Che cosa accade in Brasile il 7 settembre?
di Roberto Bertogna
Per capire gli ultimi avvenimenti in Brasile, primo Paese al mondo per numero di cattolici, quinto per estensione territoriale e sesto per popolazione, non conviene leggere i giornali. Anzi. Gli europei in generale, e gli italiani in particolare, sono assai mal informati. Per esempio, chi ha letto il servizio del Corriere della Sera dello scorso 8 settembre molto probabilmente si è fatto un’idea della situazione brasiliana alquanto distante dalla realtà. Proponiamo, in queste brevi righe, di fare un po’ di chiarezza. Premetto che sono brasiliano e seguo la situazione del mio Paese in modo diretto.
Negli ultimi venticinque anni, la sinistra socialdemocratica si era alternata al potere con quella marxista. Quando una vinceva, l’altra andava all’“opposizione” e viceversa. L’elezione della marxista Dilma Rousseff per un secondo mandato presidenziale, nel 2014, è stata giudicata dalla maggior parte dei brasiliani come una frode elettorale. La candidata, infatti, aveva promesso certe cose, salvo poi fare il contrario. Gli eccessi della Rousseff e del suo partito – il PT, Partito dei Lavoratori – finirono per provocare un movimento popolare di malcontento. Iniziarono così a emergere manifestazioni di protesta contro alcune sue politiche, per esempio per chiedere prezzi più bassi nel trasporto urbano. Dalla protesta contro il Governo si passò man mano alla protesta contro l’ideologia sottostante: il marxismo. Le manifestazioni cominciarono quindi ad assumere contorni sempre più ideologici fino a formare un’onda anti-comunista e anti-socialista. “La nostra bandiera è verde, non rossa!”; “Il Brasile mai sarà comunista!”; “Tutti i comunisti a Cuba!”, erano alcuni degli slogan.
La situazione divenne politicamente insostenibile. Facendosi eco del malcontento popolare, nel 2016 il Congresso votò l’impeachment della Rousseff. Subentrò quindi il vicepresidente Michel Temer, che governò per due anni, cioè fino al completamento del mandato. Tutto fatto in accordo alla Costituzione
Le manifestazioni, però, non si placavano. Realizzate simultaneamente in decine di città, esse coinvolgevano ormai milioni di persone. In particolare, il popolo protestava contro la corruzione. Infatti, in quegli anni si era scoperto il più grande sistema mai visto di saccheggio delle risorse pubbliche in favore di un partito politico, appunto il PT. Ciò diede origine al processo noto come Lava-Jato, la versione brasiliana di Mani Pulite, ma con cifre migliaia di volte più consistenti. Quasi tutti i politici della sinistra avevano le mani sporche.
Anche quando convocate per protestare contro certi aspetti concreti del malgoverno petista, l’ispirazione ideologica anti-comunista delle manifestazioni è diventata sempre più nitida fino a esserne la nota dominante. A questo punto, perfino gli analisti di sinistra hanno dovuto rendersi conto che avevano di fronte non un semplice movimento di protesta, ma un fenomeno profondo di opinione pubblica. Quello che soffia nell’opinione pubblica brasiliana e si riversa sulle strade non è una rivolta, bensì una contro-rivoluzione, per usare la nota distinzione. È diventato chiaro che il problema non è il PT ma i suoi contenuti dottrinali. Per troppo tempo la sinistra ha padroneggiato, pretendendo una superiorità morale che a questo punto è crollata. Il Re è nudo. Le proteste di piazza sono sintomo di un profondo cambiamento di mentalità, cosa che i politici del vecchio sistema si ostinano a non vedere, e certi mezzi di comunicazione si guardano dal menzionare. È emersa da ciò quello che possiamo chiamare il “Brasile profondo”, finora imbavagliato e in preda a uno strano letargo, una reazione inaspettata.
Questo profondo mutamento nell’opinione pubblica – ormai oggetto di studi accademici e di analisi sociologiche – è la vera chiave di lettura per capire cosa stia succedendo in Brasile oggi. Impressiona, per un brasiliano come me, che i media europei non ne abbiano ancora quasi parlato, e continuino a trattare la situazione del mio Paese come frutto di una sorta di cospirazione “populista”.
Arriviamo così al 2018. Un ex deputato federale e militare in congedo, Jair Bolsonaro, i cui antenati italiani erano arrivati in Brasile provenienti da Lucca due generazioni prima, emerge nel panorama politico. Intorno a lui si raccoglie un amalgama di conservatori, liberali, centristi e nazionalisti, desiderosi di cambiare la situazione alla radice. Un fatto increscioso contribuisce alla sua fama. Durante la campagna elettorale, Bolsonaro è accoltellato in modo grave da un agitatore legato all’estrema sinistra. A ottobre si tengono le elezioni e Jair Bolsonaro vince con ampio vantaggio, cavalcando l’onda conservatrice che stava investendo il Brasile.
Il presidente eletto era chiaramente un outsider. Pur essendo stato membro del Parlamento, egli non era un esponente del “sistema”. Il suo programma elettorale era culturalmente conservatore: niente aborto, niente agenda LGBT e via discorrendo. In ambito economico la matrice era liberale riformista, aperta alla libera impresa e alla proprietà privata. Perfino il settore militare nazionalista, tendenzialmente nostalgico dello Stato onnipotente, si è ampiamente adattato alla nuova realtà.
Il nuovo governo si è insediato il 1° gennaio 2019. Senza indugio, la sinistra, che non ha mai digerito la clamorosa sconfitta elettorale dopo venticinque anni al potere, ha lanciato una feroce offensiva contro Bolsonaro. L’offensiva è portata avanti nel Congresso dai partiti della sinistra, ma soprattutto attraverso i giudici del Supremo Tribunal Federal (STF), la più alta corte del Brasile, quasi tutti nominati dai governi marxisti precedenti. Infatti, i giudici di carriera costituiscono una minoranza esigua nel STF. La maggior parte proviene dai quadri partitici dell’estrema sinistra e hanno un passato di partecipazione alle lotte proletarie.
La Costituzione del 1988 prevede, come in ogni Paese civile, l’autonomia e l’armonia dei poteri: Legislativo, Esecutivo e Giudiziario. Ora, dal gennaio 2019 i brasiliani assistono allibiti alla crescente invasione del Giudiziario – concretamente del STF – ai danni dell’Esecutivo e del Legislativo, le cui prerogative sono state calpestate decine di volte.
La sinistra sta provando a fare ogni sorta di imbroglio – l’elenco sarebbe lunghissimo! – per screditare e, alla fine, rovesciare il governo Bolsonaro. E ha trovato un alleato di ferro nel Supremo Tribunal Federal, e in particolare nel giudice Alexandre de Moraes, uomo dell’estrema sinistra. Esulando dai suoi poteri, Moraes ha ordinato inchieste incostituzionali, arresti illegali, chiusura di profili Facebook e canali YouTube, demonetizzazione dei canali conservatori e un lunghissimo eccetera. In pratica, qualsiasi critica alla sinistra è suscettibile di essere qualificata fake news, provocando l’immediata chiusura del blog, profilo o canale tramite una “Decisione monocratica” del STF (cioè emanata da un solo membro del Tribunale, nella fattispecie lo stesso de Moraes). I metodi sono nettamente dittatoriali. Per esempio, per ordine di Moraes, le Forze dell’Ordine hanno invaso la residenza di tutti i blogger conservatori, confiscando computer e apparecchiatura elettronica. Alcuni sono tuttora ai domiciliari.
È in questo clima di crescente tensione con il STF – “il più grande partito dell’opposizione”, nelle parole dell’eminente giurista Ives Gandra – che si sono svolte le celebrazioni del 7 settembre, 199° anniversario dell’Indipendenza del Brasile. Non volendo ledere la Costituzione, Bolsonaro ha chiesto una mobilitazione popolare in sostegno al Governo. Ed ecco le massicce manifestazioni, svoltesi in sedici capoluoghi regionali e nella capitale federale Brasilia. Secondo la Polizia, questa è stata la più grande manifestazione nella storia del Brasile.
Da parte sua, la sinistra ha convocato una contro-manifestazione a San Paolo. Le foto sono lì per chiunque abbia occhi per vedere: il confronto è pietoso.
Molti, anche in Europa, si concentrano sul presidente Jair Bolsonaro e sulla sua peculiare personalità, trascurando un punto essenziale. In politica, non vale tanto la persona quanto ciò che essa rappresenta. Bolsonaro è appena la punta dell’iceberg di un fenomeno molto profondo in atto nel Paese, e che ho cercato di tratteggiare qui brevemente.
Queste righe sarebbero incomplete se non parlassimo concisamente del ruolo della Chiesa cattolica e della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (CNBB), nel Paese con la più grande popolazione cattolica del mondo. Sfortunatamente, la cosiddetta Teologia della liberazione domina ancora molti settori della Chiesa in Brasile. Lo stesso PT è stato fondato nel 1980 sotto l’egida del cattocomunismo, con gli auspici dell’allora arcivescovo di San Paolo, cardinale Paulo Evaristo Arns. Anche se il Governo Bolsonaro non ha mai interferito nell’azione della Chiesa, la CNBB costituisce oggi una fucina dell’opposizione al suo Governo, e di sostegno al PT affinché possa tornare al potere.
Fortunatamente, col passare degli anni, e specialmente con l’azione del prof. Plinio Corrêa de Oliveira, si è costituito in Brasile un settore cattolico solidamente conservatore e tradizionalista, che non segue il canto delle sirene della CNBB. A questo, più recentemente, si sono aggiunti alcuni settori della cosiddetta “destra evangelica”.
Il Brasile è molto più grande delle crisi che lo colpiscono. Nel corso della sua storia, il Paese è stato più volte sull’orlo del precipizio, ma è sempre stato capace di rialzarsi grazie alla Divina Provvidenza e alla mano materna di Nostra Signora Aparecida, patrona della nazione brasiliana. Quando leggiamo sui cartelli “La mia bandiera non sarà mai rossa!”, sappiamo che le corde più profonde della nazione, nata nel 1500 con la celebrazione del Santo Sacrificio della Messa, non sono scomparse.
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