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L’America Latina si tinge di rosso con l’aiuto del progressismo cattolico

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di Julio Loredo

 

Avendovi messo piede con la vittoria militare di Fidel Castro a Cuba nel 1959, il Comunismo internazionale si lanciò alla conquista dell’America Latina intera. Abbondano i documenti del Comintern (l’Internazionale comunista) che mostrano il grande interesse di Mosca per questa regione del pianeta: smisurate risorse naturali, masse proletarie a disposizione, classe politica compiacente e una posizione geostrategica perfetta, a cavallo fra due oceani e sotto il naso dell’arci-nemico, gli Stati Uniti.

Oltre che su una vasta rete di organismi di sinistra, l’assalto comunista poté contare anche su un “compagno di strada” impareggiabile: la Teologia della liberazione che, prendendo forma proprio in quel periodo, traghettò molti cattolici verso sinistra. I risultati non si fecero attendere: dal Perù di Velasco Alvarado, al Cile di Salvador Allende, alla Bolivia di Juan José Torres, al Panama di Omar Torrijos, al Nicaragua della Junta Sandinista, il Comunismo prese il potere in numerosi Paesi, con l’inevitabile sequela di fame, miseria e caos.

Negli anni Ottanta iniziò invece una fortissima reazione popolare di segno contrario. L’elezione di Ronald Reagan alla presidenza degli USA chiuse la “pacchia” di cui aveva fino ad allora goduto Mosca. Mentre il Comunismo sovietico crollava, e veniva quindi meno l’appoggio del Comintern, uno dopo l’altro i Governi di sinistra caddero per via elettorale. L’elezione di Giovanni Paolo II nel 1978 invertì la rotta pure in campo ecclesiastico, culminata con la condanna della Teologia della liberazione nel 1984. Egli nominò inoltre molti vescovi moderati, e anche conservatori, alterando in questo modo l’equilibro delle forze all’interno delle Conferenze episcopali. Il suo successore, Benedetto XVI, continuò e anzi rafforzò questa linea. Sicché, allo scoccare del nuovo Millennio, il continente si era quasi totalmente colorato di blu. Si parlava di “momento conservatore” dell’America Latina, una situazione che sembrava dovesse durare decenni. E invece…

In poco più di dieci anni, la situazione si è rovesciata. Con rare eccezioni, i Paesi latinoamericani sono oggi investiti da uno tsunami rivoluzionario che sta riportando la sinistra al potere. Mentre in alcuni Paesi, come il Perù, si tratta della rinascita dei vecchi fantasmi comunisti, in altri si tratta di una sinistra che si autodefinisce “populista”, e in altri ancora di un nuovo tipo di rivoluzione che al vecchio marxismo unisce l’ideologia libertaria LGBT e un odio anarchico contro ogni parvenza di ordine. Gli analisti parlano di una “rivoluzione molecolare diffusa”.

Dal 2018 hanno vinto le elezioni presidenziali diversi candidati di sinistra, ponendo così fine alla reazione conservatrice nei loro rispettivi Paesi: Carlos Alvarado in Costa Rica, Manuel López Obrador in Messico, Laurentino Cortizo in Panama, Alberto Fernández in Argentina, Luis Arce in Bolivia.

Nel 2019 il Cile è stato scosso da una violentissima rivoluzione di carattere anarchico. Bruciate decine di chiese e devastata l’intera rete della metropolitana di Santiago. I manifestanti esigevano la fine dello Stato di diritto e l’instaurazione di una democrazia partecipativa e libertaria. Esigevano anche la convocazione di un’Assemblea Costituente per sostituire la Costituzione approvata durante il regime di Augusto Pinochet. Cedendo alla piazza, il governo di Sebastián Piñera, conservatore di nome ma in realtà arrendevole, ha quindi convocato elezioni costituenti, tenute due settimane fa insieme a quelle municipali.

Il risultato è stato un ampio trionfo della sinistra. Nella capitale, Santiago, ha vinto la candidata del Partito Comunista Irací Hassler. La futura Assemblea Costituente avrà una maggioranza di estrema sinistra, compresi alcuni leader delle barricate anarchiche del 2019. “Il Paese è cambiato”, ha dichiarato il Presidente.

Fra due settimane, in Perù, si affronteranno al ballottaggio Keiko Fujimori, figlia dell’ex presidente Alberto Fujimori, e Pedro Castillo, candidato di Perú Libre, partito di aperta ispirazione marxista-leninista e favorevole a un’intesa con la guerriglia maoista di Sendero Luminoso. Castillo ha promesso di nazionalizzare l’economia, l’educazione e perfino la cultura, seguendo l’esempio di Cuba e della Corea del Nord. Ha anche minacciato di denunciare il Concordato con la Chiesa cattolica, poiché ritiene che la religione sia uno strumento di “oppressione”. Al momento di scrivere queste righe, i sondaggi mostrano un pareggio tecnico fra i due candidati. Anche se dovesse vincere la Fujimori, il solo fatto che la metà dei peruviani possano appoggiare la sinistra eversiva mostra quanto l’umore del Paese sia cambiato in poco tempo.

Poco o niente si è parlato in Europa di un’altra rivoluzione adesso in atto. Ci riferiamo alla Colombia, messa a ferro e fuoco da orde di manifestanti, molti giunti da Cuba e Venezuela. “Il Paese resta paralizzato dopo oltre due settimane d’immersione nel terrorismo – scrive Eugenio Trujillo – Ciò che sta accadendo in Colombia obbedisce a un piano strategico del marxismo, perfettamente articolato da Cuba e Venezuela, programmato dal Forum di San Paolo ed eseguito dalle FARC (guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia, ndt) e dall’ELN (Esercito di Liberazione Nazionale, ndt), con l’appoggio di altri gruppi sovversivi che operano nella Nazione”. E anche in questo caso, il Governo di Iván Duque (nominalmente conservatore) è tentato dal cedere alla piazza.

Tutto questo configura ciò che gli analisti hanno ribattezzato come “un giro a sinistra” dell’America Latina. È chiaro che un fenomeno tanto complesso non può essere attribuito univocamente a una sola causa. Da attento osservatore della realtà latinoamericana (sono peruviano di nascita) non posso, però, non sollevare una domanda, o piuttosto un sospetto. Questo risveglio della sinistra latinoamericana coincide pressapoco con l’elezione al Soglio Pontificio di Jorge Mario Bergoglio. Non si può affermare post hoc ergo propter hoc. Ma è lecito domandarsi quale ruolo abbia avuto in questo “giro”.

Non appena eletto, Papa Francesco ha riabilitato la Teologia della liberazione che, dall’essere condannata dai precedenti Pontefici, “è ormai entrata definitivamente nella normalità della vita della Chiesa”, secondo quanto dichiarava l’allora portavoce del Vaticano padre Federico Lombardi. Inoltre, ha fatto una serie di nomine vescovili che hanno di nuovo sbilanciato verso il progressismo le Conferenze episcopali. Un caso tipico è mons. Carlos Castillo, punito da Papa Benedetto per le sue simpatie marxiste, e nominato invece da Papa Francesco arcivescovo di Lima, Perù.

A ciò dobbiamo aggiungere, senza entrare nei dettagli per mancanza di spazio, l’ovvia simpatia del Pontefice per le figure della sinistra, da Lula in Brasile a Fernández in Argentina. Ha causato stupore, per esempio, il fatto che durante il suo viaggio a Cuba, mentre abbracciava il dittatore Raúl Castro, Francesco si negasse a incontrare gli oppositori. In ben due occasioni egli ha ospitato in Vaticano l’incontro dei cosiddetti “Movimenti popolari”, in realtà organismi dell’estrema sinistra latinoamericana, perfino con sponde eversive come nel caso del brasiliano MST (Movimento dos Sem Terra).

Tutto questo ha un’enorme influenza sul popolo latinoamericano che, nonostante la crescente emorragia di fedeli verso le sette evangeliche, continua a essere massicciamente cattolico e, quindi, obbediente alla parola e all’esempio della Chiesa. È ancora presto affermarlo, ma non sollevare la domanda, al meno come ipotesi di lavoro: quanto di questo “giro a sinistra” in America Latina è attribuibile all’attuale pontificato?