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Riflessioni sulla morte di Stalin

Settant’anni fa, il 5 marzo 1953, moriva a Mosca Iosif Stalin. Ecco alcune riflessioni* di Plinio Corrêa de Oliveira sulla fine del dittatore, mettendola a paragone con quella di un uomo di Fede.

 

 

di Plinio Corrêa de Oliveira

Oggi la nostra riunione, che solitamente si chiama “Il Santo del giorno”, potrebbe quasi chiamarsi “Il diavolo del giorno”... Leggerò con voi una scheda sull’agonia e morte di Iosif Stalin (1878-1953). Il testo è estratto dall’autobiografia di sua figlia, Svetlana Alliluyeva[1]:

“La respirazione diventava sempre più affannosa, era ovvio che la fame di ossigeno andasse aumentando.

“Il suo viso divenne sempre più cupo, i suoi tratti cambiarono al punto da diventare irriconoscibili, le sue labbra diventarono nere. Nelle ultime ore, egli semplicemente soffocò progressivamente. Fu un’agonia atroce! Come se qualcuno lo stesse strangolando davanti a tutti.

“A un certo momento, evidentemente già all’ultimo minuto, all’improvviso aprì gli occhi e li rivolse verso quelli che gli stavano intorno. Era uno sguardo terribile! Forse pazzo, forse furioso e pieno di terrore di fronte alla morte e ai volti sconosciuti dei dottori che si inchinavano davanti a lui.

“E il suo sguardo sferzò tutti per una frazione di minuto. A questo punto – è una cosa incomprensibile e orribile, che ancora non capisco, ma che non posso dimenticare – a questo punto alzò improvvisamente il braccio sinistro, che non era paralizzato, e lo puntò verso l’alto come a minacciare tutti.

“Il gesto è rimasto per me incomprensibile, ma ricordo che era carico di minacce. Non so a chi fosse rivolto. Nell’istante successivo, facendo un ultimo sforzo, l’anima si staccò dal corpo”.

La narrazione è molto ben fatta. Io ritengo che certe narrazioni ben fatte valgano più di un film, o più di un documentario fotografico. Nei film la persona riceve molte impressioni simultanee, ma non sempre riesce a selezionarle per evidenziare quelle veramente più importanti e rilevanti.

Nel caso concreto, il quadro è grandioso. Possiamo immaginare la vastità del Cremlino, la misteriosa fortezza al centro di Mosca, tutta murata e recintata. Al suo interno si svolge un dramma terribile: il dittatore, l’uomo sanguinario e dissoluto che per decenni aveva governato l’Unione Sovietica con mano di ferro, sta morendo. Il corso inesorabile della malattia, o dell’avvelenamento, raggiunge il suo parossismo, provocando una lacerazione: l’anima si stacca dal corpo. Il robusto organismo di Stalin si mostra impotente davanti alla morte.

Una morte lontana dalla grazia di Dio

La morte lo prostra. Egli reagisce con una sorta di furia selvaggia, primitiva, con un’esplosione di forza biologica e psicologica. Alla fine, però, si deve arrendere… Tutto in lui si rompe, si dilania, si scioglie. Egli cerca di reagire con impetuosità, man mano si accorge che i colpi della morte lo stanno abbattendo…

È come un albero immenso, del quale possiamo calcolare il vero diametro solo quando il boscaiolo comincia a sferrare i colpi d’ascia e, poco a poco, ci si accorge quanto fosse grosso il tronco. È così che cadde Stalin.

Si vede che egli muore lontano dalla grazia di Dio. Non c’è niente nella scena che esprima un’idea di Religione. Tutta la sua vita è stata quella di un ateo, di un propugnatore dell’ateismo. Di un uomo che, pur forse credendo segretamente in Dio, lo aveva tanto offeso da potersi presumere che sia caduto nel peccato della disperazione, quando non anche in quello di negare l’esistenza di Dio. Egli muore nell’odio e nella disperazione, il suo corpo ansima, si soffoca, minato da tutte le parti.

Lui, che nella vita non aveva fatto altro che governare con il terrore, a un certo momento si rende conto della situazione in cui si trova. Spinto dall’odio, apre gli occhi e, considerandosi forse avvelenato, vittima di una congiura, fulmina tutti con uno sguardo terribile. Sentendosi sconfitto, cerca di reagire. Alza il braccio che aveva ancora a disposizione in segno di minaccia, perché è l’unica cosa che sapeva fare. Poco dopo, Dio chiama la sua anima al giudizio. Il braccio cade e lui non è altro che un cadavere...

L’uomo che aveva odiato per tutta la vita, l’uomo che aveva sempre governato con la brutalità e col terrore, quest’uomo si piega e si spezza. Subentra la placidità del cadavere. Per chi sa interpretare questa scena con gli occhi della Fede, non resta che esclamare: Dio ha vinto!

Quest’uomo ne aveva fatto di tutti i colori. E adesso era finita! Quando Dio ha deciso di chiamarlo, non gli è stato possibile prolungare la propria vita un solo minuto in più. Egli giaceva lì, completamente devastato. Come cadavere, non era più niente, non aveva più niente, non poteva fare più niente. Era finita!

L’inutilità della rivolta contro Dio, l’inutilità dell’ateismo, l’inutilità dell’odio contro la Fede si palesa in questo momento estremo perché, alla fine, Dio vince completamente. L’anima di Stalin si è dovuta presentare davanti al giudizio divino come qualsiasi altra, come qualsiasi piccola anima, povera e insignificante. Egli, che per certi versi era stato un gigante, davanti a Dio era niente. Tutto porta a supporre che, salvo una conversione all’ultimo momento, egli, il malvagio, sia stato cacciato in quel bidone della spazzatura, in quel penitenziario della creazione che è l’inferno, mentre altre anime, magari piccole e insignificanti, erano invece chiamate nel seno di Dio, per adorarlo per tutta l’eternità. Ecco la fine che fa l’odio.

Escluso dal piano della Creazione, avendo rifiutato la grazia divina, tutto porta a supporre che egli sia passato da quella stanza del Cremlino direttamente all’inferno, dove è cominciata la sarabanda infernale.

Il peggiore tormento: la lontananza da Dio

L’anima condannata all’inferno ha l’orribile tormento di sentire il rifiuto di Dio già dal primo istante del suo giudizio. L’ora dello squarcio, quando l’anima si separa dal corpo, deve essere terribile. Se tagliarsi un dito è già così terribile, possiamo solo immaginare il tormento dell’anima che si stacca dal corpo.

Quando una persona piena di odio per Dio compare davanti a Lui, la prima cosa che sente è il rifiuto del suo Creatore. E sentire il rifiuto di Dio è incomparabilmente più terribile che morire. Dopo il giudizio, la persona condannata è cacciata all’inferno. Cadendo, capisce subito che quel fuoco la brucerà per tutta l’eternità, in mezzo a tormenti infiniti, a vessazioni e a urla di terrore. Mentre le anime che entrano in Paradiso sono accolte in mezzo a cori di gioiosa armonia, quelle malvagie che vanno all’inferno sono accolte dalla sinistra aggressione di tutti contro tutti, in mezzo a risate di infelicità, orrori e lacerazioni.

Santa Teresa d’Avila vide misticamente il suo posto all’inferno. Lei descrive l’inferno come una serie di forni ardenti, messi in linea come celle. Per ogni persona condannata c’è una cella, ma è troppo piccola, sicché la persona viene piegata in una posizione orribile e dolorosa. La persona è infilata lì dentro e brucia per tutta l’eternità, nel buio e nella più completa disperazione.

Tutto porta a credere che, cadendo dall’alto del potere assoluto nel Cremlino, Stalin sia precipitato in questo completo annientamento. Prima di morire, l’ultima bestemmia, il supremo atto di odio. Poi la punizione! Tutto era finito! Così finisce il potere di chi sfida Dio Nostro Signore.

La morte del giusto è l’ascesa verso l’apoteosi

Vale la pena commentare la morte di un empio? Penso che ne valga la pena. Così possiamo fare il contrasto con quella di un cattolico. Per quanto terribile possa essere la morte, il cattolico muore coscientemente, lucidamente, per lui la morte non è una cosa inattesa. Egli vede la morte con gli occhi della Fede, sa che si sta progressivamente distaccando da un corpo mortale, che è una carcassa che lo trattiene quaggiù, impedendogli di vedere Dio. Egli sa che negli ultimi attimi dovrà soffrire molto, che nel momento supremo avrà uno shock tremendo. Ma sa che, subito dopo, sarà nella visione beatifica, vedrà Dio con indicibile perfezione ed entrerà nella felicità infinita e completa!

Nello stesso tempo, egli vedrà tutte le anime del Cielo, a cominciare dalla Madonna e gli angeli, vedrà il Paradiso celeste, che è incomparabilmente più alto, più bello, più nobile del Paradiso terrestre. E lì avrà gioie senza fine. Durante l’agonia, il cattolico sente che la morte lo sta liquidando, ma non ha l’idea di andare verso l’umiliazione, bensì verso la glorificazione, dove riceverà la sua corona di gloria.

In questo senso, la morte di un cattolico è la via verso quella che potremmo chiamare apoteosi. Il momento dell’ultimo orrore è anche il momento in cui tutti gli orrori finiscono e inizia un’eternità felice. L’uomo sente come uno spruzzo profumato che lo rinfresca: è l’amore di Dio che lo avvolge, che lo attira a Sé, che gli restituisce tutto ciò che la vita aveva messo in lui di ferite, di dolori e di sofferenze.

Possiamo farci un’idea del Paradiso considerando le visioni di alcuni mistici. Essi descrivono gli stati di estasi come una beatitudine insondabile. Anche se durano pochi attimi, le estasi producono una felicità indicibile. Il mistico su questa terra prova, di sfuggita e in modo incompleto, ciò che nel Cielo proverà l’anima che vede Dio faccia a faccia. Per il cattolico, la morte rappresenta il passaggio a questa visione beatifica.

Mi viene in mente l’espressione del poeta francese Racine: “Pour réparer des ans l’irréparable outrage”, cioè per riparare l’irreparabile oltraggio degli anni[2]. La vecchiaia e le sofferenze sono un oltraggio che non risparmia nessuno. L’uomo di Fede, però, sente questo decadimento ed esclama: “Camminando verso la vecchiaia cammino verso la mia risurrezione!”. Egli sa che diventerà cadavere, e poi polvere, ma che un giorno risorgerà, la sua persona si ricostituirà e andrà in Cielo con Dio.

Qualche tempo fa ho letto la vita di Georges Clemenceau. Egli era ateo. Come Presidente del Consiglio dei ministri di Francia durante la prima Guerra mondiale, aveva dato alcune mostre di grande coraggio, per esempio andando a visitare le trincee in prima linea. Ebbene, raggiunta l’estrema vecchiaia, egli rimaneva ore ed ore fermo, incapace di smettere di pensare alla morte che sentiva stesse arrivando.

Che contrasto con l’atteggiamento di San Luigi Gonzaga. Un giorno, nel noviziato dei gesuiti a Roma, egli stava giocando. Qualcuno gli domandò cosa avrebbe fatto se avesse saputo che, da lì a quindici minuti, sarebbe arrivata la fine del mondo. Forse si aspettava una risposta del tipo: “Mi fermerei a pregare”. San Luigi invece rispose: “Continuerei a giocare”. Ecco la serenità d’anima del cattolico illuminato dalla Fede. Quanto è diverso dalla fine di Stalin!

Ecco come muore un cattolico e come, invece, muore un empio. Due vie opposte sulle quali faremo bene a meditare.

Attribuzione immagine: By Bradford Timeline, CC BY-NC 2.0, Flickr.

 

Note

[1] Svetlana Alliluyeva, Vingt lettres à un ami, Editions du Seuil et Editions Pierre Charron, 1967, p. 24.

[2] Racine, Athalie, II, 5.

 

*Riunione per soci e cooperatori della TFP brasiliana, San Paolo del Brasile, 13 gennaio 1975. Tratto dalla registrazione magnetofonica, senza revisione dell’autore. Traduzione di Tradizione Famiglia Proprietà. I sottotitoli sono redazionali.

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