Capitolo IV (cont.)
2. La fermentazione emotiva irenistica.
È necessario situare nel suo contesto ideologico e nel suo quadro psicologico quella tendenza irenistica (32) che analizziamo a proposito dei diversi significati delle parole “dialogo” e “discussione”.
a) Un ordine di cose evoluto e paradisiaco: l'"era della buona volontà"
Quali utopie, quali singolari stati emotivi sono capaci di portare qualcuno ad ammettere come auspicabile e possibile un nuovo ordine di cose, che potremmo chiamare “era della buona volontà”, nella quale gli uomini non discuterebbero né polemizzerebbero più tra loro?
Quest’ordine di cose suppone che, avendo superato gli effetti del Peccato originale in virtù di una vasta evoluzione, e per ciò stesso trovandosi ad essere composto soltanto da “uomini di buona volontà”, il genere umano possa inaugurare uno stile di convivenza nel quale i disaccordi, qualora esistano, vengano eliminati dall’azione chiarificatrice di rapporti privi di combattività.
b) L'era della buona volontà, l'utopismo anarchico inerente al comunismo, e la repubblica universale
Una volta supposta tale evoluzione dell’umanità dallo stato attuale verso questa “era della buona volontà”, i suoi effetti non si limiterebbero solo alla sfera della convivenza privata, ma passerebbero logicamente alla sfera giuridica e perfino politica. Uomini che non sbagliano né intellettualmente né moralmente, o nei quali l’errore è tanto lieve che un chiarimento cordiale li riconduce immediatamente sulla retta via, hanno necessariamente una vita politica senz’attriti né frizioni. Sia le rivoluzioni che i crimini sono impossibili tra loro. Partendo da queste fantasticherie, si apre una nuova prospettiva nelle relazioni giuridiche e, di conseguenza in conseguenza, all’estremo limite dell’orizzonte appare, a rigor di logica, un tale dimagrimento delle funzioni della legge e della giustizia, che il potere pubblico finisce ridotto a un ambito meramente amministrativo e trasformato in una sorta di cooperativa. È l’ordine di cose anarchico e cooperativistico, sognato dal comunismo come ideale susseguente alla “dittatura del proletariato”.
Per un’analoga concatenazione di conseguenze, che si susseguono ineluttabilmente le une dalle altre, l’evoluzione umana dovrebbe proiettare i propri effetti in una sfera di convivenza ancora più alta, ossia la convivenza fra le nazioni. Le rivalità d’interessi e le tensioni di carattere ideologico scomparirebbero dalla vita internazionale; la stessa O.N.U. morirebbe in quanto superflua. Una supercooperativa collegherebbe gli sforzi dei popoli a livello mondiale, come le cooperative minori lo farebbero a livello nazionale. Sarebbe una forma anarchica di “repubblica universale”. E, così, una concordia del tutto imperturbabile regnerebbe in tutti i tipi di relazioni tra gli individui e tra i popoli, sulla terra rigenerata e abitata esclusivamente da “uomini di buona volontà”.
Non si semplifichino eccessivamente le cose. Nell’“era della buona volontà”, soprattutto al suo inizio, se restasse ancora qualcosa dell’epoca precedente, il dialogo a volte non sarebbe facile né breve. Non raramente esigerebbe una grande pazienza dall’una e dall’altra parte. Ma la certezza del positivo risultato finale darebbe agli uomini la forza per dissipare gradualmente e pacificamente tutti gli equivoci e le confusioni, e per sopportare le seccanti lungaggini inerenti a questo compito.
c) L'irenismo religioso nell'era della buona volontà
L’irenismo religioso sarebbe una delle più importanti conseguenze dell’instaurazione dell’“era della buona volontà”. La discussione nelle sue diverse forme – e, a maggior ragione, le spedizioni militari e religiose come le Crociate – dovrebbero essere vietate come intrinsecamente cattive e poste sotto il più pesante vituperio, lasciando spazio esclusivamente alle altre modalità di relazione, che costituirebbero l’unica forma lecita di contatto tra le diverse religioni.
d) Irenismo, ecumenismo e modernismo
A questo punto dell’analisi dell’irenismo, è impossibile non sentir affiorare alle labbra la parola ecumenismo, così frequentemente usata quando si parla del “dialogo”.
Conviene subito distinguere due forme di ecumenismo. La prima, finalizzata ad avviare le anime verso l’unico Ovile dell’unico Pastore, cerca di ridurre, per quanto possibile, le discussioni pure e semplici e le polemiche, per promuovere la discussione-dialogo e le altre forme d’interlocuzione. Questo ecumenismo ha un ampio fondamento in numerosi documenti pontifici, specialmente di Giovanni XXIII e di Paolo VI. Ma l’altra forma di ecumenismo va più oltre e tenta di distruggere ogni e qualsiasi carattere militante nei rapporti che la Religione cattolica ha con le altre religioni (cfr. nota 32).
Questo ecumenismo estremo ha un evidente fondo di relativismo o sincretismo religioso, la cui condanna si trova in due documenti di san Pio X: l’enciclica Pascendi contro il modernismo e la lettera apostolica Notre charge apostolique contro il Sillon.
e) Altre forme di irenismo ideologico
Ciò che abbiamo qui detto sull’irenismo religioso, può facilmente riferirsi, mutatis mutandis, all’irenismo in quanto applicato ad argomenti filosofici o ideologici di qualsiasi altra natura.
f) Irenismo, relativismo ed hegelismo
Come si vede, nelle sue molteplici forme l’irenismo conduce al relativismo. Di fatto, l’esasperata brama di concordia unanime, completa, universale e definitiva, porta al desiderio di sminuire il valore dei punti di divergenza tra gli uomini. Come più avanti vedremo in modo più accurato, partendo da questa sottovalutazione, si arriva facilmente a una posizione relativistica che, pur di sopprimere le divergenze, finisce per relativizzare il valore di tutte le opinioni e per negare che qualcuna di esse possa essere oggettivamente vera od oggettivamente falsa.
Questo relativismo totale è più negativo che affermativo. Esso nega tutti gli altri sistemi, ma non offre una concezione positiva dell’uomo, della vita e dell’universo. Ma la spinta irenistica non potrebbe contentarsi di questo. Tendendo, per naturale dinamismo, ad avvicinarsi al proprio estremo, essa prende una fisionomia hegeliana: ossia immagina che l’evoluzione del pensiero e il corso della storia siano entrambi mossi dall’eterna contraddizione tra dottrine o forze nello stesso tempo relativamente vere e relativamente false.
Da questa contraddizione tra la tesi e l’antitesi, per via di superamento nascerebbe una nuova “verità” relativa che, a sua volta, si porrebbe in contraddizione con un’altra, dando origine a una nuova sintesi, e così via indefinitamente. Questo è il termine finale del lungo processo che, iniziando dal semplice irenismo, portando quest’ultimo di affinamento in affinamento, arriva al relativismo e infine all’hegelismo.
g) Collaborazione con i migliori tra i “fratelli separati” nella lotta contro il relativismo irenistico
A questo punto è opportuna un’osservazione. L’ecumenismo estremista produce non solo tra i cattolici, ma anche tra i “fratelli separati” – siano essi scismatici, eretici o altro – una confusione tragica, certamente una delle più tragiche del nostro secolo così pieno di confusioni.
Infatti, nel campo religioso, oggi non c’è pericolo maggiore del relativismo. Esso minaccia tutte le religioni e contro di esso devono lottare tanto l’autentico cattolico quanto qualunque “fratello separato” che professa seriamente la propria religione.
Vista da questa prospettiva, tale lotta può arrivare a buon fine solo mediante lo sforzo di ciascuno di conservare integro il significato naturale e specifico della propria fede, contrastando le interpretazioni relativistiche che la deformano e la corrompono. In questa lotta, alleato del vero cattolico è, ad esempio, l’ebreo o il musulmano che non abbia il minimo dubbio non solo su ciò che ci unisce ma anche su ciò che ci divide. È a partire da questa presa di posizione che il relativismo può essere espulso da tutti i campi in cui tenta di penetrare. Parimenti, solo partendo da questo l’interlocuzione nelle sue varie forme, incluse la discussione pura e semplice e la polemica, può contribuire a condurre gli spiriti all’unità. “Patti chiari, amicizia lunga”, dice un proverbio. Solo la chiarezza nel pensiero e nell’esposizione di ciò in cui si crede, porta veramente all’unità.
L’ecumenismo esasperato, tendendo a che ciascuno cerchi di occultare o sottovalutare i veri punti di divergenza dagli altri, conduce a un regime di maquillage che può solo favorire il relativismo, ossia il potente comune nemico di tutte le religioni.
h) Irenismo, dialogo e utopismo evoluzionistico
La dissoluzione dello Stato (nella sua forma attuale) e dell’O.N.U, la sostituzione di entrambi con un regime globale anarchico-cooperativista, al cui vertice starebbe una super-cooperativa mondiale, la conseguente impossibilità di guerre e quindi l’inutilità delle forze armate, l’ecumenismo esasperato, il relativismo religioso e l’irenismo, sono dunque corollari di un unico presupposto comune: l’evoluzione della natura umana verso una “era della buona volontà”, nella quale la discussione in tutte le sue forme scompaia e gli uomini pratichino tra loro solo il “dialogo”.
Una volta che la tendenza irenistica, che cerca d’imporsi mediante il dialogo talismanico, è stata così presentata nel proprio contesto ideologico, sembra superfluo indicare le dottrine su cui essa si basa, poiché sono ben conosciute. Si tratta dell’utopismo, i cui lineamenti si scorgono in tante posizioni culturali durante il corso della storia, e che irruppe in Occidente, con particolare vigore, dopo il Medioevo. A partire da Moro e Campanella fino ai socialisti utopistici del secolo scorso, l’itinerario è facile da descrivere ed è già stato descritto innumerevoli volte (33).
i) Importanza degli aspetti emotivi dell'utopismo irenistico
Nel presente studio, è certamente molto importante analizzare lo stato emotivo legato a questo utopismo; infatti, come vedremo, per provocare il crollo del mondo occidentale, il comunismo sfrutta nell’irenismo lo stato emotivo del quale si nutre, più che le idee stesse su cui si fonda.
Creato per il Paradiso terrestre e per uno stato d’integrità perduto in conseguenza del Peccato, l’uomo sente nel più profondo di sé stesso un vivo desiderio di quelle perfezioni delle quali non avrebbe mai dovuto essere privato, secondo il piano divino. Questo desiderio è ben comprensibile, perché ogni essere ama il proprio bene, in forza del legittimo amore che ha per sé stesso.
Si aggiunga che il termine finale di tutte le aspirazioni di quell’uomo, chiamato da Dio a un destino superiore, non sta neppure nell’integrità della propria natura o nel Paradiso terrestre, bensì nella felicità perfetta e perenne del Paradiso celeste.
La tendenza a ciò che genericamente potremmo chiamare, forse con qualche improprietà, il paradisiaco, palpita dunque nel fondo di ogni uomo, come una forza ardente e insonne. Questa forza si fa sentire in lui continuamente, sebbene in gradi e modi diversi, e si mescola – ora coscientemente, ora incoscientemente – in tutto ciò che desidera, pensa o vuole.
Orientato dalla fede, elevato dalla grazia, sviluppato secondo le leggi della morale cattolica, questo desiderio del paradisiaco costituisce una forza indispensabile e fondamentale per elevare l’uomo in tutti i suoi aspetti. Esso lo stimola a innalzare e perfezionare la propria anima, a migliorare, per quanto possibile, le condizioni della propria esistenza terrena, e soprattutto lo esorta ad aspirare al Cielo e a Tuttavia, ciò non impedisce al cattolico di capire che l’errore, il male e di conseguenza il dolore, benché possano essere circoscritti, non possono essere estirpati da questo mondo, come insegna così bene la parabola del grano e del loglio (Mt. 13, 24-30). La vita terrena ha un fondamentale significato di prova, di lotta e di espiazione, che il fedele sa essere conforme ad altissimi disegni della sapienza, giustizia e bontà divine. L’ultimo fine dell’uomo, la sua felicità gloriosa, completa e perenne, stanno solo in Cielo.
j) La rivolta, elemento emotivo tipico dell'utopista irenico
Dato che pensa in questo modo, il vero cattolico è il contrario dell’utopista. Questi, lontano dalla luce della Fede, considera l’errore, il male e il dolore come assurde contingenze dell’umana esistenza che l’indignano. Egli pensa che per l’uomo sia naturale ribellarsi a questa triade di avversità. Non prendendo in considerazione l’esistenza di un’altra vita, l’utopista è portato a giudicare evidente, necessario, indiscutibile che si possa giungere a eliminare il dolore, il male e l’errore, poiché, in caso contrario, egli dovrebbe ammettere che lo stesso ordine dell’essere è assurdo. In ciò sta essenzialmente il fondamento della sua utopia. È comprensibile che, per l’utopista, la vita non possa avere normalmente un legittimo significato di lotta, di prova e di espiazione, ma soltanto quello di pace dolce e gratuita. Egli quindi è, per definizione, un pacifista ad oltranza, ultra-irenico e ultra-ecumenico. Nessuno dei suoi sogni avrebbe coerenza interna né potrebbe soddisfarlo pienamente, se non includesse la soppressione di tutte le lotte e di tutte le controversie.
È chiaro che il paradiso terrestre su base scientifica e tecnica, sognato dall’utopismo, comporta il soddisfacimento delle passioni umane, non solo in ciò che hanno di temperato e di legittimo, ma anche in ciò che hanno di più tempestoso, disordinato e illegittimo. Dunque la mortificazione delle passioni è incompatibile con questo “paradisismo”.
Tra le passioni disordinate, l’orgoglio e la sensualità occupano un posto preminente, imprimendo all’utopista due caratteristiche essenziali: il desiderio di porsi al vertice del proprio mondo, senz’accettare nemmeno un Dio trascendente, e l’aspirazione a una piena libertà nel soddisfacimento di tutti gli istinti e gli appetiti sregolati. Poiché crede solo in questa vita, l’utopista ritiene che sia immanente alla natura delle cose la possibilità di ottenere da questo mondo tutte le soddisfazioni desiderabili. Egli spera effettivamente di ottenere queste soddisfazioni grazie ai propri sforzi. Poiché ripone tutte le proprie speranze in questo mondo, egli è il mondano per eccellenza (34).
k) L'utopismo irenistico, caratteristica comune al mondano borghese e al mondano proletario
È proprio in questo che i mondani, siano essi borghesi o proletari, hanno un denominatore comune.
Il borghese mondano, con la sua ricchezza, con la sua posizione sociale, con la sua influenza politica, spera di ottenere per sé la piena indipendenza, la sicurezza e il piacere, in ultima analisi il paradiso terrestre promessogli dal suo utopismo.
Il proletario mondano spera di ottenere le stesse cose, o diventando un borghese o creando per tutti gli uomini – tra i quali egli si porrà ben al centro – un microparadiso realizzato nelle condizioni meno brillanti, ma comunque abbastanza desiderabili, di una società egualitaria. In questa società, il proletariato sarebbe padrone di tutto, e le vestigia di ciò ch’era stato il potere statale resterebbero trasferite a un organismo avente la consistenza cartilaginea di una mera cooperativa. In questo paradiso egualitario e cooperativistico, il proletario sarebbe indipendente, provvisto di condizioni di vita sicure e facili, in qualche modo maggiori di quelle oggi godute dal borghese.
l) Il binomio paura-simpatia agisce sul mondano borghese
Sappiamo bene che l’utopismo del proletario mondano, una volta ubriacato dal comunismo, lo porta a considerare con odio quel paradiso borghese dal quale resta escluso.
Dal canto suo, il borghese mondano come considera la prospettiva di un paradiso proletario? Abituato al proprio benessere, egli non desidera lasciarselo sfuggire. Ciò nonostante, logorato dalla lotta di classe, con la paura della prospettiva di guerre, rivoluzioni, saccheggi e stragi, in certi momenti gli sorride, almeno come male minore, la possibilità d’inserirsi pacificamente nel paradiso proletario, salvando forse qualche modesto vantaggio. Inoltre egli pensa: “Chissà che questo paradiso, a differenza della società borghese, non riesca davvero ad eliminare l’errore, il male e il dolore? Forse – medita ancora il borghese mondano – varrebbe la pena di rinunciare ai vantaggi di cui ora mi giovo, pur di entrare in un mondo in cui nessuno fosse sottomesso a questo triplice giogo!” Nessuno… neppure lui che, nelle pause tra i suoi affari e i suoi piaceri, si sente così vulnerabile dai mali e dai pericoli di ogni genere.
E allora, con tutto l’impeto del suo desiderio di un paradiso terrestre, il borghese mondano comincia a scoprire in sé un’indole socialista e a intravedere una possibilità di venire a patti col comunismo. Sorge in lui un sentimento pacifista verso questo terribile avversario. Il dialogo irenico gli sorride… Al pari della paura, comincia ad operare in lui la simpatia.
m) Il binomio paura-simpatia prepara il mondano borghese al trasbordo ideologico inavvertito
Al comunismo, al quale interessa soprattutto minare la società borghese dall’interno, sarebbe impossibile trasformare l’immensa maggioranza dei borghesi mondani in convinti discepoli di Marx. Le tesi e gli argomenti di questo profeta delle tenebre sono aridi, confusi, grossolani, e il borghese mondano non prova gusto a interessarsi né ad approfondire nulla. Inoltre, l’ideologia marxista contrasta frontalmente tutte le sue abitudini di pensiero e i suoi interessi personali, ed egli non gradisce contrasti né sacrifici.Ma i dirigenti comunisti mondiali sono ben lungi dall’ignorare la situazione psicologica in cui attualmente si trovano innumerevoli borghesi mondani. Questa situazione può essere sommamente sfruttabile in favore del comunismo mediante il binomio paura-simpatia. Sotto la sua azione, come vedremo, il borghese mondano è pronto per subire quel trasbordo ideologico che – attraverso la parola “dialogo” ripetuta in mille maniere – lo condurrà a diventare comunista senz’accorgersene, o perlomeno ad adottare posizioni di resa al comunismo che apriranno a questo le porte della cittadella.
3. "Dialogo": significati talismanici
a) Punti di impressionabilità e di apatìa nello spirito mondano: quadro psicologico in cui agisce la parola-talismano
Una volta caratterizzato il mondanismo irenistico come abbiamo appena fatto, è facile vedere i punti d’impressionabilità e di apatia che esistono, perlomeno in germe, in un irenista e che lo rendono tanto adatto a subire il trasbordo ideologico inavvertito.
* 1° punto di impressionabilità: le contese, le risse, le guerre sono in sé un grave male che è necessario eliminare a tutti i costi, per instaurare l’“era della buona volontà” e della pace;
* 2° punto di impressionabilità: è quindi urgente far cessare ad ogni costo le controversie, sostituendole col dialogo irenistico;
* 1° punto di apatìa: questa pace ad ogni costo, sarà mai possibile ottenerla? Per stabilirla, non bisognerà forse usare mezzi drastici che costituiscono un male ancor peggiore?
* 2° punto di apatìa: l’abolizione delle controversie, non costituisce forse la vittoria del relativismo, creando il caos ideologico e morale? Non moltiplica quindi i fattori di discordia e di guerra? Non smobilita l’opinione pubblica? Non tende a sfigurare il carattere militante della Santa Chiesa?, etc.
Alle domande che costituiscono i punti di apatia, lo spirito punto dalla mosca dell’irenismo tende a non rispondere. Semplicista, frettoloso e irritabile com’è ogni spirito utopico, l’irenista non è capace, per così dire, di distogliere l’attenzione dai punti d’impressionabilità, e s’irrita con chiunque lo forzi a trattenerla nei punti di apatia. Pertanto egli diventa propenso ad accettare tutte le conseguenze dell’irenismo, anche quelle (come il modernismo e il comunismo) che più avrebbe ripudiato prima che si formassero nel suo spirito quei punti d’impressionabilità.
Per attenerci soltanto alle controversie e al dialogo irenico, la vera soluzione del problema che preoccupa il nostro irenista consisterebbe nell’ammettere l’impossibilità di una concordia ideologica assoluta ed eterna tra gli uomini, e la necessità di stabilire la buona convivenza su basi realizzabili. A questo scopo, tra l’altro, egli dovrebbe cercare di evitare entrambi gli eccessi: ossia, tanto l’omissione della discussione-dialogo nei casi indicati, quanto l’omissione della discussione pura e semplice o della polemica quando fossero opportune; inoltre dovrebbe impegnarsi a reprimere queste forme di discussione solo quando fossero censurabili per qualche motivo. Ma l’irenista, essendo suscettibile ai punti d’impressionabilità e senza reazione nei punti di apatia, già impaziente fin dall’inizio, è pronto ad abbandonarsi ad ogni sorta di pensieri, sensazioni e azioni unilaterali, aderendo solamente alle soluzioni che stimolano i punti d’impressionabilità.
La parola-talismano comincia così a produrre i propri effetti su di lui.
b) Molteplici effetti della parola-talismano
La parola-talismano “dialogo” è tanto ricca di effetti che, per studiarli adeguatamente, occorre classificarli in due gruppi:
- gli effetti diretti, da essa prodotti sulla mentalità delle persone che suggestiona;
- un procedimento mediante il quale la mentalità così trasformata e la parolatalismano
“dialogo”, radicalizzandosi reciprocamente e usando lo strumento del “dialogo”, conducono i dialoganti al relativismo hegeliano.
c) Effetti diretti della parola-talismano
Consideriamo innanzitutto il primo gruppo di effetti. Essi sono in numero di cinque.
i) Primo effetto. Il dialogo risolve tutto
Sull’irenista preparato nel modo sopra descritto (punto A), comincia ad agire la parola-talismano. Gli hanno parlato di dialogo. In base a quanto osserva, questo termine viene impiegato in un senso nuovo e assai particolare, solo indirettamente collegato al significato corrente. La parola dialogo brilla così davanti ai suoi occhi con un contenuto che ha qualcosa di moderno e di elegante. Persone di fama la utilizzano come se fosse una formula nuova, semplice e irresistibile, adatta a cambiare convinzioni. Non dialogare significa comportarsi in modo retrogrado in campo ideologico, in piena era atomica. Dialogare significa essere aggiornato, distinguersi per efficacia e modernità. Allora l’irenista si mette a pensare così: “Il dialogo risolve ogni problema; niente discussioni né polemiche; è necessario solo dialogare con quelli che pensano diversamente, anche se sono comunisti. Grazie all’affabilità che lo caratterizza, il dialogo ha il dono di disarmare ogni prevenzione; esso assicura a chi lo usa la gloria di persuadere tutti gli avversari”.
ii) Secondo effetto. Una costellazione di impressioni ed emozioni unilaterali
Basandosi sia sull’unilaterale ed ossessivo timore d’irritare gli oppositori con la discussione e con la polemica, sia sulla certezza che tutti possono essere convinti mediante il dialogo, il nostro paziente giunge a formare pari passu tutta una costellazione d’impressioni ed emozioni unilaterali, tra le quali menzioneremo solo alcune: quelle che si riferiscono al cattolico che discute o polemizza.
Secondo l’irenista, questo cattolico usa metodi di apostolato sorpassati e controproducenti; agisce così, perché è irascibile, bilioso, vendicativo e privo di carità per quelli che giacciono nell’errore, trattandoli con una severità ingiusta e nociva; se costoro rimangono fuori dall’Ovile, in ultima analisi è colpa solo sua.
- Odio per i cattolici più ferventi
Questa unilaterale impressione determina un’emozione, un’antipatia per l’apologista o per il polemista cattolico, che può giungere fino all’odio. Derivando
dal presupposto per cui ogni controversia ideologica è cattiva, quest’antipatia coinvolge ipso facto e indistintamente tutti coloro che discutono o polemizzano, lo facciano opportunamente o inopportunamente.
Per quanto possa essere assurdo, l’apologista o il polemista comincia ad essere visto con odio dal suo fratello nella Fede, che lo considera sempre più come un cattolico settario e privo di carità, e questo “errore” – il tremendo “errore” di essere ultracattolico – è l’unico che non può essere perdonato. Contro la persona accusata di questo errore, diventano lecite tutte le armi: la congiura del silenzio, l’ostracismo, la diffamazione, gli insulti; pur di provare le accuse che gli si fanno, tutto diventa consentito: i più deboli e più vaghi indizi e perfino le mere dicerie valgono come prove. Per lui, vero paria della società in cammino verso l’utopia, e per nessun altro, la partecipazione al “dialogo” è definitivamente vietata.
In questo modo, nella Chiesa militante vengono esclusi in scala sempre crescente i suoi figli più ferventi, ossia i più disinteressati, i più coerenti, i più perspicaci, i più valorosi.
- Ammirazione e fiducia incondizionate per coloro che sono fuori della Chiesa
Questa esclusione si accompagna a un’ammirazione e una fiducia crescenti per coloro che sono fuori della Chiesa. Non è raro che questi sentimenti si trasformino in un “complesso d’inferiorità” capace di giungere a un vero e proprio incondizionalismo categorico. D’altronde ciò è logico. Se infatti tutti i nostri “fratelli separati” possono essere convertiti con i sorrisi, ciò accade perché, in ultima analisi, sono solo equivoci e risentimenti a tenerli lontani da noi. La loro buona volontà è piena e senza macchia.
Quando il dialogo con coloro che sono fuori della Chiesa viene rettamente praticato, bisogna tenere in mente non solo ciò che ci unisce ma anche ciò che ci separa. Poi, con la destrezza della carità, bisogna saper approfittarsi di ciò che ci unisce per creare, nella misura del possibile, un clima cordiale trattando, in modo obiettivo e con tatto, ciò che ci separa.
Nel clima irenico, invece, la preoccupazione del dialogante cattolico è ben diversa. Egli vede solo tutto ciò che l’unisce agli estranei, e non vede nulla di ciò che lo separa da loro. Così, egli si aspetta tutto dalla coesistenza e dalle concessioni, e nulla dalla lotta. La sua tattica è dunque ingenua, molle e arrendevole verso coloro che sono fuori dell’Ovile. La sua intransigenza, la sua combattività e la sua diffidenza sono riservate solo a coloro che, dentro la Chiesa, resistono al clima irenico.
iii) Terzo effetto. Simpatia e notorietà prodotti dalla risonanza pubblicitaria della parola "dialogo"
In forza di questa costellazione d’impressioni ed emozioni, se l’apostolo che discute o polemizza viene odiato e vilipeso, nello stesso tempo l’apostolo del dialogo irenico viene considerato in modo diametralmente opposto. Siccome, oggi forse più che mai, il pubblico brama tutto ciò che può favorire l’ottimismo e le aspirazioni alla tranquillità e al benessere, esso è predisposto ad ammirare enfaticamente l’apostolo irenista.
In lui, l’uomo medio crede di vedere un’intelligenza duttile e lucida, che gli permette di capire fino in fondo sia il male insito nella discussione e nella polemica, sia le inesauribili possibilità apostoliche del dialogo. Benevolo e affabile, il dialogante irenico dà l’impressione di essere dotato di una simpatia irresistibile e quasi magica.
Essendo moderno, egli si presenta come perfetto e agile conoscitore delle tattiche di apostolato più aggiornate e perciò abile nel maneggiare il “dialogo”. In una parola, nulla gli manca per apparire assolutamente simpatico. Allegro e gioviale, egli preannuncia un avvenire roseo, propiziato da un susseguirsi di successi facili e inebrianti. La simpatia e l’ottimismo aprono al nostro dialogante le porte della notorietà. Si gode nel parlare di lui, nel ripetere le sue parole, nell’elogiare le sue azioni. Sembra ch’egli possieda il dono di saper risolvere con un sorriso le questioni più intricate e di dissipare, come se fosse un sole, i pregiudizi e i rancori più inveterati, semplicemente colloquiando. Per questo, egli si trova naturalmente posto al centro degli eventi, nel punto di convergenza degl’interessi del pubblico.
La stampa, la radio e la televisione lo mettono volentieri in evidenza, sicuri così di far cosa gradita al pubblico.
iv) Quarto effetto, sorge il miraggio dell'era della buona volontà
Nell’animo della persona sottoposta al procedimento che stiamo studiando, tutto ciò va così aprendo indefiniti orizzonti. Al loro limite estremo, sorge un miraggio al quale abbiamo già fatto allusione in questo capitolo (capo 2, da A a C): un miraggio generalmente molto vago, certo, ma quanto radioso e attraente! È l’“era della buona volontà”, ossia di un ordine di cose “evoluto” in cui la simpatia, e quella sua pienezza che è l’amore, sarebbero capaci non solo di disarmare tutte le contese, ma perfino di prevenirle: sì, di prevenirle eliminandone le cause sia psicologiche che istituzionali. Oh, quanto guadagnerebbero la concordia e la pace, dalla soppressione di ciò per cui gli uomini vanno lottando da millenni: ossia patrie, interessi nazionali, ricchezze, prestigi di classe, poteri di comando! Oh, se l’amore giungesse ad eliminare le parole “mio” e “tuo” per sostituirle, in modo da superarle, con la parola “nostro”! Alla fine regnerebbe la pace tra gli uomini, scomparirebbero le guerre, i crimini, le punizioni e le carceri! Il pubblico potere sarebbe ridotto a un’immensa cooperativa di attività spontanee e armoniche in favore della prosperità, della cultura e della salute! Nell’ “era della buona volontà”, il completo benessere terreno delle società sarebbe la meta unica di tutti gli sforzi umani!
Questo miraggio, la cui affinità al mito anarchico inerente al marxismo abbiamo già segnalato (capo 2, B), la cui forza di suggestione corrispondente alle più profonde aspirazioni dell’uomo abbiamo già descritto (capo 2, I), è capace di suscitare in innumerevoli anime un’emozione deliziosa che le domina interamente e dalla quale, come da una droga, non vogliono separarsi in nessun modo.
Ne deriva il fatto che la parola “dialogo”, quando viene utilizzata in questa prospettiva, si riveste di scintillii particolarmente magici e seducenti. Come un vero talismano, essa comunica automaticamente il proprio prestigio e brillìo a coloro che l’adottano.
v) Quinto effetto. La tendenza ad abusare della elasticità della parola "dialogo"
Da questi diversi fattori psicologici proviene una tentazione, sempre più accentuata, di esagerare la naturale elasticità del termine in questione. Infatti, se con l’uso di una parola si ottiene un certo effetto, questo sarà tanto maggiore quanto più la si usa. Ne deriva la tendenza a usare la parola “dialogo” ad ogni proposito. Il suo uso può diventare quasi un vizio, di modo che un’intervista, un articolo, un discorso, non sembreranno completi se non contengono un riferimento al “dialogo”.e elasticità del termine in questione.
d) Effetti indiretti e riflessi della parola-talismano
Passiamo ora al secondo gruppo di effetti.
In essi, la fermentazione psicologica prodotta dalla parola-talismano si ripercuote su questa, e all’inverso.
Questa interazione, che comporta un processo di mutua radicalizzazione, si riflette a sua volta sul modo stesso di condurre il “dialogo”.
Se immaginiamo due dialoganti tra i quali avvenga questa interazione, vediamo che vanno cambiando gradualmente non solo le successive maniere di dialogare,
ma perfino il contenuto del dialogo.
Nel suo insieme, tutto ciò porta i due dialoganti, attraverso diverse fasi, dall’irenismo fino al relativismo hegeliano.
i) Primo effetto: la radicalizzazione della parola “dialogo” in nuovi e più profondi significati talismanici
Come avviene l’influenza di questa fermentazione psicologica sul vocabolo?
Chi riesce ad elevarsi alle alte sfere della celebrità sulle ali del “dialogo”, non tarderà a capire che le diverse applicazioni di questa parola producono risultati diseguali sul piano della popolarità. Alcune volte questo talismano viene usato con poco frutto: sembrerà opaco al pubblico; altre volte invece brillerà agli occhi di tutti ed agirà con piena intensità.
Di regola, sia coloro che sfruttano la parola-talismano, sia il pubblico, avvertiranno questo fatto senza poterselo spiegare. Di conseguenza, saranno spinti a preferire alcune applicazioni piuttosto che altre; se poi avranno qualche capacità, tenderanno a forzare la naturale elasticità del vocabolo per moltiplicarne gli usi più seducenti e redditizi.
Per quale ragione il talismano si rivela più irradiante in certe sue applicazioni che in altre? Qual è il polo di massimo irraggiamento col quale esso tende a identificarsi, quando viene così manipolato dai virtuosi di quest’arte linguistica? La forza d’irradiazione, per così dire, immanente alla parola-talismano “dialogo”, si fa sentire di più quando questa viene usata in modo tale, da insinuare che sia vero, desiderabile, realizzabile il mito di cui parlavamo poco fa: quello dell’amore emotivo, rigeneratore e collettivistico, immaginato come forza organizzatrice di un mondo nuovo. Questo mito è il polo verso cui tende la parola-talismano.
Nell’ultimo e più recondito dei propri significati magici, il “dialogo” è il linguaggio di quell’amore.
Nelle diverse tappe del descritto processo verso il suo ultimo significato, la parola “dialogo” si evolve in modo da identificarsi sempre più con questo.
ii) Secondo effetto: le quattro fasi del processo, verso il relativismo hegeliano
Una volta descritta, così in generale, l’interazione tra l’emotività irenistica e la parola-talismano, consideriamo le diverse fasi attraverso le quali, con lo svilupparsi di questa interazione, vanno progressivamente modificandosi sia le forme e i contenuti della interlocuzione tra persone di convinzioni opposte, sia correlativamente il significato della parola-talismano.
Prima che inizi il processo, ognuno di questi interlocutori desidera convincere l’altro per mezzo di argomenti.
L’obiettivo fondamentale di ciascuna parte in causa è pertanto quello di conquistare l’altra alla verità. Per questa via, realizzeranno tra loro quel bene prezioso che è l’unità: un’unità che si presenta legittimamente come frutto della verità e che pertanto non può essere concepita né desiderata se non mediante il possesso della verità.
Prima fase: ipertrofia della cordialità nella discussione-dialogo; nasce la parola talismano.
Immaginiamo che negli interlocutori, così disposti alla discussione, si noti frattanto una fermentazione emotiva irenistica. Questa fermentazione, che prepara l’apparizione della parola-talismano “dialogo”, consiste in un vigoroso desiderio emotivo di concordia universale degli animi e di pace in tutti i campi delle relazioni umane. Questo desiderio è di tale natura, che si sentirà soddisfatto solo quando gli interlocutori saranno infine giunti a una concezione pienamente irenica e relativistica dell’uomo, della vita e del cosmo.
Così, dal punto di vista emotivo, l’irenismo ha già potenzialmente guadagnato gli interlocutori in questione alla causa del relativismo e, come vedremo, del più radicale fra i relativismi, qual è quello hegeliano. Tuttavia, se questo si è realizzato dal punto di vista emotivo, non lo è ancora dal punto di vista ideologico. Gli interlocutori ammettono ancora l’esistenza di una verità oggettiva, nella quale ciascuno di loro suppone di trovarsi, come pure di un
errore oggettivo, nel quale ritiene che si trovi la controparte.
Per quanto concerne un tema controverso, fra di loro può logicamente aversi un solo tipo di relazioni, che è la discussione. Questa, anche quando sia molto amabile, contiene intimamente un carattere di combattività. Ma ora questo carattere contrasta nettamente con lo stato emotivo degli interlocutori. C’è dunque un conflitto tra il procedimento imposto dalla logica – ossia la discussione – e lo stile di relazioni che le persone dialoganti vorrebbero mantenere tra di loro. Ne deriva una prima modifica di questo stile di relazioni.
Senza rendersene conto, le parti in causa desiderano più l’unità che la verità. In conseguenza di queste disposizioni emotive, ciascuna delle parti è portata a credere che l’altra sia sempre “in buona fede”. Il successo del suo sforzo di persuasione le sembra dipendere soltanto dall’eliminare i risentimenti della controparte.
Per questo, entrambe le parti rifiutano sia la discussione pura e semplice che la polemica e ammettono la discussione solo sotto la forma, raffinatamente soave, della discussione-dialogo. Ma questa forma contiene ancora un residuo carattere di combattività che riesce sgradito all’emotività irenistica.
Quest’ultima pertanto deforma il significato della discussione-dialogo, esagerando il carattere di cordialità e sminuendo quello di combattività. In questo modo, viene aggravata l’iniziale deformazione nello stile di relazioni tra le parti.
Ormai, la discussione-dialogo non mira più principalmente a scoprire la verità e solo conseguentemente ad ottenere l’unità in essa, ma mira soprattutto a raggiungere l’unità per mezzo della cordialità delle relazioni tra gli interlocutori, e solo secondariamente a conquistare la verità mediante l’argomentazione.
La parola “dialogo” subisce allora la sua prima deformazione, passando a designare la discussione-dialogo irenisticamente concepita e quindi diventando impregnata di un significato irenico-talismanico che brilla di tutte le attrattive del mito irenistico. Il dialogo talismanico (ossia la discussione-dialogo così deformata) diventa quindi il “dialogo” per eccellenza.
Esempio concreto.
Per facilitare al lettore lo studio del processo di deformazione talismanica della parola “dialogo”, considerato in astratto, lo accompagneremo con un esempio concreto; l’enunciazione di ciascuna fase del processo in abstracto sarà seguita dalla descrizione della stessa fase mediante un esempio in concreto.
Immaginiamo un tomista e un esistenzialista che siano colleghi in una Università e, a questo titolo, abbiano frequenti occasioni per discutere sulle loro divergenze filosofiche e anche per approfondire insieme materie non correlate a queste divergenze, come pure per mantenere quelle altre relazioni sociali abituali tra colleghi.
Per quanto riguarda le divergenze esistenti tra loro, il tomista sa di essere nella verità e di aver ragione. L’esistenzialista discorda dalla posizione tomistica. Ciascuno dei due desidera convincere l’altro e il mezzo normale per riuscirvi sembra a entrambi essere la discussione. Immaginiamo che, nello sforzo di convincere la controparte, il tomista sia mosso non solo da un legittimo desiderio di apostolato, ma anche da un ardente desiderio
irenistico di unione.
A partire da un dato momento, questo desiderio prende il primo posto tra i moventi dello zelo e, nella sua discussione con l’esistenzialista, il nostro tomista comincia a desiderare l’unità più che la verità.
Questo sovvertimento di obiettivi produce un’immediata conseguenza nel suo modo di considerare il collega. Ingenuamente, egli s’immagina che quest’ultimo sia attaccato alla propria dottrina a causa di un mero equivoco, come pure per risentimento verso il tomismo e, in ultima analisi, verso la Chiesa. Secondo l’interlocutore punto dalla mosca dell’irenismo, nella discussione la controparte si comporta sempre come se, essendo concepita senza Peccato originale, fosse incapace di un attaccamento disordinato e vizioso all’errore. Ne deriva una ripercussione della tendenza irenica sul modo di agire del tomista.
Se il principale ostacolo che impedisce all’esistenzialista di accettare la verità è il proprio risentimento, allora la cosa più importante nella discussione è l’evitare che questo risentimento si mantenga o persino si aggravi. Il suo interlocutore rifiuterà dunque come pericolose e perfino ingiuste sia la discussione pura e semplice sia la polemica, e, nel trattare le questioni controverse, ammetterà solo la discussione-dialogo. Con quest’ultima, egli mirerà principalmente all’unità e solo secondariamente alla verità.
Questo tipo di discussione egli la chiamerà “dialogo”, per insinuare che è tanto priva di combattività quanto il dialogo-indagine o il dialogo-intrattenimento. Nasce così la parola-talismano “dialogo”, traboccante di cordialità pacifista. Essa designa la prima forma di relazioni irenistiche tra gli interlocutori in questione e brilla delle molteplici seduzioni del mito pacifista, accentuando nel nostro tomista il bruciore del prurito irenico e spingendolo a nuovi cambiamenti nel modo di affrontare il dialogo talismanico e di metterlo in pratica.
Seconda fase: la cordialità irenistica invade il dialogo-intrattenimento e il dialogo-indagine; la parola-talismano amplia il proprio significato
Una volta così stabilita nella prima fase, la parola-talismano si ripercuote sulla fermentazione emotiva irenistica e questa fermentazione, così accresciuta, imprimerà alla parola-talismano un significato nuovo e più ampio. In ciò consiste la seconda fase.
L’interlocutore irenista, conquistato da quel mito irenico che è l’occulto contenuto della parola-talismano, va usandola ad ogni occasione come un balocco con cui, quanto più gioca, tanto più ne resta incantato.
Le relazioni tra persone divise da una divergenza non si limitano a questa divergenza. Esse possono legittimamente includere dialoghi d’indagine su altre materie e anche dialoghi d’intrattenimento su altre materie ancora. Queste forme di relazione possono provocare, anche legittimamente, una ripercussione favorevole sulla discussione-dialogo, nella misura in cui contribuiscono ad evitare che quest’ultima sia pregiudicata da risentimenti e antipatie personali, purtroppo sempre facili a sorgere. In questa prospettiva, gli interlocutori irenisti sono portati a modificare in senso irenico i loro dialoghi d’indagine e d’intrattenimento, estendendo a questi il significato talismanico incubato nella discussione-dialogo durante la fase precedente.
È opportuno ora mostrare in cosa consiste la deformazione irenistica dei dialoghid’intrattenimento e d’indagine. In essi, gli interlocutori irenisti passano a sminuire il fine naturale dell’intrattenersi e dell’indagare, e a sopravvalutare irenisticamente il fattore-cordialità. In tal modo, essi orientano il “dialogo” principalmente al fine di ottenere un intenso infervoramento affettivo, mentre il passatempo e l’indagine diventano meri pretesti.
Mossi dall’intento di persuadere, essi sperano che questo infervoramento eserciti sul punto di divergenza una pressione unificante e sincretista che risulti più utile dello scambio di argomenti, anche quando questo sia fatto nella soavità della discussione-dialogo irenistica, perché questa conserva ancora residui di combattività. Siccome l’irenista esagera sempre più l’importanza del fattore cordialità per ottenere la persuasione, egli è spinto sempre più a confidare nel dialogo-intrattenimento e nel dialogo-indagine, mentre la discussione-dialogo passa a sembrargli interamente secondaria e perfino pericolosa e dannosa.
A questo mutamento nel tono delle relazioni tra gli interlocutori irenici, corrisponde una nuova fase della parola-talismano “dialogo”. Siccome l’elemento più dinamico del significato di questa parola è quello irenistico, esso si estende dalla discussione dialogo irenistica alle altre due forme “irenizzate” di conversazione.
Così, la parola-talismano passa ad assimilare tutte le forme di relazione tra gli interlocutori che possono impregnarsi d’irenismo. In altri termini, fuori dall’influenza irenistica, il dialogo-indagine e il dialogointrattenimento possono essere visti come forme strumentali al servizio della discussione-dialogo, capaci di assicurare il buon andamento di questa. Ma, sotto l’influenza dell’irenismo, quest’ordine di valori si rovescia. Il dialogo intrattenimento e il dialogo-indagine cominciano a essere considerati come i propulsori dell’azione persuasiva. La discussione-dialogo viene ridotta ad avere un ruolo secondario, strumentale, anzi fastidiosamente strumentale.
In questa nuova gerarchia di valori, la parola-talismano “dialogo”, inglobando le tre citate forme di conversazione (ossia discussione-dialogo, dialogo-indagine e dialogo-intrattenimento), comincia a stimolare ancor più le aspirazioni irenistiche, dando così origine alla terza fase.
Esempio concreto.
Sotto il segno dell’irenismo stimolato dalla parola-talismano “dialogo”, il nostro tomista desidera estendere il fermento irenico alle altre forme delle proprie relazioni con l’esistenzialista. Fin qui, queste altre forme (dialogo-intrattenimento e dialogo indagine) gli sembravano estranee alla controversia dottrinale e idonee ad esercitare al riguardo una funzione solo strumentale: il tratto cordiale nelle faccende estranee alla controversia contribuiva a mantenerla in un’atmosfera serena ed elevata.
Ma ora il tomista irenico si mette a vedere le cose in un altro modo. Gli sembra che le occasioni per l’indagine o per l’intrattenimento non abbiano solo il loro fine naturale. Desiderando produrre nell’interlocutore il bramato disarmo emotivo, queste occasioni diventano per lui solo un mero pretesto per alimentare e accrescere, nell’esistenzialista, il prurito irenico e il supremo e incondizionato anelito all’unità.
Così, tutte le forme d’interlocuzione suscettibili d’impregnarsi di pacifismo (dialogo-intrattenimento, dialogo-indagine, discussione-dialogo) finiscono per essere inglobale sotto il segno dell’irenismo.
Frattanto la discussione-dialogo viene a perdere il proprio ruolo principale, essendo meno adatta all’infervoramento irenistico e perfino pericolosa per il suo carattere combattivo. Nella misura in cui dissipa equivoci dottrinali, essa finisce per avere una funzione strumentale molesta e pericolosa, in un complesso di relazioni la cui nota tonica consiste nel rinfocolare la cordialità.
Sentendo e vedendo così le cose, il nostro tomista continua a dialogare. Ma questo suo dialogare, quanto è diverso da quello della fase precedente! Per favorire l’azione di riscaldamento, egli evita il più possibile la controversia con l’esistenzialista e, usando le luci di un’insistenza instancabile e di una minuziosità che si compiace dei più insignificanti particolari, mette tutto il proprio impegno a focalizzare ciò che vi sarebbe di comune tra tomismo ed esistenzialismo, ossia quelli che immagina essere gli “aspetti esistenzialisti del tomismo”. Egli cerca così di ornare con una coccarda kierkegaardiana l’austero saio dell’Aquinate, allineandolo nella coorte degli ammiratori che Kierkegaard avrebbe avuto già prima di nascere.
Essendo ingegnoso, il tomista irenico sa che molte volte una inimicizia comune è il miglior cemento per un’amicizia precaria e nascente. Allora, con una focosità maggiore di quella che muove il più ardente esistenzialista, cerca di attaccare qualunque venatura di “essenzialismo” che trova in questo o in quel filosofo. In questa “crociata” senza croce, egli non è certo pacifico verso l’“essenzialismo” in qualunque suo grado, modo o aspetto, ma lo è per praticare l’irenismo verso l’esistenzialismo.
Gli rimane solo un timore: quello che l’esistenzialista lo sospetti di essere connivente con certi disgraziati fratelli tomisti che combattono l’esistenzialismo. Per questo motivo, egli si scaglia contro di loro considerandoli come “essenzialisti” fra i più pericolosi (35). Artifici del dialogo talismanico in questa seconda fase!… La parola-talismano “dialogo” è passata dunque a designare l’insieme dei dialoghi irenistici, con preponderanza dei dialoghi d’intrattenimento e d’indagine sulla discussione-dialogo.
Terza fase: la cordialità irenistica sfocia nel relativismo; la parola-talismano assume un significato pienamente relativistico.
Se le due fasi precedenti si sono svolte sotto il segno dell’irenismo, la terza è già chiaramente relativistica.
Fin qui, sotto la pressione dell’irenismo, l’obiettivo dell’interlocuzione stava diventando sempre più l’unità e sempre meno la verità. Nell’attuale fase, il desiderio di unità spinge gli interlocutori a scavalcare le proprie divergenze per raggiungere quest’unità. Pertanto, essi arrivano a pensare che non c’è verità assoluta né errore oggettivo in nessuna delle parti in causa. Tutto è relativo. Di conseguenza, il carattere delle relazioni reciproche cambia. Partendo dal relativismo, la vera discussione è impossibile; quando trattano una materia fin qui controversa, per il fatto stesso di farlo sotto il segno del relativismo, gli interlocutori già non stanno più facendo un’autentica discussione.
Siccome molte volte questo passaggio dal mero irenismo al relativismo è inavvertito, è possibile che le parti s’illudano di stare ancora discutendo, e chiamino “discussione” la loro interlocuzione. In realtà, la discussione-dialogo ha propriamente cessato di esistere; ne rimangono appena le divergenze accidentali e transitorie che sono inerenti al dialogo-indagine, come abbiamo visto (cap. IV, 1, B, j).
Questo mutamento relativistico nelle relazioni tra gl’interlocutori provoca una nuova distorsione della parola-talismano “dialogo”. Il suo carattere, da semplicemente irenistico qual era, finisce col diventare relativistico; perciò essa non include più la discussione-dialogo e comprende solo il dialogo-intrattenimento e il dialogoindagine.
Nell’avvicinarsi sempre più al mito dell’“era della buona volontà”, la parola “dialogo” diventa sempre più attraente e rifulgente agli occhi degli irenisti relativisti; essa trasmette ardori sempre maggiori al desiderio di unità, preparando così la fase seguente.
Esempio concreto.
Spinto dalla parola-talismano sulle vie sempre più sofisticate dell’irenismo, il nostro tomista fa ancora un passo ulteriore nel suo lavoro dialogante. Quelle divergenze dottrinali che, nella fase precedente, aveva già tanto sottovalutato pur di favorire i punti di convergenza, ora cominciano a sembrargli inconsistenti. In quelle divergenze, egli si mette a scoprire barlumi di verità e di errori da ambo le parti. Le differenze starebbero più nelle formule che nel contenuto. In ultima analisi, una stessa “verità” globale, del tutto relativa e presente perfino nelle più opposte formulazioni, costituirebbe il substrato di una realtà varia e indefinitamente mutevole.
Impugnando una lente d’ingrandimento, il nostro irenista comincia a cercare testi di san Tommaso che, presi isolatamente, sembrano giustificare il proprio relativismo. Egli ormai non è più tomista, se non perché ha la speranza o l’illusione di trovare in san Tommaso segni precursori di Kierkegaard. In realtà, del tomismo non gli resta più nulla; egli è già un relativista convinto, forse senza rendersi conto di quanto accade nella sua mente.
A questo mutamento interiore succede un cambiamento nel tono delle sue relazioni con l’esistenzialista. In questa terza fase, nella quale l’irenismo sfocia nel relativismo, egli passa ad eliminare quella discussione-dialogo che, nella fase precedente, gli pesava come la palla e la catena di ferro al piede del forzato. Le relazioni con l’esistenzialista si riducono al dialogo-intrattenimento e al dialogoindagine irenistici.
Forse questo tomista, che ormai non lo è più, chiama ancora “discussione” queste forme d’interlocuzione che ormai non hanno più nulla in comune con la discussione. Designando in ogni fase le relazioni irenistiche così come vi sono praticate, la parola-talismano “dialogo” non include più la discussione-dialogo ma solo gli altri due tipi di colloquio irenistico, pregni di concezioni relativistiche.
In questa fase, dunque, dialogare talismanicamente significa praticare un relativismo radicale. L’euforia di dialogare, il prestigio talismanico del “dialogo” irenicorelativistico, eccitando ancor di più i pruriti irenistici nel nostro tomista, lo preparano alla quarta fase.
Quarta fase: il relativismo irenistico si struttura in termini di hegelismo: la parola-talismano assume il significato del "ludus" hegeliano.
Come il relativismo non è il contrario dell’irenismo ma la sua pienezza, così in questa fase il relativismo riesce a ricevere un arricchimento che non lo contraddice, ma anzi lo conduce alla pienezza. Ansiosi di portare il relativismo fino alle sue ultime conseguenze, gli interlocutori non si contentano più di un relativismo meramente negativo, che mira solo a corrodere e dissolvere i concetti di verità oggettiva e di errore oggettivo. Infatti ciò che è meramente negativo ripugna alla natura umana. Passando al piano positivo, gli interlocutori desiderano strutturare un’intera visione relativistica dell’uomo, della società e dell’universo.
In questa fase la verità, già anteriormente ammessa solo come qualcosa di relativo, passa ad essere vista come il risultato di una eterna dialettica. Dopo aver assunto il carattere di mero intrattenimento e d’indagine, il “dialogo” comincia ad essere praticato come un ludus, un gioco nel quale entrambe le parti in causa ammettono che, a forza di dialogare, si produrrà tra di loro una decantazione della verità, come mediante il contrasto tra tesi e antitesi si giunge alla sintesi.
Giunge così l’ultima fase della deformazione talismanica della parola “dialogo”: è quella hegeliana. Essendo evidentemente realizzato da “uomini di buona volontà” e impregnato del mito irenistico, il contrasto tra la tesi e l’antitesi sarà fondamentalmente un ludus cordiale, e tanto più cordiale quanto più va progredendo in mosse successive. Il contrasto tra tesi e antitesi potrà assumere a volte la forma della discussione pura e semplice o perfino della polemica. Ma non ne avrà la sostanza, perché non presuppone un antagonismo assoluto tra verità ed errore, tra bene e male.
Pertanto, il dialogo irenistico non mira più a mutare le convinzioni delle parti in causa, ma solo a elevarle verso una “verità” di livello superiore (36).
Esempio concreto.
Quel tomista irenico, che immaginiamo come esempio, nel suo ardore non può più accontentarsi di un relativismo meramente negativo. Egli cerca di strutturare una dinamica globale che spieghi le relazioni esistenti tra le mille formulazioni opposte nelle quali, come gli sembra, abita la “verità”.
Soprattutto, egli desidera trovare in queste relazioni qualcosa che tenda ad abolire le opposizioni per evolvere verso l’unità. Questa eliminazione, egli non può concepirla nel modo in cui avrebbe fatto prima dell’inizio del procedimento talismanico, ossia come una condanna, fondata sul raziocinio, di tutte le formulazioni eccetto quella proclamabile come l’unica pienamente vera.
D’altra parte, egli è in presenza di un fatto palpabile: queste formulazioni opposte si trovano in uno stato di contrasto reciproco, continuo e irrimediabile.
Irrimediabile? O il rimedio consisterà proprio in questo contrasto? Il nostro tomista si compiace di rispondere affermativamente. Il contrasto tra le “verità” relativamente opposte produrrebbe, per via di superamento, una sintesi; dall’universale contrasto tra le tesi e le antitesi, generando nuove sintesi che, attraverso nuovi contrasti con formulazioni antitetiche, produrrebbero progressive sintesi, sorgerebbe un grandioso processo di universale distillazione delle “verità” e della “verità”.
Ben inteso, al contrario dell’“antipatico” e “discriminatorio” procedimento del tomismo medioevale, in questa distillazione nulla verrebbe condannato e nulla verrebbe escluso. Tutto sarebbe fraternamente e amorevolmente incluso nella produzione delle sintesi successive.Lo stesso tomismo viene ora visto dal nostro tomista irenico come una delle formulazioni della “verità” che, emanando profumati incensi dottrinali, contribuisce a questo processo di universale riconciliazione ideologica.
Egli forse immagina di essere ancora tomista. Forse s’impegnerà ancora nell’impesa di mutilare l’opera di san Tommaso, strappandole con violento arbitrio i frammenti che gli servono per presentare al secolo XX quel new look dell’Aquinate che è il rovesciamento del Dottore Comune.
In realtà, non è difficile notare che, sotto la seduzione del mito irenico e volando sulle ali della parola-talismano, il nostro tomista si è trasformato in un autentico hegeliano, rivestito di una superficiale vernice tomista.
Al principio del procedimento, come ne sarebbe stato sorpreso, se avesse potuto immaginare che, guidato dalla parola-talismano “dialogo” come da una maligna stella, alla conclusione di un’inavvertita evoluzione sarebbe trasbordato all’hegelismo… proprio a quell’hegelismo che prima ripudiava come contrario a tutto quanto riconosceva come vero in filosofia!
Note
32. Intendiamo qui la parola irenismo non nel senso di un temperato amore per la vera pace, ma nel senso di uno sregolato amore per una pace ottenuta ad ogni costo, a danno dei principi, dei diritti acquisiti, eccetera, insomma a danno della vera pace. Su tale irenismo dice Pio XII nella enciclica Humani generis (12 agosto 1950): «Esiste anche un altro pericolo, che è tanto più grave in quanto si nasconde sotto il manto della virtù. Vi sono molti che, deplorando la discordia del genere umano e la confusione regnante negli spiriti, come pure mossi da un imprudente zelo delle anime, sono vigorosamente spinti da un ardente desiderio di rompere la barriere che separano tra loro le persone rette e onorate, e abbracciano un irenismo tale che, ponendo da parte le questioni che dividono gli uomini, pretendono non solo di combattere in unione di forze contro l’ateismo soggiogatore, ma anche di conciliare opinioni contrarie, perfino nel campo dogmatico. (…) Se tali persone non pretendessero altro che adeguare meglio, con qualche rinnovamento, l’insegnamento ecclesiastico e i suoi metodi alle condizioni e alle necessità attuali, non vi sarebbe quasi ragione di temere. Ma alcuni, accesi da un imprudente irenismo, sembrano considerare come un ostacolo al ristabilimento dell’unità fraterna ciò che si fonda sulle leggi e sui principi stessi dati da Cristo e sulle istituzioni da Lui fondate, o ciò che costituisce la difesa e il sostegno dell’integrità della Fede. Se questo crollasse, tutte le cose verrebbero unificate, sì, ma solamente nella rovina!» (Pio XII, Discorsi e radiomessaggi, vol. XII, p. 498). Di questo irenismo parla anche, in termini espressivi, il Santo Padre Paolo VI nel passo, tratto dalla esortazione ai parroci e predicatori quaresimalisti romani, riportato alla nota 23 di questo nostro studio.
33. In un futuro più remoto, la parola-talismano “dialogo” potrebbe forse portare coloro che l’usano a una posizione religiosa gnostico-platonica, nella quale gli interlocutori, mediante l’uso della parola, procurerebbero di risvegliare reciprocamente le reminiscenze del passato anteriore alla caduta? Non v’è dubbio che, nella parola “dialogo”, vi sono elementi utilizzabili per questo passaggio da Hegel a Platone. “Habent sua fata libelli”, dice un proverbio; “habent sua fata verba”, diremmo della parola in generale, specialmente della parola-talismano. “Chi vivrà, vedrà”; è qui difficile andare oltre le congetture.
34. È evidente che la parola “mondano” non viene qui usata nel senso corrente, ossia di persona eccessivamente abituata alla vita di società elegante, raffinata e spesso frivola. La frivolezza è sempre un male; l’eleganza e la raffinatezza sono in sé lodevoli; se la frivolezza è un aspetto della mondanità, nel senso che diamo a questa parola, l’eleganza e la raffinatezza possono non esserlo.
35. [Alcune espressioni, qui usate dall’Autore per ritrarre la figura del tomista “esistenzialisteggiante”, potrebbero indurre il lettore a vedervi una implicita allusione al p. Cornelio Fabro, grande filosofo-teologo cattolico noto anche per aver tradotto e divulgato in Italia le opere di Kierkegaard, nel tentativo di sottrarle alla deformazione esistenzialistica promossa dalla scuola tedesca (cfr. E. Fontana, Fabro e l’esistenzialismo, Edizioni del Verbo Incarnato, Segni 2000). Si tratta però di un equivoco. L’Autore qui critica non quegli studiosi, come Fabro, che hanno “riletto” Kierkegaard in chiave tomistica, bensì quegli studiosi che hanno “aggiornato” il tomismo in chiave esistenzialistica; alludiamo a noti filosofi e soprattutto teologi, come i padri Maréchal, De Lubac, Rahner, von Balthasar, Lotz, Welte, Tischner, Nédoncelle; spesso seguaci del cattolico Blondel, del protestante Barth e dell’ateo Heidegger, costoro hanno effettivamente corrotto non solo l’originario e autentico tomismo, ma anche l’intero pensiero della Terza Scolastica, riducendoli a un modernismo soggettivistico, relativistico e pragmatico. Invece l’Autore e il gruppo di studi dell’associazione T.F.P., da lui fondata, stimarono ed elogiarono il p. Fabro, anche in quanto avversario proprio di quella corruzione della Scolastica presupposta dalla nouvelle théologie filo-esistenzialistica
(N. d. T.)]
36. Si potrà forse dire che, nella fase hegeliana, tutte le forme d’interlocuzione tra persone di posizione ideologica differente (ossia il dialogo-intrattenimento, il dialogo-indagine, la discussione-dialogo, la discussione pura e semplice, la polemica), pur continuando ad esistere in apparenza, si riducono in realtà a mere forme del ludus hegeliano? Per rispondere affermativamente sarebbe necessario, a rigor di logica, insistere sul fatto che ciascuna di queste forme d’interlocuzione, in quanto incubata da un significato ludico, ha una somiglianza solo estrinseca con la stessa forma presa nel suo significato legittimo (cfr. cap. IV, 1, B). Ammesso ciò, non vediamo alcun ostacolo nel rispondere affermativamente alla domanda sopra formulata. Ma l’analisi di queste prospettive più ampie richiederebbe un lavoro a parte.