisce l'origine dell'attuale crisi della Fede a fattori puramente naturali - il modo in cui il potere papale è strutturato ed esercitato. La verità è che essa deriva da una crisi morale e religiosa che si è aggravata in tutto l'Occidente a partire dal Rinascimento e dal Protestantesimo, come il Prof. Plinio Corrêa de Oliveira ha acutamente analizzato in Rivoluzione e Controrivoluzione.[2]. Secondo, la teoria del sig. Chessman è antistorica.

    In articoli recenti, ho trattato brevemente l'errore che esiste nell'attribuire alla corrente ultramontana e a un cosiddetto "spirito del Vaticano I" l'espansione dell'autorità magisteriale e disciplinare del papa oltre i limiti stabiliti dalla costituzione dogmatica Pastor Aeternus.

    Nel primo articolo[3] ho mostrato come il massimo rappresentante dell'ultramontanismo, il cardinale Louis-Edouard Pie, avesse un concetto perfettamente equilibrato e non assolutista della monarchia papale e fosse un grande sostenitore dei concili provinciali e plenari. Nel secondo articolo [4] ho mostrato che Papa Leone XIII - ortodosso in dottrina ma liberale in politica - fu colui che iniziò ad esigere che i laici cattolici aderissero incondizionatamente al suo "Ralliement", sostenendo il regime repubblicano e massonico della Francia. Quelli che applaudivano all'imposizione dell'obbedienza incondizionata in materia politica erano i rappresentanti della corrente liberale che si era opposta alle definizioni dogmatiche del Vaticano I. Uno di questi prelati liberali, il cardinale Lavigerie, arrivò ad affermare: "L'unica regola di salvezza e di vita nella Chiesa è stare con il papa, con il papa vivente. Chiunque egli sia". Ho inoltre dimostrato che i rappresentanti dell'Ultramontanismo erano quelli che resistevano a quell'estensione abusiva dell'autorità e dell'obbedienza papale oltre i limiti definiti. Erano talmente consapevoli di questi limiti che, ancora nel XIX secolo, uno di loro sollevò la questione della possibilità teologica di un papa eretico.

    San Pio X fu un papa ultramontano e un grande ammiratore del cardinale Pie. Gli scritti del prelato francese lo ispirarono a scegliere "instaurare omnia in Christo" come motto del suo pontificato. Certo, Pio X esigeva piena obbedienza in materia di Fede e fu fermo nel denunciare e reprimere l'eresia. Scomunicò i leader modernisti e impose il giuramento antimodernista. Tuttavia, non abusò dell'autorità papale né cercò di imporre un pensiero uniforme in questioni in cui i cattolici hanno il diritto di formarsi un'opinione personale. Persino scusò i fratelli Scotton, proprietari di un giornale antimodernista, per il loro zelo nell'opporsi al cardinale Ferrari, arcivescovo di Milano, affermando che avevano usato un linguaggio eccessivo perché "per difendersi, stanno usando le stesse armi con cui sono stati colpiti."[5]

    Con il plauso della corrente liberale, i papi non ultramontani richiesero successivamente ai fedeli di obbedire alla loro agenda di stretta pacificazione con i poteri politici rivoluzionari. Questo iniziò con Benedetto XV. Nella sua prima enciclica (Ad Beatissimi Apostolorum), mise a tacere coloro che difendevano l'adesione senza riserve agli insegnamenti della Chiesa e la loro applicazione nella società, etichettandoli come "integralisti". Lo fece "per sedare i dissensi e le lotte di qualsiasi tipo tra i cattolici e impedire che ne sorgano di nuovi, affinché tutti siano uniti nel pensiero e nell'azione".

    A tale fine, tutti dovevano allinearsi alla Santa Sede:

    “Ogni volta che la legittima autorità ha dato un chiaro comando, nessuno trasgredisca quel comando, perché non gli capita di commuoversi; ma ciascuno sottoponga la propria opinione all'autorità di colui che è il suo superiore, e gli obbedisca come una questione di coscienza. Ancora, nessun individuo privato, sia nei libri che nella stampa o nei discorsi pubblici, prenda su di sé la posizione di un autorevole maestro nella Chiesa. Tutti sanno a chi è stata data da Dio l'autorità di insegnamento della Chiesa: egli, quindi, possiede un perfetto diritto di parlare come vuole e quando lo ritiene opportuno. Il dovere degli altri è di ascoltarlo con riverenza quando parla e di eseguire ciò che dice” [6].

    Erano ammesse opinioni divergenti in materie diverse dalla fede e dalla morale, come l'azione politica laica cattolica o l'approccio giornalistico da adottare nei confronti del modernismo, purché il papa non avesse dato la propria linea: “Riguardo poi a quelle cose delle quali — non avendo la Sede Apostolica pronunziato il proprio giudizio — si possa, salva la fede e la disciplina, discutere pro e contro, è certamente lecito ad ognuno di dire la propria opinione e di sostenerla.”[7] Un'applicazione pratica di questa restrizione al dibattito fu sottomettere il giornale di proprietà dei fratelli Scotton allo stretto controllo del vescovo di Vicenza, invertendo la loro libertà di opinione che San Pio X aveva garantito [8].

    Il successore di Benedetto XV, Pio XI - che apparteneva alla stessa corrente non-ultramontana - arrivò a scomunicare gli abbonati del giornale monarchico Action Française a causa delle opinioni agnostiche del suo direttore Charles Maurras [9]. (Sarebbe come se Papa Francesco scomunicasse i lettori di Breitbart o Fox News per aver sostenuto le politiche anti-immigrazione). Tolse persino il cappello cardinalizio al gesuita Louis Billot, uno dei più grandi teologi del ventesimo secolo, per aver espresso opposizione a quel provvedimento [10].

    […]

    Colui che mise in guardia sul pericolo di una "strumentalizzazione" del Magistero non fu un liberale anti-ultramontano ma una figura di spicco della Scuola Romana (la roccaforte di ciò che restava dell'ultramontanismo nel mondo accademico). In un articolo pubblicato su L'Osservatore Romano il 10 febbraio 1942, mons. Pietro Parente denunciava "la strana identificazione della Tradizione (fonte della Rivelazione) con il Magistero vivente della Chiesa (custode e interprete della Parola divina)" [11]. Se Tradizione e Magistero sono la stessa cosa, allora la Tradizione cessa di essere il deposito immutabile della Fede e varia secondo l'insegnamento del papa regnante.

    Tutto ciò dimostra che incolpare l'ultramontanismo dell’errore d’identificare la Tradizione con il Magistero vivente e di voler imporre un pensiero uniforme in questioni non dogmatiche è storicamente fuori luogo. È stata la corrente liberal-progressista a farlo. Coloro che sostenevano di essere gli eredi dell'ultramontanismo resistettero a lungo in questo periodo ai tentativi di costringerli ad accettare la politica liberale del papa di mano tesa al mondo.

    Il centralismo e l'autoritarismo ora imputati all'ultramontanismo non erano un frutto del Vaticano I o del suo cosiddetto "spirito", bensì il frutto del liberalismo infiltrato nella Chiesa. Come spiega Plinio Corrêa de Oliveira: "Il liberalismo non è interessato alla libertà per il bene. È interessato solo alla libertà per il male. Quando è al potere, limita facilmente e il più possibile, persino con gioia, la libertà per il bene. Ma in molti modi, protegge, favorisce e promuove la libertà per il male"[12]. Proprio come i liberali denunciarono "la Bastiglia" prima della Rivoluzione francese, ma imposero il Terrore una volta al potere, i liberali cattolici e i modernisti denunciarono il presunto autoritarismo del Beato Pio IX e di San Pio X. Tuttavia, non appena essi presero le più alte posizioni nella Chiesa, imposero una rigida obbedienza al loro programma di abbracciare il mondo anche in questioni strettamente politiche che non riguardavano materia di Fede e Morale.

    Un'altra inesattezza storica del signor Chessman è la presunta alleanza tra ultramontanismo e progressismo al Concilio Vaticano II. Giuseppe Angelo Roncalli non era un ultramontano ma, in gioventù, un simpatizzante del modernismo. Aprendo l'assemblea conciliare, Giovanni XXIII scorticò i "profeti di sventura", riferendosi proprio agli ultramontani. Tutti gli storici di quel Concilio ritengono che ci fu uno scontro tra la minoranza progressista e quella conservatrice, con la prima che riuscì gradualmente a tirare dalla sua parte la vasta maggioranza moderata. La manciata di prelati dallo spirito ultramontano, riuniti nel Coetus Internationalis Patrum, furono quelli che più lavorarono per includere nei testi conciliari le verità tradizionali opposte alle novità moderniste. Il beato Pio IX deve essersi rivoltato nella tomba mentre il Vaticano II approvava l'introduzione di una "doppia" autorità suprema nella Chiesa, implicita nella teoria della collegialità. Come si può pretendere che "la gestione del Concilio e la sua successiva attuazione siano state veramente il più grande trionfo dell'ultramontanismo"?

    Non c'è dubbio che il pontificato di Giovanni Paolo II fu un primo tentativo di dare alle novità del Concilio un'interpretazione moderata sulla falsariga di quella che fu poi definita "ermeneutica della continuità". I suoi sostenitori hanno difeso questa posizione moderata appellandosi principalmente all'immagine mediatica di celebrità del pontefice romano (P. Chad Ripperger lo ha chiamato "magisterialismo" [13]). Tuttavia, non ha senso caratterizzare questa offensiva moderata come un "revival ultramontano". Giovanni Paolo II è l'autore di Ut Unum Sint. Questa enciclica intendeva "trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova” cercando di esaudire “l'aspirazione ecumenica della maggior parte delle Comunità cristiane” [14]. Questa aspirazione era esattamente l’opposto di quanto avevano ottenuto gli ultramontani nel Concilio Vaticano I: il dogma del primato di giurisdizione del papa - che le comunità cristiane eretiche e scismatiche rifiutano.

    Come prima accennato, uno degli errori dell'articolo del signor Chessman è quello di attribuire l'origine dell'attuale crisi della Fede ad un fattore puramente naturale: l'esercizio burocratico e centralizzato dell'autorità papale. La crescente centralizzazione del potere papale nelle mani di papi non-ultramontani e persino anti-ultramontani (Leone XIII, Benedetto XV, Pio XI, e dei papi conciliari) non è la ragione per cui la crisi della Fede si è aggravata alla fine del XIX secolo e per tutto il XX secolo. La crisi è derivata ed è stata aggravata dalla penetrazione dei putrefatti miasmi liberali del mondo nella Chiesa cattolica. La mentalità della modernità è nata dalla rivoluzione anticristiana e ha iniziato a dominare la vita culturale, intellettuale e politica dell'Occidente dal Rinascimento in poi. La Chiesa fu spinta ad adattarsi al nuovo mondo emergente, soprattutto a partire dal XIX secolo. "Non si tratta di scegliere tra i principi del 1789 e i dogmi della religione cattolica", esclamò il duca Albert de Broglie, uno dei leader del blocco cattolico liberale, "ma di purificare i principi con i dogmi e far camminare entrambi fianco a fianco. Non si tratta di confrontarsi in un duello, ma di fare la pace."[15].

    Tale infiltrazione di errori rivoluzionari nella Chiesa raggiunse il suo culmine con il modernismo, il quale professa che i dogmi della Fede devono adattarsi all'esperienza religiosa in evoluzione dell'umanità e che il culto debba evolversi secondo gli usi e i costumi di ogni epoca. Pio IX e Pio X emisero condanne esplicite contro ogni tentativo di conciliare la Chiesa con gli errori moderni. Esortarono i cattolici ad affrontare coraggiosamente quella che San Pio X chiamò "la sintesi di tutte le eresie". Questa opposizione li rese modelli di un papato ultramontano. Tuttavia, i loro successori furono meno energici e persino concilianti. Con Giovanni XXIII e l'apertura del Concilio Vaticano II, la posizione ultramontana e antiliberale di lotta contro la modernità e i suoi errori fu ufficialmente abbandonata e sostituita da un atteggiamento di benevolo dialogo e sottomissione al mondo moderno.

    Come i modernisti del ventesimo secolo, Papa Francesco cerca apertamente di adattare la Chiesa ai "cambiamenti antropologici e culturali". Secondo lui, l'impulso divino presente nel progresso dell'umanità giustifica i cambiamenti di oggi. Egli attribuisce questi impulsi e le nuove dinamiche dell'azione umana all'azione divina: "Dio si manifesta nella rivelazione storica, nella storia.... Dio è nella storia, neiprocessi"[16], afferma. Aveva ragione Eugenio Scalfari, l'agnostico fondatore de La Repubblica, quando titolava il suo articolo sulla Laudato Si': “Francesco Papa Profeta che incontra la Modernità[17]". Gli applausi dei leader moderni per le dichiarazioni e le iniziative dell'attuale papa confermano questa valutazione.

    Il papa attuale e alcuni predecessori hanno abusato dell'autorità papale per portare avanti l'agenda modernista di riconciliare la Chiesa con il mondo rivoluzionario. Questo non li rende papi ultramontani. I prelati carrieristi che hanno gestito le loro diocesi come mediocri funzionari pubblici ignorando l'infiltrazione di errori modernisti tra i fedeli - errori con i quali simpatizzano - non sono stati neppure loro ultramontani. I chierici e i fedeli che hanno sposato gli errori modernisti non l’hanno fatto per un falso concetto di obbedienza, bensì perché impregnati dello spirito liberale e rivoluzionario del mondo.

    […]

    Incolpare l'ultramontanismo per l'attuale crisi della Chiesa e ignorare il ruolo fondamentale del modernismo nella sua gestazione e nel suo cammino verso il parossismo è come incolpare una diga di essere incapace di resistere a un'inondazione, mentre si discolpano le acque spumeggianti e furiose che la stanno stravolgendo.

    […]

    Paradossalmente, un articolo di denuncia del "totalitarismo ultramontano" è apparso per la prima volta sul blog di una società creata per onorare Sant'Ugo di Cluny. Egli fu il grande consigliere dei papi San Leone IX, Nicola II e soprattutto del grande San Gregorio VII. Quest'ultimo, suo confratello cluniacense, elevò l'autorità papale al suo apice. Egli ristabilì la disciplina interna della Chiesa con la riforma gregoriana. Per quanto riguarda l'investitura dei vescovi e degli abati, affermò vittoriosamente la supremazia papale sull'autorità civile. Sant'Ugo era con san Gregorio VII al famoso episodio di Canossa, che gli storici rivoluzionari considerano il punto di partenza dell'ultramontanismo.

    Gli atteggiamenti poco diplomatici del legato di San Leone IX fecero infuriare i greci e favorirono lo scisma d'Oriente. Gli scandalosi stili di vita dei papi rinascimentali fecero infuriare i tedeschi e favorirono l'eresia di Lutero. Oggi, gli insegnamenti palesemente erronei e le azioni a-pastorali di Papa Francesco non devono suscitare una rabbia emotiva nelle sue vittime. Mentre i cattolici possono legittimamente nutrire riserve dottrinali e resistere a un occupante imprevedibile del trono di Pietro, essi non devono mai soccombere alla tentazione di avere riserve sul papato stesso. Queste sono sempre illegittime. Imitiamo i monarchici francesi durante la Restaurazione, che, nonostante la politica liberale di Luigi XVIII - che favoriva bonapartisti e repubblicani e perseguitava i difensori del trono - gridavano: "Vive le roi, quand même!" in altre parole, "Nonostante tutto, lunga vita al re!"

    L'attuale eclissi del papato è probabilmente la più drammatica nella storia bimillenaria della Chiesa. La crisi ci impone di aumentare il nostro amore per questa istituzione terrena, la più santa di tutte. Gesù Cristo l'ha stabilita come chiave di volta della Sua Chiesa e l'ha dotata del potere delle chiavi, il più tremendo e sacro potere che lega il cielo e la terra.

     

    NOTE 

    [1] Eric Sammons,Rethinking the Papacy, Crisis Magazine, 28 settembre 2021.

    [2] Plinio Corrêa de Oliveira, Revolution and Counter-Revolution, terza edizione. (Spring Grove, Penn.: The American Society for the Defense of Tradition, Family, and Property, 1993).

    [3] José Antonio Ureta,Understanding True UltramontanismOnePeterFive, 12 ottobre 2021.

    [4] José Antonio Ureta,Leo XIII: The First Liberal Pope Who Went Beyond His AuthorityOnePeterFive, 19 ottobe 2021.

    [5] Romana beatificationis et canonizationis servi Dei Papae Pii X disquisitio circa quasdam obiectiones modum agendi servi Dei respicientes in modernismi debellationem, Typis poliglottis Vaticanis 1950 (redatta dal cardinale Ferdinando Antonelli), 178, in Roberto de Mattei, “Modernismo e antimodernismo nell’epoca di Pio X”, in Don Orione negli anni del modernismo, 60. 

    [6] Benedetto XV, enciclica Ad Beatissimi Apostolorum, 1 novembre 1914, n°22. 

    [7] Ibid., n° 23.

    [8] Giovanni Vian,Il modernismo durante il pontificato di Benedetto XV, tra riabilitaziioni e condanne.

    [9] Taming the Action—II The DecreeRorate Caeli, 21 gennaio 2012.

    [10] Vedi Peter J. Bernardi, S.J.,Louis Cardinal Billot, S.J. (1846–1931): Thomist, Anti-Modernist, IntegralistJournal of Jesuit Studies, 8, 4 (2021): 585-616.

    [11] Pietro Parente, Supr. S. Congr. S. Officii Decretum 4 febr. 1942 —Annotationes, Periodica de Re Morali, Canonica, Liturgica 31 (Febbraio 1942): 187 [l’originale fu pubblicato come “Nuove tendenze teologiche”, L’Osservatore Romano, 9-10 febbraio 1942].

    [12] Corrêa de Oliveira, Revolution and Counter-Revolution, 52.

    [13] Chad Ripperger,Operative Points of ViewChristian Order (Marzo 2001).

    [14] Giovanni Paolo II, enciclica Ut Unum Sint (25 maggio 1995), n° 95.

    [15] Albert de BroglieQuestions de religion et d’histoire, (Paris: Michel Lévy Frères, 1860), 2:199.

    [16] Antonio Spadaro, S.J.,A Big Heart Open to God: An Interview With Pope FrancisAmerica, 30 settembre 2013.

    [17] Eugenio Scalfari,Francesco, papa profeta che incontra la modernitàLa Repubblica, 1 luglio 2015.

     

    Fonte: Rorate Caeli, 20 Gennaio 2022. Traduzione a cura di Tradizione Famiglia Proprietà – Italia

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